Sin dagli esordi di questa rubrica abbiamo affrontato in maniera più o meno diretta il rapporto che ha la narrativa, qualunque forma prenda, con il suo pubblico e ne abbiamo visto le tante sfaccettature. Lo shipping nasce dal desiderio di espandere i rapporti tra personaggi in una direzione a volte contraria a quella del canon, a volte semplicemente più marcata, e nasce quando il fandom desidera vedere, leggere, sperimentare situazioni che non si possono trovare nell’opera originale, in un modo o nell’altro.
Se Kirk e Spock fossero stati apertamente in una relazione sentimentale, sin dall’inizio della serie originale di Star Trek, con ogni probabilità lo shipping come lo conosciamo oggi sarebbe stato molto diverso.
Il rapporto tra il materiale originale su cui si basa un fandom e il suo pubblico è alla base dello shipping, insomma, ma non solamente. È ovvio che una serie tv, una saga di romanzi, un fumetto o un franchise videoludico non possano andare avanti se il pubblico non è contento e non apprezza quello che viene proposto di stagione in stagione, di libro in libro.
Accontentare il fandom, insomma, è una condizione necessaria per portare a casa la pagnotta, in fin dei conti, perché se il tuo pubblico non ti segue più e non apprezza quello che crei, puoi essere anche l’artista o il creativo più brillante e inattaccabile del mondo, ma se non vendi una copia e nessuno legge, gioca o guarda la tua roba, vai avanti pochissimo.
Non si tratta solo di mere regole commerciali, è qualcosa che vale anche per tutto quello che viene creato gratuitamente o che almeno così appare: canali di streaming o di video, content creator sui social, webcomics, podcast, blog e naturalmente fanfiction. Anche in questi casi se perdi pubblico perché non gli dai quello che vuole e al tempo stesso quello che dai non lo vuole nessuno, è facile vedere che fine andrai a fare, no?
Vale la pena ricordare che ovviamente nulla, anche online (sopratutto online, ahimé!) è davvero gratis e se lo sembra i casi sono due: o qualcuno sta pagando al posto nostro, magari l’hosting del sito, magari autofinanziando la produzione di un corto, magari facendo una raccolta fondi, magari perché ogni tanto altri utenti pagano una quota per mantenere quel prodotto “gratuito”, oppure se tutto davvero appare gratis e nessuno sta pagando nulla, il prodotto alla fine sei tu.
Banner pubblicitari, vendita di dati, algoritmi malvagissimi e compagnia bella sono spesso il prezzo da pagare per avere le cose “gratuite”
Anche nel mondo delle fan fiction e dello shipping, se si scrive qualcosa che non ha un pubblico, se scrivi di una ship che è una rareship così rara che nessuno cercherà mai quella tag, se vai a creare contenuti per un fandom ma racconti cose di personaggi dei quali non frega una mazza a nessuno, avrai pochissimo successo e le tue storie finiranno per non essere lette da nessuno. Per carità, i saggi dicono che si scrive per se stessi, certamente, ma se quello che crei cade nel vuoto e non se lo legge nessuno, nemmeno i tuoi amici, alla fine è difficile trovare la motivazione per andare avanti.
Si dice dance like nobody's watching, write like nobody’s reading, va bene, ma dopo una certa soglia l'operazione ricorda il detto secondo cui la definizione di follia è ripetere le stesse azioni e aspettarsi di ottenere un risultato diverso.
Insomma, un minimo di capacità di venire incontro ai gusti del proprio pubblico è necessaria, che si tratti di fanon o di canon, e un materiale originale che andasse completamente contro i gusti e i desideri del proprio fandom avrebbe vita brevissima.
Dov’è però che questo venirsi incontro diventa sbilanciato? Quand’ è che la ricerca di approvazione da parte del proprio pubblico sposta l’ago della bilancia della qualità e manda in vacca un prodotto narrativo? Quand’è insomma che da ragionevole desiderio di venire incontro a chi legge, ascolta o guarda si passa a fare del fanservice?
Il fanservice è quella pratica che fa infilare all’interno di un prodotto narrativo una abbondante farcitura di elementi che stanno lì solo per attirare i fan e “farli contenti”, anche quando questi elementi non ci stanno a dire granché nella storia e magari saltano anche un po’ all’occhio come posticci.
Il termine fanservice in sé deve la sua popolarità e diffusione al mondo dei manga e degli anime e all’interno di questo ambiente in genere finisce per indicare un tipo molto preciso di contenuto inserito apposta per fare da aggancio, ovvero quello sessuale e ipersessualizzato. Il fanservice, il contenuto al servizio dei fan, nel mondo del fumetto e dell’animazione giapponesi è insomma inteso proprio come quell’inserire nelle storie una gratuità di corpi in vari stadi di nudità (a seconda di quanto esplicita è l’opera in questione e del suo rating) e impegnati in atti che possono andare dall’ammiccamento appena pruriginoso a vere e proprie gesta sessuali, spesso mascherando il tutto sotto un velo sottile di umorismo e giocandosi il tutto come momenti comici, un po’ goffi magari, a volte confondendo le cose sotto una cappa da commedia degli errori, insomma.
Quando non c’è questo genere di copertura umoristica o quando i contenuti sessuali diventano il fulcro della storia, senza vie di mezzo allora non parliamo più tanto di fanservice quanto di fumetti o anime espliciti, hentai magari, che a quel punto hanno proprio il sesso al centro della narrazione, dichiaratamente, senza bisogno di ammiccare o deviare.
L’uso della parola fanservice per intendere sesso e sessualizzazione messì lì per far gioire il fandom è popolare anche nei media occidentali, tanto è vero che quando si usa il termine pensiamo subito a personaggi, perlopiù femminili messi in situazioni improbabili pur di farli spogliare o farli finire a contatto fisico molto ravvicinato con altri, oppure alla ipersessualizzazione di corpi e abbigliamento, anche qui più spesso femminile.
Sono stati da sempre considerati fanservice i costumi di molte supereroine e le loro seste coppa E antigravitazionali, le scene di docce anticontaminanti o di incatenamenti di prigionieri in modi assolutamente poco pratici ma assai estetici.
Qual è però la differenza tra un’ inclusione di elementi allusivi in un’opera narrativa - la cui motivazione è semplice, perché, lo sappiamo tutti, sex sells, il sesso vende o magari semplicemente il sesso è una parte integrante del racconto che si sta facendo, può succedere - e il fanservice?
Il bikini dorato di Leia è fanservice o si tratta semplicemente di un pizzico di ammiccamento in un prodotto narrativo tutto sommato fino a quel momento abbastanza “family friendly”? E l’accavallamento di gamba di Basic Instinct è fanservice oppure è un elemento integrante del racconto?
Possiamo dire che si tratta di fanservice puro quando l’elemento - sessuale in questo caso - è infilato nel mezzo della narrazione senza che ce ne sia alcun bisogno e senza che abbia necessariamente un senso nell’economia della storia, ma non è sempre una cosa facilissima da distinguere e le opinioni possono avere un certo peso nella diatriba.
Nel mondo della narrativa occidentale quindi, sì, il fanservice basato sul sesso non è certo un argomento sconosciuto, ma quando parliamo del termine in genere si intende qualcosa di diverso, più generico, non così focalizzato sui contenuti osè (che è una parola bellissima che volevo usare a tutti i costi, scusate). Quello basato sui contenuti sessuali viene più spesso definito sexbaiting, ovvero usare l’esca del sesso per far abboccare chi guarda, ascolta, legge e farlo restare con la promessa che ci sarà altro sesso, più avanti, e più esplicito e naturalmente poi non soddisfare mai questa promessa.
Per fanservice si intende più spesso quello che succede quando chi racconta una storia ci infila in mezzo qualcosa che sembra messo lì per accontentare i fan e che non è necessariamente la scelta narrativa più coerente, elegante o appropriata che si potesse fare. Per esempio quando un personaggio viene fatto tornare nonostante fosse morto e sepolto, con espedienti magari non troppo elaborati, perché ci si accorge che era un fan favorite e che da quando se ne è andato il seguito è colato a picco. Oppure, un altro esempio di fanservice è quello di far diventare canon una ship per seguire le preferenze del fandom, mossa spesso delicatissima, dato che con le ship, come abbiamo visto, il rischio di far contenta una fetta del fandom e di inimicarsi tutto il resto della torta è molto alto e può portare a perdere spettatori/lettori invece che a guadagnarne.
In altri casi abbiamo fanservice di tipo narrativo, quando una storia viene fatta andare in un certo modo perché si crede che il pubblico, o perlomeno una buona parte, lo voglia disperatamente, oppure quando si portano in scena cameo e apparizioni di personaggi noti e amati dal fandom, solo per raccogliere consensi e non perché la storia ne giovi veramente dal punto di vista della qualità.
Inutile dire che non è proprio possibile stabilire con certezza quando si tratta di fanservice o meno e che ogni volta che qualcuno accusa una scena, un personaggio, una situazione, una battuta di essere fanservice ci sono almeno altri dieci voci pronte a levarsi in difesa di chi ha scritto quella storia e ha fatto quelle scelte.
Anche quando sembrerebbe palese che una scena, una svolta di trama, una scelta di costumi o prop fosse puro fanservice senza possibilità di errore, è bene tenere presente che ci sarà sempre chi è disposto a difenderla come qualcosa di organico e perfettamente sensato all’interno dell’opera, non si scappa.
Del resto, in fondo è poi così grave dare al fandom ciò che vuole, venire incontro alle richieste e ai desideri di chi quel prodotto lo attende, segue, ama, consuma e giudica?
Il problema è che non c’è UN fandom, con un consenso su cosa si vuole e cosa no ed è matematicamente impossibile accontentare tutti e chi ci ha provato, storicamente, non è andato mai a finire molto bene. Trovare un equilibrio tra quello che si vuole raccontare e quello che chi riceve quella storia vuole sentirsi raccontare, non è un lavoro facile e non pochi autori e autrici sono caduti nella trappola della rincorsa al fanservice, finendo per perdere traccia di quello che volevano dire.
Purtroppo poi c’è una pratica molto subdola che somiglia decisamente al fanservice, che si è diffusa nella narrativa di ogni genere negli ultimi trent’anni o giù di lì, ovvero il queerbaiting.
Come per il sexbaiting di cui dicevo poco fa, anche qui si tratta di far penzolare un amo con un’esca allettante per pescare pubblico (spesso pagante) e tener viva l’attenzione , solo che qui si tratta dell’attenzione di una fetta di pubblico specifica. Come nel caso delle aziende che fanno greenwashing, pinkwashing o rainbowwashing, ovvero si travestono da paladine dell’ecologia, della parità di genere, della lotta alle discriminazioni semplicemente per vendere di più, anche il queerbaiting serve semplicemente a mantenere l’attenzione di una fetta di pubblico che si è scoperta ampia, motivata, attiva e appassionata.
Il pubblico LGBTQIA+ ha una fame incredibile di rappresentazione e non è insolito che si metta a seguire una serie tv o a leggere una saga di romanzi solo perché contiene anche personaggi non cisgender e non eterosessuali. A volte però chi scrive la serie tv o i romanzi, l’autore dei fumetti o dei film in questione vuole attirare il pubblico queer, certo, ma non vuole nemmeno inimicarsi quello più conservatore, che non comprerebbe più il suo gioco o non seguirebbe più la sua serie se ci fossero personaggi transgender o gay. Ecco che la soluzione si presenta perfetta e ben rodata: il queerbaiting!
Il queerbaiting non è che una forma di fanservice fantasma, fatto lanciando il sasso e ritirando la mano, ma distraendo lo spettatore in modo da fare anche sparire il sasso e negare che sia mai esistito, come in un trucco da prestigiatori.
Caratteristica fondamentale del queerbaiting è quella di continuare a promettere, a lanciare allusioni, disseminare la storia di indizi e ammiccamenti, ma di non fare mai e poi mai avverare nessuna di queste promesse.
Come Lucy che promette a Charlie Brown che questa volta no, non ritirerà il pallone e che glielo lascerà calciare, quando accusato di queerbaiting un autore, una regista, una produzione, si esibiranno in dichiarazioni che sono capolavori di vaghezza e al tempo stesso rigireranno la frittata accusando il pubblico di voler sapere tutto subito e di voler rovinare il “gusto” di scoprire la storia un po’ alla volta.
Alla fine, naturalmente, Lucy ritira il pallone, Charlie Brown finisce con le chiappe a terra per l’ennesima volta e i personaggi sono sempre “solo amici” ed è sempre stato così.
La ciliegina sulla torta è, per esempio, campare sul queerbaiting per due stagioni, per poi prendere in giro il pubblico che “ci è cascato” facendo riferimenti espliciti e poco lusinghieri al fandom nello stesso episodio in cui si stabilisce che no, naturalmente era tutto nella vostra testa, branco di lunatici che non siete altro, come nel caso eclatante di BBC Sherlock.
Il queerbaiting è, potremmo dire, un tipo “maligno” di fanservice, il cui funzionamento ruota attorno al prendere una fetta del proprio pubblico, sfruttarla finché si riesce e poi usarla come oggetto di ridicolo e metodo per ingraziarsi e assicurarsi il supporto di chi quella fetta di pubblico la disprezza.
Non credo si possa definire altro che spregevole e segno di un genere di “creatività” di cui si può davvero fare a meno e della quale si spera di vedere sempre meno esempi, mano a mano che diventa più frequente vedere della rappresentazione genuina nei media e nella narrativa.
Insomma, sia fanservice che queerbaiting sono un modo di ingraziarsi il pubblico, in maniera più o meno onesta, dandogli quello che vuole, o quello che crediamo che voglia, in dosi controllate e a volte facendo solo finta. Sono entrambe forme di costruzione di contenuti a tavolino, cercando di andare incontro ad una richiesta, ad un principio di domanda e offerta prima ancora di voler raccontare una storia, semplicemente.
Raccontare una storia e vedere se un qualche pubblico la trova interessante è rischioso, c’è sempre il pericolo di scoprire che la risposta è no e che veramente quello che abbiamo da raccontare non piace a nessuno. Per questo sono fiorite le tecniche e le scuole in cui si insegna a pensare prima a quello che il pubblico vuole e a costruirci la storia sopra, partire dalla domanda per creare l’offerta, ma la narrativa, che sia per immagini, parole, raccontata ad alta voce, giocata o illustrata non è una merce e il rischio di pensarla come se si trattasse di un prodotto e basta, da vendere a qualcuno, è quello di ritrovarsi a riempire una storia di ami e di esche e dimenticarsi che in fin dei conti non ci piace pescare e non è quello che volevamo fare.
Questa era la puntata numero venti di Ship Happens, venti sproloqui nei quali spero di avervi saputo raccontare il mondo dello shipping, della narrativa trasformativa e della fandom culture tanto da farvi venir voglia di metterci il naso dentro.
La prima stagione di Ship Happens finisce qui, e vi lascio a studiare per bene, perché un giorno, quando meno ve lo aspettate, verrò a interrogare, magari prima di cominciare il secondo corso.