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Dentro la redazione Bonelli

Piccola visita guidata nella storia del fumetto italiano

La Bonelli si trova in una normalissima palazzina di un quartiere di Milano che ancora non è diventato una palestra per designer o una collezione di kebabbari e minimarket. Ad accogliermi non ci sono insegne, effetti speciali o cartonati di Tex, solo un nome sul campanello.

Esattamente come la testa di uno sceneggiatore o un disegnatore, il bello della Bonelli non è all’esterno, ma all’interno, ovvero dietro una porta automatica che dà sul corridoio principale del primo piano, dove si trovano gli uffici amministrativi e alcuni uffici dedicati Dylan Dog. In totale i piani occupati sono tre.

A farmi da guida c’è Roberto Recchioni, che passerà il resto del tempo indicando quadri e opere e ridacchiando del mio stupore.

Il benvenuto di casa Bonelli non va per il sottile e mette subito in chiaro che da queste parti ci sono passati e ci passeranno i migliori talenti del momento. L’ingresso è tappezzato di disegni, tavole originali, poster, locandine. Non c’è un centimetro quadrato libero e l’occhio non può fare altro che vagare da un Pratt che vale molto più di quanto guadagnerò mai nella vita a un Toppi che potrebbe tranquillamente venire esposto in un museo. E poi Magnus, Milo Manara, Benito Jacovitti, Silver, Moebius, Mignola, Alfonso Font, Claudio Villa e tu al centro che ti ricordi come mai nessuno ti vuole mai in squadra a Pictionary.

Ciò che colpisce è l’assoluta nonchalance con cui decine di capolavori sono messi gomito a gomito e addirittura sacrificati in posti assurdi dettati dalla mancanza di spazio. Tavole bellissime appese in angoli seminascosti o strette da un condizionatore, persino il bagno è tappezzato di disegni, mentre dietro una porta in un salottino in cui non passa quasi nessuno si nasconde un originale di Kurt Caesar, storico copertinista Urania.
Alla fine del corridoio sulla destra rispetto all’entrata si accede a un piccolo disimpegno, tappezzato di tavole a sfondo erotico, che fa da anticamera allo studio di Sergio Bonelli che non è stato praticamente sfiorato dal giorno in cui se n’è andato.

Raramente mi è capitato di vedere uno spazio che riflettesse così perfettamente la persona che lo ha abitato. Più che uno studio sembra il salotto di un esploratore dei primi dell’800, mescolato con la camera di un nerd di vecchia data e la biblioteca personale di un esperto di qualunque cosa. Romanzi e libri d’arte si mescolano con statuette di Batman, le teste di un coccodrillo e di un rinoceronte spuntano in mezzo a centinaia di oggetti frutto di anni di viaggi, regali, esperienze. È come se qualcuno avesse scannerizzato il cervello di Bonelli e lo avesse tradotto sulle pareti. Si respira un’aria incredibile, che ti fa venire voglia di creare e allo stesso tempo di intimorisce.

“Ma ci lavori bene qua?” chiedo Roberto. “All’inizio mette soggezione, poi ci si abitua a tutto”.

Mi piace pensare di avere in comune con Bonelli, ma anche Sclavi, la mania di riempire le mensole di statuette e libri di ogni tipo. Peccato sia l’unico tratto che condividiamo.

A metà del corridoio si trova l’archivio, qua tutti gli albi sono rigorosamente catalogati e a disposizione di chiunque ne abbia bisogno, basta entrare, registrare ciò che si sta prendendo e poi andare via, come se fosse un’edicola sempre aperta per i dipendenti e i visitatori. Quando Roberto mi chiede se voglio qualcosa la mano mi trema e il risultato è questa foto.

La Bonelli non è famosa per il suo approccio ardito alle nuove tecnologie, fino a poco tempo fa il sito internet sembrava un retaggio dei modem a 56k, le mail non erano contemplate, figuriamoci le pagine Facebook. L’ufficio riflette questa voglia di contatti fisico, analogico, personale, old school.

Ci sono i computer, ma sono seppelliti da scartoffie di ogni tipo, la sala riunioni ha mobili che avranno come minimo 30 anni e sugli scaffali non c’è un soprammobile che vada oltre gli anni 2000. Su un tavolo fa bella mostra di sé una statua di bronzo creata da Frederic Remigton, scultore dell’800 che è presente anche nello Studio Ovale della Casa Bianca.

A rendere il tutto ancora più retrò ci pensa la collezione personale di Sergio. Collezione di cosa? Beh c’è chi raccoglie figurine, chi tappi per delle birra, chi statuette di gesso, Bonelli collezionava juke box degli anni ’60. Sparsi per tutta la redazione ce ne sono almeno una decina.

Juke Box, Juke Box ovunque

Uscendo c’è giusto il tempo di scorgere un signore chino su un tavolo da disegno, è Castelli, la cui aura di sacralità mi spinge gentilmente verso l’entrata, perché mi rendo conto che non posso rimanere qua tutto il giorno a bocca aperta come uno che vede per la prima volta i fuochi d’artificio.

Una volta uscito fuori mi sembra di essere spuntato da un portale dimensionale. La gente passeggia per strada come se niente fosse, il sole splende, la signora del quarto piano mi fa la doccia innaffiando i fiori e mi chiedo “Ma come fate a stare qua in zona e non farvi prendere la voglia di suonare tutti i giorni il campanello di casa Bonelli?”.

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