
Albert Lin è il protagonista di tre serie di documentari Disney+ in cui la tecnologia viene messa al servizio della ricerca archeologica.
Nel panorama sterminato di audiovisivi che la tecnologia odierna ci mette a disposizione tra film, serie TV e documentari, sarà capitato anche a voi di avere una musica in testa, più precisamente una roba alla Hans Zimmer che trasmette una tensione crescente, mentre sfogliate il catalogo di [inserire piattaforma di streaming a scelta] e non riuscite a trovare quello che vi fa pensare «Volevo vederlo da tanto» oppure «Non so cosa sia ma m’ispira». Queste righe nascono proprio dal secondo caso, per la precisione quando ho deciso di dare una chance a un documentario di argomento archeologico del National Geographic trovato su Disney+, e me ne sono innamorato.
Passo indietro: come buona parte delle persone della mia generazione, quelle nate negli anni ’80 che ora percepiscono (purtroppo non tutte) un reddito e che sono il target preferito delle più becere e spudorate operazioni nostalgia, ho consacrato la mia giovinezza all’archeologo dell’avventura, quell’Indiana Jones che ha conquistato il mondo a colpi di frusta e antichi manufatti a partire dal 1981 con lo straordinario Raiders of the Lost Ark (I predatori dell’arca perduta), primo film della fortunatissima saga che originariamente non aveva manco il nome del protagonista nel titolo.
Così tanto mi aveva colpito quel film, visto in videocassetta anni dopo l’uscita, e i suoi seguiti usciti nello stesso decennio, che una volta arrivato all’università ho improvvidamente deciso di dedicarmi allo studio dell’archeologia; ora però stendiamo un bel velo pietoso su questo argomento e torniamo all’oggi.
Disney+, nell’ambito della sua offerta di documentari prodotti dal National Geographic (che possiede), propone tre serie di documentari accomunati dal protagonista: queste serie si intitolano, in italiano, Maya - Tesori nascosti, I misteri della Bibbia - con Albert Lin e Civiltà perdute - con Albert Lin e sono certo che non vi sorprenderò se informandovi che il protagonista di questi documentari si chiama Albert Lin.
Ma chi è costui, e perché nel mio cuore si è ritagliato un posticino speciale nella sezione “Archeologia”?
Beh, tanto per cominciare è un ingegnere; poi è un esploratore, e questo va da sé, perché altrimenti NG non lo manderebbe mica in giro per il mondo; poi è un surfista, e a me i surfisti stanno simpatici di quella simpatia che vorrei-essere-figo-come-te; poi ha una gamba artificiale, ma esplora giungle e deserti di mezzo mondo, scala montagne e si immerge nell’oceano un po’ come fa il bombo, che secondo alcunə volerebbe pur non essendo progettato per farlo alimentato soltanto dalla propria ignoranza (spoiler: non si tratta del bombo ma del calabrone, bumblebee in inglese, ed è una storiella edificante ma senza fondamento, perché se la Natura vuole che tu non voli, tu non voli).
E quando non sei al corrente di questa sua caratteristica e te ne accorgi, e noti che quella gamba lì ha qualcosa di strano, e pensi “Ma no, figuriamoci se è una protesi” intanto che si arrampica come un capriolo su una parete che tu non avresti nemmeno il coraggio di guardare da lontano, e poi indaghi un po’ e scopri che è proprio una protesi beh, lì l’ammirazione diventa veramente forte e si somma all’invidia di vederlo visitare tutti quei luoghi meravigliosi sparpagliati in giro per il globo.
Ma che cosa fa Albert Lin di speciale in queste serie di documentari che mi sono piaciute così tanto, e in quelli al momento non presenti su Disney+ (Forbidden Tomb of Genghis Khan e China’s Megatomb Revealed )?
Beh, fondamentalmente raggiunge località di interesse archeologico, siano esse in Sudamerica, in Medio Oriente o in qualunque altro punto del globo, e sfoggia la tecnologia più moderna (al momento delle riprese) per aiutare ricercatori e ricercatrici in loco a scoprire di più, meglio e più velocemente.
E in che modo la tecnologia modernissima viene in aiuto dello studio delle civiltà morte e, letteralmente, sepolte? Ebbene, questi documentari, in particolare quelli sui Maya e sulle civiltà perdute, sono uno strepitoso showcase delle applicazioni della tecnologia LIDAR (Light Detection and Ranging o Laser Imaging Detection and Ranging che dir si voglia), che possiamo trovare anche sui robottini aspirapolvere, che consente di spogliare virtualmente una foresta dagli alberi sparando da un aeroplano o da un drone una quantità spaventosa di fotoni a destra e a manca (la scienza alle spalle di questa tecnologia potrebbe essere un filino più complessa di come la racconto); i dati così raccolti permettono di ricostruire mappe 3D del territorio nascosto dalla giungla, che è il campo di applicazione più tipico ma non l’unico, e di individuare facilmente potenziali siti archeologici segnalati da strutture un po’ troppo regolari per essere naturali, ma che possono essere invece strade, muri o fondamenta di edifici. E tutto questo, credetemi, è dannatamente FIGO.
Quindi se l’archeologia vi affascina come affascina me, se vi piace anche l’alta tecnologia - e se state leggendo queste righe è facile che vi piaccia - e volete vedere qualcosa di davvero affascinante e dei luoghi pazzeschi e poco conosciuti di questo nostro vecchio pianeta Terra, ascoltate un cretino (me): date una chance ad Albert Lin.
E tuttə insieme ripeteremo le sue parole: “WOW!”