Slow Horses è una serie distribuita da Apple TV+, adattamento dell'omonimo romanzo dello scrittore britannico Mick Herron. Una serie su un agente MI5 finito tra i brocchi perché ormai caduto in disgrazia.
Cosa succede quando una spia cade in disgrazia? Finisce tra i Brocchi, l’unità “discarica” dell’MI5, insieme a tutti quegli agenti colpevoli di un qualche casino, a contemplare la propria carriera fallita. Una sola cosa li accomuna: farebbero di tutto per riscattarsi e tornare in azione.
Ecco lo sfondo di Slow Horses, la saga di romanzi di Mick Herron diventata anche miniserie per Apple TV+. Nella prima stagioseguiva lelle tracce di un ostaggio rapito da una cellula terroristica di estrema destra, con la minaccia di decapitarlo in diretta streaming. Nella nuova stagione – disponibile dal 2 dicembre – il mistero si nasconde dietro l'omicidio di un ex-agente all'epoca della Guerra Fredda. A farla da padrone è il personaggio di Jackson Lamb, interpretato da Gary Oldman. Un burbero, sgradevole e sboccato leader dello sgangherato manipolo di reietti, antieroe bastardo ma decisamente memorabile.
«Tu sei un coglione Cartwright, lo sappiamo tutti e due. Altrimenti non saresti finito tra i Brocchi. Ma…»
«Sono stato fregato. C’è differenza.»«Solo i coglioni si fanno fregare», spiegò Lamb. «Adesso posso finire?»
Pensate a James Bond, che fa il suo ingresso ad un festa con uno smoking impeccabile. Ammalia la padrona di casa con un ballo, scompare tra la folla e riappare nel caveau del cattivo di turno, recuperando i codici nucleari rubati e salvando il mondo. E poi pensate invece a quei dati importantissimi: come sono finiti nella mani sbagliate? Agenti abilissimi nel doppiogioco, hacker che violano database supersegreti e superprotetti... oppure una spia incompentente che se li dimentica sull’autobus.
Immaginava che non molte persone si fossero ritrovate la carriera distrutta via Radio 4. Si faceva la barba ascoltando la radio e pensava: non vorrei essere nei panni del povero stronzo responsabile di questo casino.
Pedinamenti, investigazioni, inseguimenti, certamente non mancano. Slow Horses parla di questo mestiere, ma punta alle dinamica tra i personaggi, non solo professionisti ma anche ubriaconi e pasticcioni, che ci appassionano perché sono sì dei perdenti, ma non hanno intenzione di arrendersi nonostante la mediocrità in cui si sono cacciati. L'MI5 anziché licenziarli, con tutta la burocrazia che ne seguirebbe – ricorsi, reintegro, magari indennizzo – preferisce mandarli a far lavori d’ufficio, inutili e noiosi. Dove? Al Pantano, agli ordini di quello che sembra essere essere il peggior capo al mondo. Controllare multe, rovistare nell'immondizia dei sospettati, verificare telecamere del traffico. Magari daranno le dimissioni da soli.
All’inizio della serie seguiamo infatti una giovane spia che viene allontanata da Regent’s Park – l’ipermoderno cuore pulsante di tutta l'intelligence britannica – e spedita alla Slough House, una casa fatiscente in Aldersgate Street, vicino alla stazione della metropolitana di Barbican, a nord della City.
La porta si bloccava e aveva bisogno di essere spinta con un buon calcio, proprio come quasi tutte le persone che la usavano.
Chi ha sperimentato la vita d'ufficio coglie subito il mood. Quella quotidianità gomito a gomito con il collega passivo-aggressivo. La pazienza nel sopportare il disordine delle scrivanie, nel contendersi il bollitore o la caffettiera, nel lamentarsi di impestare il frigo comune con odori molesti. Tutto questo unito alla frustrazione di essere un potenziale 007 pronto a gestire minacce, rapimenti e intrighi… ma non poterci fare nulla. L'azione non è terminata, solo congelata. Nel nostro caso, puzza anche di chiuso, di fumo e di alcol scadente. Come l’ufficio di Jackson Lamb.
«Farvi capire un concetto è come spiegare la Norvegia a un cane!»
Lamb dovrebbe essere un leader per la squadra, eppure non perde occasione per denigrarli. Sciatto, sovrappeso, irascibile e scorretto. Una sigaretta e uno scotch dietro l’altro, mangia schifezze take-away, scoreggia di fronte a tutti. Fa di tutto per essere maleducato, eppure risulta brillante, intrigante e divertente. Non conosciamo il suo passato ma capiamo che sia un’agente estremamente deciso e capace. Proprio per questo ci piace, ci chiediamo come sia finito al Pantano e come sia diventato così stronzo.
«Ho dimenticato come ti chiami,» lo interruppe Lamb.
«Longridge.»«Non mi interessa, lo dicevo per chiarire un concetto»
Sfogliando le pagine di Mick Herron – ancora non così mainstream – si ha la sensazione di riscoprire qualcosa per la prima volta. Non tanto uno spy-drama tipo Americans, quanto uno stile e una narrazione hard-boiled realistica e contemporanea, un mix tra Dashiell Hammett, James Ellroy e John Le Carrè. Empatizziamo subito con questo sottobosco di agenti grezzi e sgangherati, ci lasciamo coinvolgere da dialoghi acuti e divertenti. Spie come non si sono mai viste. E come vorresti che non fossero.
D'altronde, l’autore si intende sia di mistery, che di perdenti. Classe ‘63, il britannico Herron aveva già pubblicato una serie di thriller sull’investigatrice Zoë Boehm, senza particolare successo. Nel 2010 esordisce con il primo capitolo di questa saga, Slow Horses, che diventa subito… un flop. L’editore inglese rifiuta la pubblicazione del sequel, così Dead Lions prova il mercato americano, aggiudicandosi il Golden Dagger, il massimo riconoscimento della Crime Writer Association. Forte di questo successo clamoroso, la nuova casa editrice UK ripubblica i primi due volumi, tiepidamente accolti, fino a che la catena di librerie Waterstone definisce Slow horses "libro del mese". Da qui l'attenzione del pubblico, altri sette romanzi e l’approdo su Apple.
Le regole di Mosca implicavano guardarsi le spalle, quelle di Londra significavano pararsi il culo. Le regole di Mosca erano state scritte per le strade, quelle di Londra nei corridoi di Westminster. La versione abbreviata recitava: qualcuno paga sempre. Fa in modo di non essere tu.
La scrittura nasce già vivace e serrata, la trasposizione è fedele ai temi e toni quasi da commedia, dove la forza sono più le interazioni e i personaggi. Lontano dal mite George Smiley de La Talpa, il Jackson Lamb di Gary Oldman fa scintille insieme a comprimari come Jack Lowden – l’agente in cerca di riscatto River Cartwright – Kristin Scott Thomas – l’ambiguo vicecapo dell’MI5 Diana Taverner – e Jonathan Pryce – il nonno di River, un pezzo grosso dei Servizi ormai in pensione.
Dalla parte dei Brocchi, ognuno con una caratterizzazione riconoscibile (l’hacker, lo sfigato, la determinata….) è Saskia Reeves la vera sorpresa, nei panni della segretaria di Lamb Catherine Standish, ex-alcolista che al momento del bisogno sa come prendere in mano la situazione. Un esempio di costruzione di un personaggio femminile con arco narrativo e concreta profondità. La ciliegina sulla torta è la sigla coinvolgente, composta addirittura da Mick Jagger, Strange game.
Sottili ma suggestivi i riferimenti animaleschi a tutti i personaggi. Oldman è Lamb, un agnello solo in apparenza. Gli slow horses sono i Ronzini o ancor meglio i Brocchi, contrapposti ai Purosangue in forza a Regent’s Park. Ci sono anche i Dogs, i Cani nella serie o meglio ancora i Mastini nei libri, i rudi agenti sul campo, gli esecutori, la manovalanza pronta a menare. E se qui in Italia Feltrinelli si perde un po’ quando traduce i titoli “Slow Horses” in “Un covo di bastardi” e poi “Dead Lions” in “In bocca al lupo”, nella recente riedizione si fa perdonare con due splendide cover disegnate da Paolo Bacilieri.
E adesso? Non ci resta che recuperare subito i libri o le due stagioni su Apple, e godersi le nuove gesta di Lamb. Adrenaliniche e raffinate, come sempre.
Lamb mise la pistola nella mano tesa di Duffy, poi lasciò andare una rumorosa scoreggia. “Panino con la salsiccia,” disse. “Andrò avanti così per tutta la mattina.”