Anime e utilità sociale: Komi Can’t Communicate
Komi can't communicate è all'apparenza un manga (e un anime) come tanti. Il focus sull'ansia sociale del protagonista, però, offre spunti utili e molto interessanti.
Quando una persona soffre di di ansia sociale grave, fa fatica a comunicare con gli altri. Bisogna tenere presente che anche se fa fatica non significa che non voglia avere legami con gli altri.
Quando sono comparse queste parole nei sottotitoli del primo episodio di Komi Can’t Communicate, che traducevano quello che stava dicendo una gentile voce fuori campo, ho immediatamente drizzato le antenne; quello che pareva essere un anime come tanti altri aveva assunto un aspetto diverso ai miei occhi.
Komi Can’t Communicate, di cui giovedì 6 gennaio 2022 è stato reso disponibile su Netflix il dodicesimo e ultimo episodio della prima stagione, è un anime tratto dall’omonimo manga di Tomohito Oda, pubblicato per la prima volta in Giappone nel 2016 e ancora in corso; in Italia è gentilmente pubblicato da J-Pop e l’edizione italiana è arrivata al tredicesimo volume (su ventiquattro usciti finora in Giappone).
Ho cominciato a guardare KCC un po’ per inerzia, sull’onda della nerdaggine che s’è risvegliata in me con l’avvicinarsi degli -anta, e un po’ per curiosità; avevo visto passare qua e là sull’internet qualche meme sulla protagonista, ma non avevo mai letto il manga – nemmeno sapevo che fosse pubblicato in Italia, veda un po’ lei (cit.). Si trattava della tipica visione da «devo guardare qualcosa ma non so cosa; questo è troppo violento, questo sembra lungo, questo sembra noioso, questo sembra triste», e pensavo che al massimo avrei sprecato qualche ora della mia vita: oramai una in più o una in meno… E invece.
E invece KCC, che l’internet cataloga come commedia scolastica sentimentale (io ci metterei anche slice of life, ma solo per fare il figo), pareva avere un inaspettato risvolto di utilità sociale.
Il giovane Hitohito Tadano, che J-Pop ci spiega essere un nome parlante che significherebbe “persona ordinaria”, incontra il primo giorno di liceo la bellissima e altera Sho[u]ko Komi, il cui nome richiamerebbe il termine komyusho (abbreviazione di communication shogai, “disturbo della comunicazione”), la quale non si degna di rivolgere la parola a nessunə. Ci vorrà poco per scoprire che questo atteggiamento non è voluto, ma è dovuto alla difficoltà a comunicare con cui la povera Komi convive da sempre e per la quale soffre moltissimo, pur non riuscendo a superarla.
Ecco quindi che il buon Tadano, mediocre in tutto ma super-intuitivo, dopo avere scoperto la ragione dietro l’atteggiamento in apparenza scostante della nuova compagna di classe, decide di aiutarla a realizzare il suo sogno: fare amicizia con cento persone.
Da questa premessa si dipana una serie che, in realtà, non si spinge molto oltre i confini della tipica commedia scolastica; con il dodicesimo e ultimo episodio della prima stagione la serie ha raggiunto il quinto volume, che è anche l’ultimo che ho letto io, e abbiamo incontrato un repertorio di personaggi e situazioni già visti e viste in un’infinità di altre serie e fumetti; ogni tanto c’è qualche guizzo e qualche simpatico twist, come l’idea di proporre personaggi volutamente stereotipati, anche nel nome: l’amico/a d’infanzia del protagonista dal genere incerto si chiama Najimi Osana, ossia “amico d’infanzia” (se letto nell’ordine cognome-nome), mentre la compagna di classe ansiosa, Himiko Agari, fa di cognome “ansia da prestazione”.
Purtroppo la presunta - almeno da me - utilità sociale del disclaimer citato in apertura, che ritorna in ogni episodio come una specie di “pubblicità progresso”, si ferma lì; l’ansia sociale (o disturbo di comunicazione, a seconda che seguiamo la traduzione dell’anime o quella del manga) di Komi è solo spunto per le varie gag che si susseguono ma mai, almeno fino alla conclusione della prima stagione, un vero elemento di riflessione. Per carità, non stiamo parlando di una serie drammatica, ma ho percepito un contrasto tra il messaggio, che leggo come un invito a non bullizzare le persone timide, impacciate e chiuse, e l’andamento della serie, allegro e spensierato.
Mentre guardavo questa serie non ho potuto evitare di fare un parallelo con A Silent Voice / La forma della voce, breve manga di Yoshitoki Ōima pubblicato a cavallo fra 2013 e 2014 in Giappone (e in Italia da Star Comics nel 2015), diventato poi un lungometraggio animato nel 2016 e disponibile anch’esso su Netflix.
A Silent Voice segue il percorso di redenzione di Shoya Ishida, un bulletto che alle elementari aveva preso di mira la compagna di classe Shoko Nishimiya, che è sorda. Una volta cresciutə Shoya e Shoko si incontrano nuovamente, e Shoya decide di approfittarne per rimettere a posto un po’ di cose. In questo caso ho letto solo il fumetto, decisamente diverso nei toni e nell’intreccio da KCC, che è composto da brevissimi capitoli assimilabili a lunghi sketch comici; ricordo A Silent Voice come una serie pesante, che dava l’impressione di voler mettere forzatamente nei guai i personaggi solo per generare dramah e dimostrare la propria (condivisibilissima!) tesi, che il bullismo è dannoso per chi lo subisce ma anche per chi lo fa; ma è anche vero che sono passati almeno sei anni da quando l’ho letto…
Magari questo parallelismo è un po’ forzato, ma non posso non vedere un filo conduttore fra queste due opere “edificanti”, ciascuna a modo proprio: un tentativo, forse un po’ goffo, siamo onestə, di sensibilizzare giovani lettori e lettrici sul tema del bullismo, non insegnando loro soltanto che “non si fa”, ma anche mostrando perché.
E qui potrei agganciarmi anche a quelle ricerche di qualche anno fa secondo le quali ə giovani che hanno letto Harry Potter avrebbero meno pregiudizi di chi non lo ha letto, ma non vorrei strafare (e non è neppure il periodo migliore per tirare in ballo l’occhialuto maghetto e la sua creatrice).
Concludendo, Komi Can’t Communicate m’è piaciuto? Abbastanza, di certo più il manga dell’anime, che sembra fatto un po’ al risparmio (ma mai quanto l’offensivo La via del grembiule, sempre su Netflix!); è una serie gradevole che dona serenità e strappa qualche risata, e soprattutto è breve. Continuerò a leggere il manga? Non so. Guarderò la seconda stagione, in uscita ad aprile 2022? Probabilmente sì.
Ah, occhio che al momento non è doppiato in italiano ed è pure pieno di didascalie non tradotte, presumo per ragioni di spazio. Chiaramente però nel manga il problema non si pone!
Oh, ma non è che chiamare Harry Potter “occhialuto maghetto” sia bullismo?