Under the Waves e la necessità dei piccoli rifugi nel virtuale
Under the Waves ci ricorda come mai ci fiondiamo in luoghi sconosciuti per costruire la nostra piccola casa isolata.
Vivere sott’acqua ormai è stato sdoganato da molti anni, più di quanto lo stia facendo adesso lo spazio nei videogiochi. Subnautica forse è stato quello più importante in tal senso, facendoci scoprire le meraviglie sotto la superficie del mare, così come i suoi pericoli. Quello che più ricorderò con affetto è In Other Waters, immortale nella sua essenza, perfetto nel proporre una versione realistica di cosa voglia dire fare i biologi marini e, in ultimo ma non meno importante, capace di dare a chi lo gioca una dimensione intima degli abissi, un racconto in cui l’umanità è in primo piano anche se si tratta di intelligenza artificiale e ricerca (Citizen Sleeper continua su quell’onda, quindi lo consiglio se foste interessati a seguirla). Su questo punto voglio soffermarmi nelle righe che seguono, parlando però di Under the Waves di Parallel Studio e Quantic Dreams.
Può sembrare strano dirlo nell’epoca in cui ci lamentiamo se in Starfield i pianeti non possono essere percorsi a piedi per la loro interezza o che le sue mappe siano corte, eppure ho come l’idea che la fantasia finale di tanti giocatori – anche senza saperlo – sia costruire o trovare un luogo “intimo” in cui rilassarsi e osservare i dettagli. Pensiamo ad esempio a molte delle basi su No Man’s Sky che nascono proprio come piccoli tuguri dove potersi riparare dalle intemperie, evolvendosi sempre di più in strutture più articolate. O anche ai sistemi di Housing in giochi massivi come Final Fantasy XIV, Palia e The Elder Scrolls Online, anzi online questa parte costituisce una delle esperienze da “fine gioco” in gergo. C’è chi realizza palazzi pieni di stanze e androni, ma il più delle volte sono gli spazi piccoli stra decorati che ci fanno uscire di testa e in questo Starfield ne è l’esempio lampante anche da parte del team di sviluppo: basta guardare agli ambienti interni dell’astronave del protagonista e alla meticolosità con cui sono costruiti, pur ridotti nelle dimensioni per emulare le cabine degli astronauti veri.
Pensandoci bene, almeno personalmente, era dai primi approcci con Minecraft che non mi accorgevo di questa mia esigenza. Nel gioco di Mojang all’inizio eri un po’ costretto a farti un piccolo anfratto in una grotta del mondo, cercando di proteggerti come potevi dai mostri della notte. Eppure quella conca scavata nella roccia con una porta e un paio di attrezzi da lavoro era perfetta, soprattutto se passavi del tempo ad attendere l’alba mentre in sottofondo la musica cullava i tuoi pensieri. Un momento di pausa, giocando, che spesso e volentieri non ci concediamo rifuggendone l’importanza catartica, specie ora che i momenti morti hanno tutto un loro universo da scoprire. Un esempio? Quante volte vi siete fermati su The Last of Us 1 o 2 nei momenti di pura interazione scenica? Dove non c’era nulla da sparare, solo rimanere seduti e godersi il meritato riposo? Se avete risposto “tanti”, allora queste righe sono per voi.
Under the Waves, già disponibile nei vari store digitali (e fisici), è un gioco particolare dove assisterete Sam nella sua vita sotto gli abissi al soldo di una mega compagnia petrolifera in cerca di un tuttofare manutentore. Sam è vecchio, ha i suoi tempi e soprattutto i suoi traumi su cui si basa tutto il gioco. Il mare e la sua mente diventano un tutt’uno spinti dalle circostanze, creando un viaggio speciale che vale la pena di essere vissuto nella sua interezza, prendendosi tutto il tempo necessario per assorbirla. Certo, devo ammettere che lo stato tecnico di Under the Waves non è dei migliori su PlayStation 5, specie perché presenta screen tearing evidenti, pronti a farvi rivivere la nostalgia di quando non ci capivate nulla di Sincronia Verticale, ma sono abbastanza fiducioso che nel breve tempo saranno problemi risolti e dimenticati.
Sotto queste tecnicalità da recensione classica di cui ci interessa poco, Parallel Studio inabissa un percorso di dolore come pochi altri, scurendo il fondale marino dell’area di gioco sia concretamente che metaforicamente, dimostrando delicatezza e precisione nel voler raccontare allo spettatore, completamente immerso nei panni di Sam, cosa voglia dire portarsi delle cicatrici in un rifugio sotto le falde acquifere, dove nessuno può disturbarti se non te stesso. I tempi, i “compiti”, la routine di gioco: tutto studiato a tavolino, per filo e per segno, lasciando che sia il ritmo del mare a guidare l’esperienza e a farci infrangere sulla consapevolezza di vivere con fin troppa frenesia, costretti a rifugiarci in chissà quale anfratto per prendere quella boccata d’aria e riempirci abbastanza i polmoni per avere il tempo di elaborare ciò che accade nella nostra testa.
Ed è qui che entra in gioco, a mio avviso, l’elemento più caratteristico di Under the Waves: l’unità abitativa di Sam. Più che un HUB per il crafting o per riposare, il buco residenziale dove viene confinato Sam è una simulazione di “casa” vera e propria, con un tocco di retrofuturismo tutta plastica che mi ha ricordato la seconda sezione di The Labyrinth di Stalenhag, e non solo per l’approccio estetico. A differenza dei giochi citati, qui non dovrete costruire voi l’abitazione del protagonista, piuttosto Under the Waves la arricchisci via via che passano i giorni e Sam ha il tempo necessario per disfare le sue cose o, banalmente, avverte il bisogno di rendere “suo” l’ambiente in cui dovrà vivere per un bel po’ di tempo.
L’unità è composta da quattro sezioni: il nodo centrale dove ci sono i vari controlli legati al lavoro, e quindi le missioni da svolgere i canali comunicativi aziendali, il magazzino dove tenere le cose e creare nuovi oggetti con ciò che si raccoglie dai fondali, la cucina e la camera da letto con computer personale, il bagno e una postazione di libri. Si e no ci vogliono trenta secondi per percorrere la lunghezza massima di questo modulo abitativo, quindi parliamo di un rifugio piccolo e con lo “stretto” necessario per far vivere una persona.
Lo spazio però non è impostato con un’utilità ludica come unica ragione di vita. Se il più delle volte gli sviluppatori traducono questi spazi in HUB interattivi, Under the Waves esercita il ragionamento opposto e prova a simulare una realistica routine con spazi dedicati al gaming. “Vivere” come Sam in Under the Waves mi ha restituito un’esperienza unica e molto vicina a quello che probabilmente farei in prima persona se vestissi i suoi panni. Appena arrivato ho infatti ispezionato le stanze e arrivando alla cucina ho notato che era possibile sedersi al tavolo/bancone/isola e far partire una sorta di visuale cinematica dove interagire con diversi oggetti o cambiare angolazione della telecamera. Questo mi ha fatto notare la TV sopra al piano cottura, perfettamente funzionante e con delle registrazioni reali in stile tubo catodico che tanto piacciono a Remedy. Probabilmente, come Sam, avrei guardato anche io la TV riposandomi qualche secondo sotto la pressione oceanica, commentando da solo quello che passava sulle registrazioni di uno schermo che di certo non aveva segnale.
Ma il bello arrivò la mattina successiva, quando la sveglia accanto al letto mi fece iniziare la giornata e arrivai in cucina per mettere su la macchinetta del caffè: tutte azioni che ho compiuto fisicamente nel gioco. Mentre aspettavo che si preparasse mi risedetti al tavolo, osservando il nuovo programma comparso per quel giorno, con Sam a commentare ciò che vedeva o riflettere sui suoi difficili sogni. Tutte queste cose ai fini del gioco non servono a niente, anzi avreste potuto anche evitarle da un certo punto in poi, ma avere quel rituale per Sam mi dava sicurezza, mi sembrava la cosa più umana da fare lì nel bel mezzo degli abissi dove non c’era nient’altro che i pensieri del protagonista.
Costruire una routine, guardare dall’oblò la fauna marina che si divertiva ad affacciarsi di quando in quando o semplicemente mettere su un caffè per Sam dopo l’ennesima chiamata non andata a buon finire. Semplicemente fermarsi e fare qualsiasi cosa possa renderci partecipi di quello spazio condiviso con il tuttofare, nulla che abbia a che vedere con il lato ludico del gioco. Questo è entrare in contatto con il lato più umano della scrittura di un videogioco, nel fruire di uno spazio digitale creato in un certo modo proprio perché, forse, meritiamo tutti un rifugio in cui poterci confrontare con noi stessi e mettere in pausa il mondo esterno, anche se questo vuol dire soffrire un po’ nel farlo.
Sono sacche di mondi che non ci appartengono ma che vogliamo chiamare “Casa” disperatamente e per farlo ci serve sentirci rimpiccioliti in uno spazio vitale piccolo ma ricco di ciò che ci può far star bene: il caffè, la lettura, il paesaggio, la riflessione o anche sapere che nell’altra stanza c’è una doccia da utilizzare a piacere o una un’intelligenza artificiale a cui fare una domanda senza ricevere chissà quale risposta. Questo è il maggior pregio tra le tante buone caratteristiche di Under the Waves, ovvero quello di aver creato uno spazio umanamente desiderabile in cui sentirci a casa anche nell’ambiente più meschino e nel dolore più ingiusto.