Giappone e Stati Uniti tra videogiochi e differenze culturali
Giappone e Stati Uniti sono molto legati per quanto riguarda i videogiochi, ma anche segnati da profonde differenze culturali, vediamole.
Il rapporto tra Giappone e Stati Uniti è un rapporto archetipico di quello tra oriente e occidente. Guerre, fascinazioni, esotismi, scambi culturali, influenze reciproche. Questo rapporto lo si vede in tantissime cose, anche nei videogiochi, territorio in cui il Giappone è stato, ed è ancora, uno dei poli principali di influenza.
Ovviamente, il mondo dei videogiochi non si divide solo in Stati Uniti e Giappone e che non sono gli unici due punti di vista dominanti. Innanzitutto perché negli stessi anni si svilupperà un modo molto “britannico” di fare i videogiochi che ha avuto senza dubbio il suo peso nel settore.
C’è poi la scuola europea, Ubisoft, le case di sviluppo dell’est e nord Europa e nell’ultimo periodo abbiamo visto la crescita dei mercati cinesi e coreani.
Inoltre, chi sviluppa videogiochi inserisce sempre al suo interno idee, opinioni e culture che sono anche personali.
Ultima premessa prima di continuare: per descrivere tutte le differenze e le somiglianze tra queste due culture ci vorrebbe un libro, o come minimo una tesi, ma alla quinta pagina di testo ho preferito fermarmi, fare un respirone e fermarmi, per non sfiancare voi e me con una maratona.
In fondo, qualcosa si può dire senza dover andare in una stamperia. Vedetelo più come un modo per farvi guardare i videogiochi in modo diverso, se non ci avete mai pensato.
Dal Famicom a una scatola grigia
Fantasie di potenza e botte per imparare
Egemonie culturali
Da una prospettiva europea e italiana l’influenza degli Stati Uniti sulla nostra cultura popolare appare evidente senza nemmeno doversi mettere troppo a cercare delle prove e a scomodare testi o saggi di sociologia.
Dal dopoguerra in poi, l’influenza politica degli Stati Uniti è stata doppiata da quella di un immaginario cinematografico e seriale che ha lentamente ma costantemente eroso la centralità della produzione italiana. E questo vale non soltanto per la televisione, ma anche nei giocattoli e nel fumetto.
Uno dei pochi spazi in cui l’egemonia culturale statunitense ha dovuto cedere il passo sono stati proprio i videogiochi (E, nel caso italiano, è importante segnalare anche lo spazio che gli anime e poi i manga hanno saputo ritagliarsi negli anni fino a diventare oggi un fenomeno in grado di dominare le classifiche in libreria).
Tutto questo è successo più o meno attorno al 1983, anno in cui l’industria videoludica americana crolla sotto varie spinte: la concorrenza spietata del mondo PC, le scellerate decisioni di Atari, la liberalizzazione del mercato e il conseguente dilagare di software spazzatura che fa crollare la fiducia del pubblico.
Un crash che, sia chiaro, da noi si è sentito ben poco. Si sentiva già invece l’influenza americana sul mercato giapponese, dato che nel 1983 erano già usciti Donkey Kong, Pac-Man e Space Invaders, una sacra trimurti che per molti rappresenta ancora oggi il concetto di videogioco.
Dal Famicom a una scatola grigia
Quando succede il patatrac i Giapponesi ovviamente non ne sono felici, perché gli Stati Uniti erano comunque un mercato importante, ma riescono a puntellarsi col mercato interno. Caso vuole che l’83 fu anche l’anno di uscita di NES e Sega SG-1000 che diedero il via alla terza generazione di console ma anche alla successiva dominazione giapponese del settore.
Ci vollero due anni a Nintendo per mettere piede negli Stati Uniti e vincere le reticenze dei distributori americani, due anni in cui Atari prima si tirò indietro all’ultimo momento e dove Nintendo dovette completamente rivedere il form factor della console e puntare tutto su Rob, il robottino con cui giocare a un paio di titoli, tanto affascinante quanto inutile, e il fatto che con la light gun potevi sparare come al luna park.
E già il fatto che il NES sia dovuto trasformarsi da una sorta di piccola astronave in uno scatolotto grigio con una pistola dice tanto delle differenze culturali tra i due paesi.
È tautologico dire che Stati Uniti e Giappone sono due culture profondamente differenti, due culture che si sono anche fatte la guerra e la dominazione statunitense sul Giappone ha avuto profondissime influenze culturali su entrambi i Paesi. Semplificando moltissimo, alcuni elementi essenziali dei manga, come gli occhi molto grandi, arrivano dall’influenza di personaggi come Betty Boop e il pantheon Disney, per diretta ammissione di Osamu Tezuka (che a Natale mandava sempre biglietti d'auguri a Carl Barks).
Semplificando ancora di più, le differenze tra i videogiochi orientali e occidentali si appoggiano sulle differenze che le culture orientali e occidentali mostrano quando compariamo le storie che raccontano. Storie che si poggiano su valori politici, religiosi, economici e culturali.
Salary Man e Self Made Man
La cultura americana del self made man, le armi, il puritanesimo e la chirurgia plastica, l’America come faro della civiltà occidentale, il liberismo, ma anche l’antistato dei survivalisti e delle zone rurali. Dall’altra parte una cultura di sacrificio, del “ganbatte”, una visione femminile dicotomica.
In occidente una degli architravi della narrazione è ovviamente l’archetipo del viaggio dell’eroe (su quello dell’eroina magari ne parleremo poi) e il suo ciclo basato interamente sul cammino del personaggio principale che vive una serie chiamate all’azione, alleanze, contrasti, sfide e ricompense per poi tornare al punto di partenza, più saggio di prima. È un ciclo fortemente basato sul conflitto, che sia fisico, interiore, di forze o di valori.
Sono archetipi che ci arrivano direttamente dalla tradizione orale, dalla tragedia e dalla commedia greca, le parabole religiose e che, pur con molte variazione e aggiunte, ci portiamo dietro da secoli.
Un altro valore fondamentale per gli occidentali, soprattutto per gli Stati Uniti, è il senso di chiusura, magari con un happy ending o un insegnamento morale. Un valore che in Europa per anni è stato molto meno presente ma che è ben chiaro quando analizziamo le riscritture Disney pensate per un pubblico giovane delle cruentissime fiabe europee e all’ossessione per il “e vissero felici e contenti”.
In Giappone ovviamente il viaggio dell’eroe è arrivato e il conflitto è senza dubbio una parte importante di molte storie, ma non è detto che sia il punto centrale. Anche se parliamo di una cultura profondamente stressante dove tutti si aspettino da te che tu faccia del tuo meglio per gli altri e vieni fortemente responsabilizzato fin da piccolo, dal punto di vista narrativo è più diffusa una struttura definita Kishotenketsu e che fa parte della struttura retorica cinese, coreana e giapponese.
Il Ki pone le basi della storia e presenta i personaggi, lo sho è lo sviluppo che elabora la trama, ten è la svolta inaspettata, il culmine narrativo che mette in discussione determinate considerazioni e infine arriva ketsu, la conclusione e il compimento degli eventi.
Come tutto questo si applica ai videogiochi?
Intanto è interessante notare come il genere degli FPS sia in cima a moltissime classifiche mondiali tranne che in Giappone, dove è un genere in cui pochissimi sviluppatori si cimentano.
Ma queste enormi sovrastrutture si legano anche moltissimo al modo in cui i videogiochi vengono raccontati, alle dinamiche che sviluppano e al modo in cui vengono rappresentati nei due grandi insiemi culturali.
Kawaii vs graficone
Partiamo dall’aspetto visivo: pur considerando le molte eccezioni è evidente che il forte legame della cultura giapponese/coreana con gli ideogrammi, l’animazione, il fumetto, la cura del tratto, della rappresentazione e della presentazione degli oggetti abbia influenzato anche i videogiochi.
Fin dai tempi di Pac Man i giochi giapponesi hanno ricevuto un trattamento speciale per quanto riguarda l’aspetto visivo, sia dell’ambiente che dei personaggi. Il verosimile nei giochi giapponesi non è quasi mai un valore assoluto, anzi, spesso è secondario o comunque subordinato a immagini eccessive, spettacolari e cartoonesche. C'è poi tutta la questione della rappresentazione femminile (sia come archetipi, che come aspetto) e il fanservice, ovvero l'inserimento di personaggi formosi e provocanti a cui non si sottraggono neppure game designer come Hideo Kojima (sì, sto parlando di Quiet).
Di contro, in occidente la ricerca del vero, del fotorealismo e di una palette cromatica più spenta e verosimile è utilizzata frequentemente. Forse c’entra qualcosa il modo in cui le varie culture percepiscono l’arte e la rappresentazione della realtà. Una ricerca che, nonostante decenni di arte moderna, sembriamo ancora molto legati.
Insomma, a volte basta uno sguardo per capire da che parte arriva un videogioco.
Anche l’organizzazione visiva delle interfacce è radicalmente differente. Molte volte ci stupiamo nel vedere come i menù di alcuni prodotti giapponesi siano essenziali, spartani, a volte identici a 30 anni fa. Ma in Giappone se qualcosa va bene così difficilmente si cambia, senza contare il loro bisogno di trovare molto spazio per gli ideogrammi. Sono il paese in cui ancora si producono fax, i bancomat, se possono, evitano schermi touch e i flip phone non sono mai spariti.
Percorsi differenti.
Per quanto riguarda invece la narrazione, l’individualismo occidentale tende a porre il giocatore in una posizione singolare e privilegiata. La storia è quella del protagonista che quasi in solitaria vive avventure e sfide che lo porteranno a primeggiare, aumentando le proprie capacità. Sono spesso “fantasie di potenza” in cui tu, adolescente o tendenzialmente maschio bianco, sei la centrale figura del salvatore che può farcela con i suoi mezzi speciali.
A volte queste avventure sono vissute in prima persona, proprio per aumentare maggiormente il senso di “vivere” all’interno del personaggio.
La narrazione occidentale tende anche a essere molto più aperta e legata al concetto di open world (Sì, lo so, c’è Zelda che guarda e ride, ma Zelda è Zelda) e alla massima libertà possibile nei confronti del giocatore.
Di contro la narrazione orientale, pur sperimentando ovviamente con la libertà d’azione, tende ad avere un maggior controllo sul giocatore e sulle briglie narrative. E se l’obiettivo della narrazione occidentale è lo scontro, quello della narrazione orientale è spesso l’incontro, vissuto da una prospettiva dove il giocatore può vivere anche più punti di vista e non solo quello del protagonista della storia.
Viene spesso detto che nei racconti giapponesi si parla tanto, anche quando si combatte, questo perché il dialogo, il confronto, vissuto anche attraverso lo scontro marziale e no, è essenziale in determinate culture orientali. C’è sempre una mediazione: tra individuo e individuo, tra individuo e ambiente.
Riprendendo poi il kinshoutenketsu, i suoi principi sono stati utilizzati quasi certamente nello sviluppo di alcuni capitoli di Mario Bros. Il Ki di Mario sta nel capire come utilizzare le meccaniche di gioco. Lo Shou amplia e ci mostra come usare ciò che abbiamo imparato in uno spazio più complesso. Il Ten è un momento di tensione, magari l’arrivo di un boss e una piattaforma che sparisce all’improvviso, obbligandoci a reagire. La risoluzione del Ketsu arriva quando abbiamo padroneggiato gli elementi e arriviamo alla fine del livello.
Sono l’abc del game design ma è un abc che ci arriva direttamente dal modo di creare un racconto di tipo giapponese e che non è assolutamente legato al bisogno di un “happy ending” che viene spesso inserito per piacere a un pubblico più ampio.
Pensiamo ad esempio al modo in cui Dark Souls, pur ispirandosi al medioevo occidentale, racconta le storie. C’è un set di abilità, uno spazio dove usarle, una sorpresa violenta, dopo la ripetizione più volte di questo ciclo, una risoluzione dove abbiamo imparato qualcosa. Ma il focus di tutto non è il conflitto, ma capire come fare.
Fantasie di potenza e botte per imparare
Dal punto di vista della narrazione, oriente e occidente puntano a due differenti tipi di gratificazione.
Tendenzialmente la narrazione occidentale è costituita da una sensazione di potenza: tu sei l’eroe che sconfigge i cattivi, tu solo puoi farcela, tu sei il centro di tutto. Questo inevitabilmente influenza il punto di vista, come abbiamo detto, ma anche il genere o comunque la sua applicazione.
Spesso il giocatore è messo subito nelle condizioni di essere performante e gratificato da ciò che fa, nonostante le difficoltà sul percorso. Pensiamo ad Halo, Gears of War, God of War, ma anche il viaggio dell’eroe che compiamo in Skyrim.
La cultura giapponese invece è una cultura che dà maggior peso alla collettività, ma anche maggior peso alla disciplina, al tempo, alla ripetizione del gesto fino alla perfezione. Pensiamo a i titoli From, che ti fanno partire dal gradino più basso della scala evolutiva per farti evolvere sempre di più, ma anche a tutto il patrimonio di picchiaduro competitivi da prima di Street Figther II e soprattutto dopo.
I titoli From sono anche un interessante territorio di incontro perché, pur incorporando elementi tipici di una cultura del sacrificio, lo fanno puntando i riflettori sulla storia di un singolo personaggio con grande enfasi sulla libertà di espressione e il percorso personale. Non parliamo quasi mai confini invalicabili.
E poi c’è anche il fatto che non importa solo vincere, importa come vinci. Importano le relazioni che si creano nel frattempo e che spesso servono a ottenere assieme le forze per superare le avversità. Pensate, per esempio, a quanto il dialogo, anche con gli antagonisti, sia essenziale nei battle shonen o in moltissimi JRPG.
JRPG e RPG
Pensando ai generi, si tende spesso a inserire nello stesso paniere RPG e JRPG, ma già il fatto che si dia una connotazione geografica a un genere mostra quanto il fatto di avvicinare questi due insiemi solo perché in entrambi si utilizzano i punti esperienza sia sbagliato. Se poi vogliamo farla breve: se non ci sono dei ragazzini con capelli assurdi e vestiti strani che partono con compliti semplici e si ritrovano a uccidere Dio non è un vero RPG.
Non voglio aprire qua il fronte di “cosa sono i generi, ne abbiamo bisogno, e come classifichiamo i giochi” ma non possiamo limitarci all’uso delle meccaniche per definirli, altrimenti ogni volta che ci sono dei punti esperienza, persino in Call of Duty, dovremmo scomodare gli RPG.
Gli RPG occidentali hanno come grande ispiratore Dungeons & Dragons (che è stato l’architrave anche molte altre cose nei videogiochi, ma non divaghiamo), quindi un sistema basato su un avanzamento dei personaggi e di narrazione della storia ben preciso. Quest, regole, punti esperienza, libertà e narrazione che mediano per ottenere un risultato e così via.
Ovviamente DnD è arrivato anche in Giappone, ma non ha attecchito. Questo è dovuto a motivi culturali, di aggregazione e di spazi, sta di fatto che il Giappone non è mai stato un territorio fertile per i dadi da 20, così come da noi non si vedono sale di pachinko.La sua influenza è molto inferiore rispetto ad altri affluenti che hanno contribuito al fiume di JRPG che scorre ancora oggi.
Ad esempio, le visual novel e i dating sim, ovvero opere che puntano tantissimo sui dialoghi e le relazioni interpersonali. Ancora una volta parliamo di espressione personale, ovvero i giochi di ruolo come DnD, contro l’importanza della narrazione, ovvero i JRPG.
Non è un caso che pilastri del JRPG come Square si siano “fatti le ossa” con videogiochi erotici o dating sim. L’aspetto narrativo, le connessioni tra i personaggi, i loro sentimenti e il dialogo vengono prima del farci ammazzare l’ennesimo mostro e molto, molto prima della libertà di espressione totale.
Semplificando molto, la grande differenza è tra fantasia ed espressione personale contro narrazione e focus su più personaggi ricchi di particolarità. Tra giochi che ti raccontano una storia e giochi che ti mettono dentro la storia.
Col tempo questa divisione si è fatta molto meno netta, anche perché dopo una iniziale dominanza del mercato, i JRPG sono scesi a patti con elementi più tipicamente occidentali e oggi incorporano spesso aspetti che potremmo definire “occidentali”, come il punto di vista di un personaggio principale e la ricerca di ⁹9⁹una verosimiglianza grafica. Ripeto ancora: non sono mai insiemi del tutto separati, soprattutto oggi, che i mercati, pur restando legati ad alcune specificità, sono molto mescolati e le culture sfumano tra di loro.
E credo sia anche arrivato il momento di sfumare questo articolo verso il nero, salutandovi ovviamente con una anime ending estremamente lirica e sdolcinata, oppure con una sigla motivazione all’americana.
Insomma, come direbbe Evangelion: Fly me to the moon, ma come direbbero i G.I. Joe: knowing is half the battle.