Spider-Man: No Way Home è quel sogno che nascondiamo quando si cresce
Spider-Man: No Way Home ci regala una storia pregna di significato e sogni, facendo passare in secondo piano ogni difetto.
Spider-Man è un eroe amato da chiunque, specie da noi della generazione degli anni ’90 che si è goduta le produzioni a cavallo del nuovo millennio. Penso di aver iniziato guardando la serie TV animata dal titolo Spider-Man, quella con la fighissima sigla iniziale e tutta una serie di cattivi iconici, impreziosita da quello che ritengo uno dei migliori doppiaggi dell’Uomo Ragno, interpretato da Stefano Onofri. Da lì poi è stata una spirale crescente, passando per il gioco tie-in per PlayStation 1 (ho ancora gli incubi per Doc Ock fuso con Carnage) e culminante con la trilogia di Raimi. Basta sentire la musica realizzata da Elfmann per farmi volare tra i grattacieli di Manhattan e questo è un attestato più eloquente di tutte le recensioni del mondo. La trilogia di Raimi è, a ragion veduta, un fenomeno culturale che ha plasmato generazioni intere e che bene o male ci ha poi trascinato negli anni con tutti gli adattamenti futuri, da The Amazing Spider-Man fino alla trilogia con Tom Holland.
E sono stati questi tre protagonisti cinematografici, i veri eroi Marvel prima ancora dell’universo cinematografico omonimo, a farci sedere nelle sale di tutto il mondo rompendo ogni record post pandemico. Un risultato clamoroso e benefico per il cinema, ma anche per tutti noi che avevamo bisogno di poter ritrovare un po’ di normalità. Ora, i film Marvel saranno anche “pop-corn movie” come ha detto lo stesso Tom Holland nell’evento d’anteprima a cui abbiamo assistito, però quali film possono far esultare una sala e portare tutti allo stesso livello emotivo? La risposta è, con buona pace di chiunque, nessuno. Nessun film in sala mi ha mai dato la stessa esperienza dell’esultare in Avengers: Endgame alla scena dei portali, almeno fino a quando non ho assistito all’uscita di Spider-Man: No Way Home.
E sì, proseguendo avrò bisogno di spoilerare il film, ci siamo presi un po’ di giorni per attendere ma siamo abbastanza sicuri che ora come ora molti di voi avranno già vissuto i colpi di scena principali e a mio giudizio è davvero impossibile parlare della pellicola senza scendere nei dettaglio di ciò che avviene fuori dalla premessa iniziale, ovvero ciò che più o meno viene svelato da tutti i trailer. Perciò, se ancora non lo avete visto, tornate più tardi o altrimenti vi rovinerete l’esperienza.
Venire a patti con l’eredità
Venendo a noi, la scelta di Spider-Man: No Way Home è stata quella di proporre una trama molto lineare per far sì che il cast potesse esprimersi al suo massimo. I protagonisti, più che Holland e amici, sono tutti i personaggi che provengono dagli altri universi, i quali fin dal combattimento sul ponte prendono il gran parte del tempo sullo schermo e ci regalano delle performance divine, tra tutte impossibile non sottolineare quella magistrale di Willem Dafoe come Green Goblin dalla trilogia di Raimi, un ruolo che non vestiva da 20 anni ma che sulla nuova carta sembra non aver mai abbandonato considerando la sintonia con il personaggio. A lui si accostano Alfred Molina come Dock Ock, Jamie Foxx come Electro, Sandaman da Spider-Man 3 e Lizard dal primo Amazing. Assenti invece i nemici proprietari della saga di Tom Holland, il che a mio giudizio è un po’ un punto a sfavore di Spider-Man: No Way Home, sottolineando uno dei più grossi difetti del film insieme ad altri fattori: il voler troppo dedicarsi al passato più che al presente.
Senza ombra di dubbio, Spider-Man: No Way Home è una pellicola che nasce, cresce e si sviluppa in una dialettica citazionista e costantemente richiamante alle altre pellicole da cui provengono i cattivi del film. Invadendo l’universo del Peter Parker appartenente all’MCU, il nostro amichevole collegiale di quartiere si ritrova quindi in uno scontro di valori per cui lui vive nella favola Disneyiana del “salviamo tutti e viviamo in pace” mentre i visitatori come Dafoe non ci pensano minimamente ad approcciare il mondo sotto quest’ottica. Lo scontro di queste visioni per Peter avrà conseguenze decisamente pesanti e sono contento che il film abbia reso bene questa disparità con la giusta serietà che ne consegue. Il percorso di Spider-Man, fino a Far From Home, è stato sempre accompagnato dal parallelo con gli Avengers e Tony Stark, tanto è che al primo problema aveva sempre quel salvagente hi-tech della Stark Industries, perfino in Far From Home che avviene dopo la morte di Tony Stark.
Tuttavia è dalla gita a Venezia che questo idilliaco supporto inizia a venire meno, Peter si ritrova ad arrancare e a fare troppo affidamento su chi gli è caro senza preoccuparsi troppo di quello che può succedere a coloro che gli stanno intorno. Lo svelamento della sua identità assume il ruolo di campanello d’allarme definitivo, ma anche in quel caso il piccolo Parker prende ancora tutto alla leggera, come l’incantesimo di Dr.Strange utilizzato giusto per entrare al college. Per quanto questo possa risultare un motivo stupido a chi guarda il film, è esattamente quello il punto che la sceneggiatura vuole comunicarvi: Peter vive sugli allori e fa scelte idiote perché se lo può permettere, o almeno pensa di poterselo permettere. Basta un abracadabra o delle buone intenzioni per sistemare tutto e ci crede così tanto in questa cosa, frutto dell’educazione di Zia May, tanto da proiettarla su persone dichiaratamente pericolose e instabili fino all’orlo del complesso da croce rossino. Eppure, proprio per il suo percorso cinematografico, ho trovato tutte queste relazioni di causa e conseguenza terribilmente in linea con l’immaturità di Tom Holland, culminante con una tragedia che lo pone davanti al fallimento della sua accortezza.
Ed è nel momento dell’estremo bisogno emotivo che Spider-Man: No Way Home introduce i due Spider-Man protagonisti delle pellicole precedenti, gli unici che possono fargli da mentore e dirgli che non ha scelto una via sbagliata (cioè quella della correttezza morale e dell’altruismo), però ha dimenticato il peso delle responsabilità che l’essere Spider-Man comporta. Né Maguire né Garfield hanno mai avuto qualcuno a coprirgli le spalle nelle loro storie, non hanno mai fatto parte degli Avengers e questa solitudine da vigilanti li ha portati a essere più accorti – e sofferenti – del Peter Parker dell’MCU, il quale si ritrova a dover cambiare la propria via.
Nella tela multiversale
L’introduzione de due personaggi, a circa metà film, funziona esattamente per quello che deve fare sia nei riguardi della crescita del Peter Parker attuale che per chiudere il cerchio del richiamo ai film precedenti, tuttavia la sceneggiatura inizia a scricchiolare di fronte alla gestione di così tante storie e rimandi. I dialoghi sono divertenti e alcuni molto importanti, come quello legato ai poteri e alle responsabilità, ma bene o male nella maggior parte del tempo si hanno battute sugli storici delle proprie avventure, delle origini delle abilità e su paragoni vari e difficilmente ci sono momenti introspettivi o scambi di battute significativi, se non in alcune occasioni specifiche che mi hanno fatto scendere le lacrime, non lo nego.
Tuttavia credo che in Spider-Man: No Way Home sia mancato quello che Spider-Man: Into the Spiderverse ha in abbondanza, ovvero il “tutoring” di Miles Morales, il modo in cui le interazioni tra le varie versioni del tessi ragnatele aggiungono un tassello fondamentale e plasmano Miles fino ad abbracciare una nuova identità e una risolutezza che conduce ad un climax spettacolare. Qui invece questo avviene in fretta, come se fosse sottointeso molte volte e lo scontro finale è principalmente uno sforzo individuale con rari sprazzi di collaborazione. L’attenzione fatica a balzare da un eroe all’altro e questo crea un problema di gestione dei momenti, non impreziosisce il team-up e bene o male conclude la sua corsa incentrandosi su Holland, pur regalando ad Andrew Garfield forse il miglior momento del film.
Anzi paradossalmente chi ne esce meglio, con una crescita coerente e un riscatto totale è proprio The Amazing Spider-Man, che ancora una volta incarna l’Uomo Ragno nella sua semplicità eroica e la sfrutta per far sì che il suo tempo sullo schermo sia perfettamente bilanciato tra serietà, umorismo ed introspezione. Garfield spiega per filo e per segno cosa ha provato, cosa ha perso e cosa vorrebbe che Holland non diventasse al posto suo. Anche Maguire, per essere onesti, fa la stessa cosa ma con meno impatto di Garfield e meno momenti di riscatto effettivo nei confronti degli “errori” passati. Più che al suo vecchio Spider-Man, il Doc Ock di Molina finisce per essere aiutato e redento da quello di Tom Holland, così come lo è il destino del Goblin di Dafoe, anch’esso legato più a Holland che a Maguire. Chi veramente chiude il suo cerchio, con dialoghi significativi e riscatto su più fronti, è solo Maguire.
Eppure, per quanto tutto questo faccia evidentemente scricchiolare la pellicola ad un occhio più attento, è impossibile non arrivare all’esaltazione più totale per tutta la durata di Spider-Man: No Way Home. Se si sono adorati i film passati, se si è cresciuti con le figure storiche e se il multiverso è un concetto che vi intriga, vedere prender vita questa operazione che nessuno di noi avrebbe immaginato qualche anno fa è un miracolo di per sé, per quanto capitalistico esso sia. Questo è proprio quel sogno che tutti noi da piccoli volevamo vedere in un film e che crescendo abbiamo sempre nascosto per apparire più composti, adulti, ma solo Dio sa quanto ci siamo esaltati tra quelle poltrone. Certo, chi tra di voi non ha mai visto le saghe passate o ne ha il disgusto probabilmente penserà che questo sia un film fin troppo lineare, con diversi problemi strutturali e retto unicamente dagli attori in gioco, ed è concretamente vero, ma ritengo che sia una chiave di lettura difficilmente proiettabile al pubblico a cui è palesemente indirizzato questo film.
Spider-Man: No Way Home nasce, cresce e si conclude unicamente per rivivere le storie che ci hanno emozionato e trasmettere i loro valori allo Spider-Man del presente e del futuro, passando l’eredità sia nostra che dei personaggi iconici alle generazioni che verranno, proiettando tutto ciò che per noi è la figura di Spider-Man in un'unica persona che ne incarni la somma delle virtù. Sentire citare frasi come “La potenza del sole nel palmo della mia mano” o “Anche io sono una sorta di scienziato” sono doni che vi faranno sorridere dall’inizio alla fine, trainati dalle emozioni ben mosse dal magistrale lavoro di Giacchino nel fondere i vari brani delle colonne sonore passate e presenti: un miracolo unico di per sé e già da solo valevole del prezzo del biglietto.
Risentire i brani che amo e vederli proiettati in una nuova forma mi ha fatto pensare a come tutto No Way Home possa essere il semplice cammino del primo Spider-Man di Raimi. Peter, all’inizio della storia, impaccia nei suoi poteri e nella sua figura esattamente come il film fa nel proporre una trama che confonde lo stesso Tom Holland. Le minacce diventano più serie e più vicine a casa, mentre Maguire viene a patti con i suoi poteri e ne diventa ebbro, lo stesso Holland pensa di poterci fare affidamento fino a quando non arriva a deresponsabilizzarsi nei confronti di ciò che gli accade intorno, o comunque assumendosene il carico senza pensare alle conseguenze delle proprie scelte, fino all’irreparabile. Ed è solo davanti all’etica dell’avversario cattivo che si rende conto di essere stato sordo di fronte ai segnali e inizia a rivalutare il proprio cammino, questa volta però aiutato da qualcuno che ci è già passato. E solo dopo la conclusione sofferta arriva alla realizzazione di lasciare il passato alle spalle e trasformarsi, diventando un nuovo eroe pur con tutte le rinunce a cui deve venire incontro. E se il primo Spider-Man di Raimi ci è rimasto così tanto nella memoria, pur con i suoi problemi e scene ridicole come quella del Ringraziamento, Spider-Man: No Way Home rimarrà nei cuori di tutti noi nei decenni del futuro quando racconteremo di quella volta che gli Spider-Man della nostra infanzia si sono incontrati in unico magico momento atteso da 20 anni.