Una delle grandi massime della comunicazione è “Il medium è il messaggio” e sintetizza il pensiero espresso da Marshall McLuhan ne “Gli strumenti del comunicare” del 1964. L’idea è quella di analizzare i mezzi di comunicazione non tanto in base al contenuto, ma al modo in cui lo diffondono. La radio non comunica come la televisione, che non usa gli stessi strumenti della tradizione orale che, arrivando a oggi, non segue le regole di Twitter o di una story su Instagram.
Nel corso della storia dell’espressione umana la divisione degli strumenti di comunicazione ha curiosamente causato un altro tipo di separazione fatta in base a supporti, un pregiudizio che si innesta sulla diatriba tra “cultura alta” e “cultura bassa”, una retorica vagamente paternalista che si basa tutta sul "buon libro".
Facciamo però un breve passo indietro: la divisione tra una cultura “alta”, pensata per le élite, a volte avanguardista, meno accessibile e una “bassa”, condivisa dal popolo e dalle fasce meno facoltose, ha fatto parte da sempre della storia dell’uomo. L’opera e le canzonette, I Promessi Sposi e gli Stephen King. Nei tempi più recenti si è aggiunto anche il termine “midcult”: una cultura media rappresentata da prodotti d'intrattenimento che prendono in prestito idee d’avanguardia, ma che sono fondamentalmente kitsch, ovvero imitazioni di qualcosa di artistico in cui invece si fa leva sui sentimenti (tipo la nostalgia degli anni ’80).
Questa dicotomia di solito viene utilizzata guardando al passato, spesso ignorando la contestualizzazione dell’epoca. Vediamo Dante come qualcosa di alto, dimenticandoci che era copiato e letto dalla massa, pensiamo alle tragedie greche o all’opera come un prodotto esclusivo, quando erano semplicemente l’intrattenimento di quegli anni e a vedere Sofocle ci andavano anche i pescatori. Mentre oggi intellettuali e giornalisti di ogni tipo azzardano analisi di livello alto sull’epica del calcio, forse l’intrattenimento più basso e popolare che ci sia.
Col tempo, movimenti come la Pop Art (Wharol tra le molte cose diceva che “Le masse vogliono apparire anticonformiste, così questo significa che l'anticonformismo deve essere prodotto per le masse”) e in Italia persone come Umberto Eco hanno in parte sconfitto o almeno annacquato questa divisione, dando dignità a cose “basse” come il fumetto popolare o i western e svelando in opere come "Apocalittici e integrati" i nuovi miti, la complessita delle opere di intrattenimento e il continuo scambio tra i due estremi della cultura, che si contaminano a vicenda, senza dirlo troppo in giro.
Abbiamo per fortuna anche smesso di trattare il fantastico, la fantascienza e la narrativa di genere come minore, c'è voluto qualche decennio, ma ci siamo riusciti.
Oggi questa divisione non esiste quasi più se non in chi cerca la “non leggibilità” come valore oppure si è trasformata nel più classico dei lamenti di chi invecchia e perde gli strumenti di decodifica del presente: il nuovo è brutto, le cose che mi piacevano quando erano adolescente o che amavano i miei genitori erano meglio. Purtroppo, è un sentimento che leggo in molti amanti del pop che hanno superato la quarantina. Meglio però schivare la polemica, cercando di rimanere sul punto, senza analizzare la produzione di una società che si è lentamente ripiegata su sé stessa proprio durante l’arrivo dell’eterno presente di internet (ne abbiamo già parlato nella “Paradosso di Torn”).
Mentre alto e basso si mescolavano, restava ancora ben presente una divisione, quella dei supporti di cui parlavamo all'inizio.
Quante volte vi hanno detto di leggere “un buon libro”? Quante volte avete sentito qualcuno lamentarsi dei cellulari che isolano le persone in metropolitana, come se il trasporto pubblico in passato fosse stato il palcoscenico di animate discussioni tra sconosciuti? Quante persone conoscete che quando vedono un fumetto pensano ancora alle strisce di Blek Macigno o Nembo Kid? Non voglio neppure entrare nell’argomento dei videogiochi perché, si sa, sono cose per bambini, non possono essere avanguardia culturale o trattare lutto, morte, patologie mentali, sofferenza, disabilità e arte no, un videogioco deve sempre e solo divertire, Pac Man e Super Mario (che nel frattempo sono esposti al MoMa eh?).
La stessa storia può essere raccontata in molti modi (e con modalità differenti, ovviamente) ma il libro... beh il libro godrà sempre di un occhio di riguardo.
Sarà che il libro lo capite, ma il videogioco no.
È una mentalità retrograda, legata a una certa vecchia scuola che ti obbligava a leggere i libri, che ha l'effetto di allontanarti da loro, che vede in tutto ciò che diverte qualcosa di sbagliato, che si appoggia per certi versi su una cultura cattolica che predica il sacrificio e non il sorriso. Una cultura amanuense, che ricorda quella del venerabile Jorge che aveva avvelenato il secondo libro della Poetica di Aristotele in cui si parlava della commedia e del riso. Una cultura che in parte si lega a una certa visione della cinematografia: il film "impegnato" non potrà mai farti sorridere, la stessa retorica che fa una foto a chi in metropolitana guarda il telefono, come se fosse automaticamente una cosa sbagliata.
Un’idea che nel 2018 è ancora forte nel nostro paese, basta leggere le dichiarazioni del nuovo Ministro dell’Istruzione, che non ha perso tempo nel denigrare fumetti e “videogiochi col cellulare” a favore di un “buone letture”. Sicuramente avremo frainteso, sicuramente voleva dire altro, ma sono parole che riportano le lancette molto indietro e annullano un faticosissimo lavoro di erosione del luogo comune.
Questa è la sfida del futuro, il prossimo obiettivo è rompere il pregiudizio del supporto, perché il mezzo sarà anche il messaggio, ma il mezzo non è il contenuto e ogni forma di espressione è in grado di offrire qualcosa se usata nel modo giusto. Non possiamo e non dobbiamo giudicare le opere in base al supporto, altrimenti si rischia di pensare che il libro di Fabio Volo si più ricco di contenuti del Watchmen di Alan Moore. Questo ovviamente non vuol dire, come travisano alcuni che "ci debba piacere tutto" o che "non si possa più dire che qualcosa ci fa schifo" (quanto ci piace vittimizzarci non appena non sappiamo come ribattere), non stiamo neppure esaltando Fantozzi e la sua "cagata pazzesca" (forse una delle frasi più travisate del cinema) ma che, semplicemente, non si possa derubricare ciò che non abbiamo voglia di approfondire come qualcosa di poco valore e questo vale sia per il critico cinematografico che per Fantozzi.
E quindi torniamo a lui, a Umberto Eco, basterebbe rileggersi queste sue parole per capire la direzione giusta: “Caso mai oggi la distinzione dei livelli si è spostata dai loro contenuti o dalla loro forma artistica al modo di fruirli […] Più che l'oggetto cambia lo sguardo, c'è lo sguardo impegnato e lo sguardo disattento, e per uno sguardo (o udito) disattento si può proporre anche Wagner come colonna sonora per l'Isola dei famosi. Mentre i più raffinati si ritireranno ad ascoltare su un antico vinile 'Non dimenticar le mie parole'”.
Leggere un libro non è come leggere un fumetto, non è come giocare a Detroit: Become Human, non è come trovare una strategia vincente a Clash Royale o ascoltare la musica che ti piace o cercare su internet gli scontri tra insetti. Una cosa non vale l'altra, ma soprattutto leggere un libro non è automaticamente un attività eticamente superiore alle altre, la differenza sarà sempre la vostra testa.
I libri sono bellissimi, certo, come tutto il resto, chiunque cerchi di convincervi del contrario vuole, probabilmente, vendervi un libro, magari il suo.