Essere Montagna - Come i Rubacchiotti sopravvivono in The Last of Us
Cosa ci possono insegnare dei piccoli umani che vivono nell'apocalisse fungina tanto cara all'epoca moderna?
Mi sono sempre chiesto come mai nessuno avesse più usato il concetto dei Rubacchiotti, nome che molti di voi probabilmente non conoscono. Film del 1997 di Peter Hewitt e basato sul racconto per bambini The Borrowers, è essenzialmente una commedia dove persone di piccolissima statura vivono tra noi grazie ai nostri scarti di ogni tipo o rubacchiando i piccoli oggetti che perdiamo.
Avete presente le chiavi che non trovate o quell’orecchino sparito nel nulla? Esatto, Rubacchiotti. Quello che il film però faceva, oltre a essere divertente, era utilizzare il punto di vista di queste piccole persone per illustrarci i problemi di noi grandi esseri, come la crudeltà della società capitalista e la totale assenza di empatia verso qualsiasi organismo più piccolo di noi, a prescindere dal suo raziocinio e somiglianza con la razza umana.
Per me quel concetto era estremamente affascinante all’epoca e lo è anche adesso in ottica adulta, poiché il vivere di stenti in un mondo che sembra più grande di noi è una enorme metafora del dovercela fare tra quattromila ostacoli soverchianti, i quali collettivamente costituiscono l’organismo della vita.
L’arrabattarsi con quello che si può e trasformare gli scarti di qualcuno in opere d’ingegneria elevata mi dimostrava, anzi mi insegnava in ottica da infante, che la testa e la volontà erano tutto ciò che mi servivano per cavarmela contro i più grandi.
Finalmente qualcuno ha ripreso questa bellissima prospettiva e mi ha dato quello che adesso non posso che considerare il seguito canonico di quel film, almeno nella mia testa: Essere Montagna di Jacopo Starace. Come il titolo illustra, Essere Montagna può essere descritto modernamente – almeno da me – come The Last of Us visto dalla prospettiva dei Rubacchiotti, il che mi affascina quanto il collegamento tra l’adattamento della Fabbrica di Cioccolato di Dahl e Snowpiercer con Chris Evans. Mi piacerebbe fosse venduto così, probabilmente tanti della mia generazione lo acquisterebbero a mani basse, ma in realtà è un fumetto che va ben oltre questa bizzarra accoppiata di ispirazioni.
Essere Montagna è lontano dalla città, immerso in una foresta che gli Esseri Formica (ovvero i piccoli protagonisti umanoidi) vivono come un immenso mondo sconfinato ricco di regioni e luoghi quasi sacri. Una foresta placida, ricca di insetti e animali apparentemente unici predatori di questo ecosistema, come del resto accade spesso quando si guarda ai mondi in miniatura.
Invece ci sono insidie ben peggiori in quel bosco dai colori d’acido: un bacillo in grado di corrompere natura ed esseri formica facendogli crescere dei funghi su tutto il corpo, fino a tramutare qualsiasi cosa in statue fungine. Ma tranquilli, il virus è stato eliminato tanto tempo fa degli Esseri Montagna (ovvero noi umani) che hanno portato l’antidoto e sono diventati automaticamente degli dei, svanendo poi nel nulla.
Il racconto di Starace si incentra su Myco e sua sorella Pai, orfani in un comunità che sopravvive come può all’interno di un carrello della spesa rovesciato, il quale protegge e imprigiona. Già, perché sebbene la malattia sia sparita non sono affatto scomparsi gli effetti sulla mente degli esseri formica e su ciò che è diventata la loro cultura, innestata dal timore e dalla speranza che un agente esterno torni a salvarli di nuovo nel momento del bisogno. O forse no?
Essere Montagna per me è stato una spirale verso un dissidio interno perfettamente esplicitato da Starace nelle conseguenze umane derivanti da esso, sia personali che comunitarie. Lo sfondo ecologico è assolutamente importante ed è uno dei pregi di Essere Montagna, ma nella lettura sono stato completamente preso dal racconto di disperazione del principale personaggio d’opposizione alla storia di Myco. Sulle fondamenta della speranza è facile costruire qualcosa, e il viaggio di The Last of Us è un po’ quello di mostrarti le conseguenze cieche di un certo tipo di speranza, contrapponendoti allo stesso tempo la crudeltà esplicita sia del mondo mostruoso venutosi a creare con i nostri sbagli, sia delle pulsioni più violente dell’animo umano, a cui nemmeno i protagonisti riescono a sottrarsi.
In Essere Montagna la violenza esplicita non è spettacolarizzata, è piuttosto quieta e quando accade lo fa con una naturalezza che il particolare tratto di Starace evidenzia con una meticolosità precisa, quasi straniante in alcune vignette. Tutto sembra incredibilmente fermo e così deve essere perché la condizione di stallo in cui vive il mondo stesso descritto da Essere Montagna è al centro della vicenda, come se ogni cosa fosse sul baratro di un precipizio.
C’è però una corda sottile che si sta spezzando mentre tiene tutto unito, a un paio di fili dallo sfilacciarsi se Myco decide di lasciare la presa. Il protagonista ci si aggrappa cercando di annodarsela intorno e ridefinirne la natura, vuole essere lui a decidere lo spessore e la durevolezza della corda, non vuole essere solo quello che sta cadendo senza poterci fare nulla.
E nel disperato tentativo di realizzare quello che vuole finisce in una corsa disperata senza una meta precisa, guidato proprio dall’agente che ha scombussolato quel precario equilibrio al limitare del baratro: Amanita.
Il personaggio mascherato di Starace è quello che mi ha affascinato di più proprio perché è angosciamente calmo, risoluto e freddo nel dolore per il male che ha vissuto, così tanto da desiderare solo un senso di giustizia che nulla ha a che fare con gli Dei. Del resto cosa davvero sono questi Dei? Basta accettarli ciecamente per garantire la tranquillità di una vita alla misericordia del caso?
No che non basta, non è mai bastato ad Amanita ma gli è toccato pagare lo scotto delle decisioni altrui, frutto dell’inganno, della supponenza e dell’arroganza.
Amanita e Myco non sono altro che due facce della stessa medaglia, volontà di ribellione e riscatto con obiettivi diversi ma che hanno bisogno di crescere nel momento in cui non hanno mai scelto di doverlo fare, come tutte le imposizioni che gli sono state costrette sulla pelle.
Tuttavia, nella graphic novel di Starace, “crescere” non è un unico grande percorso come quello di un tronco che si erge verso l’alto, piuttosto sono molteplici radici che aprono a strade impervie da seguire, lontano dalla vita desiderata. Basta diventare Montagna per far smettere il tremore delle nostre mani? Oppure è il consolidarsi Formica ad asciugare le lacrime che rigano il volto che cerchiamo di nascondere?