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La lezione di Detroit: Become Human, diventa umano: scegli

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Detroit: Become Human riflette sulla scelta come solo «dispositivo» in grado di generare umanità

Sono su una nave abbandonata: sto giocando a Detroit: Become Human, sono un robot, e contemporaneamente un altro robot. A uno tengo di più, all’altro di meno. Le opzioni di dialogo si susseguono rapidamente. Triangolo, cerchio, quadrato, croce.

So cosa voglio, conosco il risultato che desidero ottenere, so quale direzione dovrebbe prendere la conversazione surreale che sto ascoltando e allo stesso tempo agendo. So che avrà effetti reali e che a essere in gioco è l’anima del personaggio cui sono più legata. Triangolo, cerchio, quadrato, croce.

La vita è raramente altrettanto drammatica, ma non posso fare a meno di pensare che questa dinamica serrata, gonfia di conseguenze, spesso fatale, assomigli a certi crocevia esistenziali nei quali è stato necessario scegliere quale direzione seguire; e che la direzione seguita abbia dettato, in qualche modo, la forma della mia anima, quella della persona che sta spingendo i pulsanti e non è fatta di pixel, quella che non scomparirà con i titoli di coda.

Detroit: Become Human

Croce: «Non rispondere niente». Il robot con il quale ho costruito un legame, anche se non esiste, adesso guarda il robot che avanza con la faccia smarrita. Sulla stessa faccia ho visto alternarsi fino a questo momento un’espressione contrita, amichevole, severa, incerta, irritata. Con la mia natura umana percepisco che in questo preciso momento qualcosa nei suoi circuiti si sta trasformando, e lo so perché – di nuovo – lo schermo mi chiede di mettere in atto la trasformazione: L1, L2, quadrato, R1, R2 (più o meno).

È fatta: con una legnosa trafila di tasti alla fine l’ho rotto. Ho rotto il mio personaggio preferito, perché ho desiderato romperlo appena l’ho visto. Era un cacciatore di androidi, ora è un androide cacciato. Era un androide come molti, ora è l’esemplare sfavillante di una nuova specie. È sveglio. «È un deviante», mi chiarisce un messaggio in sovrimpressione. Credo sia ufficialmente iniziato il secondo tempo di Detroit: Become Human.

Le storie di David Cage hanno un potere particolare. Nel bel mezzo delle spesso inutilmente complesse, inamidate, delicatissime file di controlli cui applicare maggior o minor pressione su un pezzo di plastica intelligente come un joypad - condannando o salvando una creatura fondamentale alla vicenda - si annida una riflessione articolata e allo stesso tempo grossolana sul meccanismo decisionale che apre o chiude le strade intraprese ogni giorno da chi i giochi li gioca.

Quelli di Cage, infatti, sono giochi «a scelta» sulla scelta stessa; il solo oggetto profondo che giace al di sotto di ogni contingenza. In circostanze molto più anodine, viviamo come i personaggi di Heavy Rain e Beyond: Two Souls vivono in vitro.

Se scegliamo bene nel presente, solitamente, otteniamo maggiore scelta in futuro ed ecco il trofeo definitivo: il lusso della possibilità. Questo Detroit: Become Human lo mette in scena molto efficacemente. Aggirando la trappola degli spoiler, basti dire che se si è intrapresa una certa strada altre se ne sono aperte che sarebbero rimaste sbarrate, consentendo di ottenere il miglior finale.

Più porte si sbattono dietro di sé, più ponti si bruciano e meno alleati si hanno alla fine; proprio quando avere alleati fa la differenza o è semplicemente indispensabile alla propria sopravvivenza. Quando un personaggio di Cage dice «non avevo scelta», infatti, la frase suona come un verdetto. Chi ha scelto di non scegliere, di solito, ha scelto male. Si è sottratto al marchingegno delle possibilità compiendo atto di vigliaccheria che, come sempre, ha un «prima » e un «dopo». Ha creduto di cavarsela, ma alla fine ha rischiato tutto decidendo di non rischiare niente.

«Le scelte che farai condizioneranno il tuo destino»: adesso sono Markus, ho le iridi di colore diverso, e in un luogo abbandonato incontro il «matrix». È una sibilla meccanica, scassata, che mi dice quel che già so, cioè come funziona il gioco. È un momento magico non di meno.

La macchina fasulla (il personaggio) per un attimo entra in comunione con la sembianza mascherata della macchina vera (il videogioco) facendomi scivolare in uno strano labirinto della coscienza. La novità è che ho costantemente tra le mani una mappa: posso osservare bivi e diramazioni, ripercorrere le mie tappe.

Di nuovo, grazie ai diagrammi stavolta in dotazione, posso riflettere sulle mie scelte. Posso tornare indietro, una chance che nella quotidianità mi sarebbe data soltanto se avessi una DeLorean, e forse nemmeno del tutto. Si può parlare di Detroit come di un videogame nemmeno troppo buono, ma il punto resta un altro: come il suo prodotto gemello Westworld, e come i protagonisti di uno e dell’altro, questa narrazione appare autocosciente. Quasi fosse capace di ragionare su se stessa, guardarsi dal di fuori, giudicarsi e giudicare chi la fruisce.

Un robot esiste grazie ai circuiti intrecciati che lo tengono armoniosamente in funzione; un essere umano esiste grazie a scheletro, muscoli e organi in sinergia che lo tengono miracolosamente in vita.

Su ferro e carne poggia un secondo sistema, che è quello linfatico della scelta; androide o uomo sono definiti dall’ubbidienza o dall’autodeterminazione, ed è questa grammatica fondamentale a informare la poetica di Cage.

Agito o agente, sceneggiato o sceneggiante, morto oppure vivo: chi è vivo sceglie ogni minuto, e la scelta è il solo scalpello della nostra identità. E nulla meglio di Detroit: Become Human nel panorama culturale attuale – serie tv o film che sia – è altrettanto eloquente nel dimostrare come si diventa se stessi.

 

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