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Michael Jordan: ci eravamo tanto odiati

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The Last Dance è il buzzer beater di cui avevamo bisogno.

Utah Jazz avanti di un punto.
Michael Jordan finge di seguire Hornacek sul taglio e ruba la palla a Karl Malone

“Bryon, single coverage!”

Bryon si gira verso Jerry Sloan e poi guarda Michael Jordan. Bryon Russell è un ottimo difensore, uno dei migliori della lega e sta per affrontare i 20 secondi più intensi della sua carriera. Sloan gli ha affidato il compito più difficile della stagione: fermare il giocatore di basket più forte di sempre. Se ci riuscirà, gli Utah Jazz pareggeranno la serie e si giocheranno il titolo NBA in gara 7 in casa.

[Oh merda, proprio io?]

Il racconto di come i Chicago Bulls arrivano a questo momento, uno dei più iconici della storia della pallacanestro, è tutto nella nuova serie “The Last Dance”, diretta da Jason Hehir, prodotto da ESPN e disponibile su Netflix.

The Last Dance: è il titolo che Phil Jackson, allenatore dei Bulls, dà all’ultima stagione di quella che da sempre è stata considerata la squadra NBA più forte di tutti i tempi

La serie è divisa in 10 episodi e si muove su tre piani temporali: il presente, la stagione 1997/98 e il passato. Il collante di tutti gli episodi è ovviamente Michael ma c’è tanto spazio per altri protagonisti: Scottie Pippen, Dennis Rodman, Steve Kerr, Phil Jackson. Li vediamo da piccoli – quando nasce la passione per il basket –nel 97/98 – tra screzi, litigi e momenti di grande amicizia – e oggi a distanza di oltre 20 anni da quella gloriosa cavalcata.

Nei primi due episodi, gli unici al momento disponibili, c’è tutto quello che una docu-serie deve avere: interviste con i protagonisti, filmati mai visti e una quantità inedita incredibile di materiale dell’epoca messo a disposizione dalla NBA

The Last Dance è un lavoro vibrante di emozione e soprattutto incredibilmente onesto. Sembra scritto per essere un classico della Marvel: ci sono gli eroi, i giocatori guidati da Phil Jackson che vogliono vincere il sesto titolo NBA, e c’è un cattivo, il General Manager Jerry Krause, che ha intenzione di rifondare un team giunto a suo avviso al capolinea. 

E poi c’è Jordan.

[Be like Mike]

Diciamolo: chi è che non ha amato Jordan negli anni 90?
Beh, io. Come avrei potuto amare chi ha battuto nelle Finals tutti i miei giocatori preferiti dell’epoca? Magic, Drexler, Barkley, Kemp, Stockton (sì, mi piaceva John). Non avrei potuto, impossibile. 

Mi alzavo di notte per vedere le partite nella speranza di vederlo cadere, almeno una volta. Niente. “Dai Michael, una sola. Per piacere!”. Niente. Non si fanno sconti. Poi andavi al campetto e non facevi altro che parlare delle sue schiacciate, dei suoi fadeaway, dei suoi crossover.

Jason Hehir ha capito che in The Last Dance non ha bisogno di raccontare per l’ennesima volta l’assoluta grandezza di MJ e l’incredibile impatto che ha avuto sullo sport. Non è necessario perché tutti già sappiamo che parliamo del più grande sportivo di sempre. Hehir ci consegna un Jordan diverso, che in testa ha una cosa sola: vincere il sesto titolo NBA. Perché competere e vincere è davvero l’unica cosa che conta per Michael.

Per darvi la misura di quanto Jordan non ami perdere facciamo un passo indietro al 1986. I Bulls affrontano i Celtics nei playoff. Alla vigilia di gara 2 Mike Carey, giornalista del Boston Herald, chiama Danny Ainge, guardia dei Celtics: ”Michael vorrebbe fare qualche buca a golf, ci serve un quarto, Ci stai?”. Danny incuriosito accetta. I quattro si trovano al Framingham Country Club. Per Michael si mette subito male, Danny lo stuzzica, scommettono su qualche buca e Jordan continua a perdere. “L’ho battuto e ho fatto un po’ di trash-talking” racconta Danny di quella giornata. Si torna in albergo e si capisce chiaramente che a Michael quella sconfitta non è andata giù. Scende dalla macchina e si gira verso Danny. 

“Di’ al tuo amico Dennis Johnson che domani ho qualcosina per lui”

Il giorno dopo Jordan ne segna 63 a cui aggiunge cinque rimbalzi, sei assist, tre palle rubate e due stoppate. Una prestazione ancora ineguagliata ai playoff. I Celtics vincono ma ne escono con un grande mal di testa. Per darvi la misura di quella di prestazione nel film “Space Jam” ne segna 44 (con 22 su 22 dal campo).

[Danny, dovevi proprio farlo incazzare?]

Provate a immaginare la vigilia della stagione 97/98. Jerry Krause fa capire che il team potrebbe essere rifondato, alcuni giocatori ceduti e che a vincere non sono i giocatori ma la società. Michael non la prende bene e in The Last Dance questo momento è cristallizzato magnificamente. Ogni parola di MJ trasuda voglia di competere, eccellere e vincere. Potrebbe non piacervi il Michael che ci consegna Jason Hehir ed è lo stesso MJ a dirlo.

Quando le persone vedranno quei filmati, non sono sicuro che saranno in grado di capire perché ero così aggressivo, perché ho fatto le cose che ho fatto e perché ho detto le cose che ho detto

[I'm back]

Bryon forse avrebbe preferito l’aiuto di un compagno. Un raddoppio, tanto Michael non l’avrebbe passata. Quel “Last Shot” non se lo sarebbe perso per niente al mondo. MJ affonda verso la lunetta, cambia direzione, fa un passo indietro, Russell è già per terra. Un movimento che è una poesia. La palla a spicchi viaggia verso il canestro. Jordan lo sa, Russell lo sa, tutti già lo sappiamo. Lo sapevamo già dal raddoppio su Karl Malone come sarebbe andata a finire.

[Signori, la pallacanestro]

Bryon guarda la palla e poi Sloan.
Solo rete.
Ovviamente.

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