Seth: George Sprott, o dell'era della nostalgia
Nelle sue opere Seth indaga magistralmente i temi del ricordo e del (non)senso della vita tramite una "nostalgia impossibile".
“George Sprott” di Seth, recentemente pubblicato in Italia da Coconino nella traduzione di Leonardo Rizzi, è uno dei più interessanti fumetti dell’autore canadese (o, nella sua ironica definizione, “picture novella”, parodia di graphic novel).
Seth, al secolo Gregory Gallant, classe 1962, si forma all’Ontario College of Art in Toronto dal 1980 al 1983, respirando la cultura punk che imperversa a quell’epoca, e assumendo nel 1982 l’attuale nome d’arte. Nel 1985 inizia a farsi notare lavorando su “Mister X” della Vortex Comics, precedentemente disegnato dai cartoonist di origine messicana Fratelli Hernandez, modello indiscutibile (anche se per certi versi diverso negli esiti) di un certo tipo di pregnante fumetto “slice of life” col loro “Love and Rockets” (1982).
Nel 1986 Seth stinge amicizia con Chester Brown, e nel 1991 con Joe Matt, entrambi residenti in quegli anni a Toronto. Il sodalizio artistico si riflette nella reciproca citazione nelle proprie opere, spesso di taglio autobiografico – o, specie per Seth, parzialmente tale.
I primi numeri del “Palookaville” (1991) di Seth sono quelli più improntati al classico “slice of life”, con una narrazione già raffinata per ritmo e disegno, ma ancora più genericamente riconducibile a quel tipo di genere in affermazione nel fumetto alternativo.
Emerge già però non solo la bravura, ma la raffinatezza della ricerca, che si ispira al segno dei cartoonist classici del New Yorker della prima metà del ‘900. Uno stile “nostalgico” in cui la forma si sposa perfettamente alle tematiche.
Il lavoro di Seth difatti si evolve verso una sottile riflessione metanarrativa con la (finta) autobiografia di “It's a Good Life, If You Don't Weaken” (1996), dove il protagonista (che rispecchia in parte l’autore) si pone alla ricerca di un vecchio cartoonist ormai dimenticato ma che, all’apice del suo splendore, era giunto a pubblicare sul New Yorker degli anni ’50 prima di esserne allontanato per il cambio del gusto e della direzione del giornale.
Una riflessione su quanto fugace è il segno lasciato su questa terra da artisti e, per estensione, da tutti noi esseri umani, condotto però con una sottigliezza che non rende mai la riflessione retorica o inutilmente sottolineata. Lo scopo di Seth, infatti, più che l’ostensione di un concetto in fondo non così inconsueto, si concentra sulla resa di atmosfere di un’ineffabile nostalgia.
“Clyde Fans” (1997-2004) crea un allargamento del concetto, superando il riferimento meta-testuale al cartooning prendendo invece come riferimento la storia di una ditta di ventilatori, dal suo sorgere nell’immediato secondo dopoguerra fino alla crisi degli anni ’70, che costituiscono lo spartiacque della fine del “mondo della nostalgia” al centro della ricostruzione di Seth (il cui fulcro sta, dichiaratamente, nel periodo precedente alla sua nascita, che viene così ad ammantarsi, come è per tutti, di uno strato più denso di affascinante estraneità).
Sul tema metafumettistico tornerà in “Wimbledon Green” (2005), opera che l'autore considera, assieme a questo George Sprott, uno spartiacque verso la sua fase matura di produzione, dove i temi d'indagine sono compiutamente definiti. Qui ci si concentra, con un protagonista "sferico" come il nostro Sprott, sull’ossessione del collezionismo, e poi ancora, dopo il “George Sprott” che è occasione della nostra analisi, in “The Great Northern Brotherhood of Canadian Cartoonists” (2011), su immaginari fumettisti canadesi – le cui opere inesistenti, mescolate a quelle di autori reali, appaion in Wimbledon Green come oggetto di collezionismo.
Se in “Clyde Fans” e in “It’s a good life”, per quanto esile come spesso nello Slice of Life, vi sia ancora la presenza di una trama riconoscibile, in questi due lavori meta-fumettistici chiave la storia si dissolve pressoché del tutto, aggiungendo una caratteristica piuttosto radicale delle opere di Seth.
L’autore si può così concentrare interamente sul tema della rievocazione d’atmosfera, che è il suo vero fulcro di interesse, senza più occuparsi (ora che il meritato apprezzamento nella nicchia del fumetto d’arte glielo consente) della seduzione “banale” della narrazione classica. L’evocazione d’atmosfera è pura anche nella sua sostanziale assenza di riferimenti storicamente veri, che la slegano anche da elementi di interesse storiografico, storico-artistico, collezionistico. Ovviamente, l’operazione è riuscita, in Seth, proprio in quanto, senza elementi reali, rievoca però una nostalgia pienamente credibile: cosa che è, per certi versi, più difficile e richiede comunque una conoscenza minuziosissima dei periodi che l’autore va a ricostruire.
Per certi versi, Seth è uno dei massimi interpreti fumettistici del nostro tempo, proprio in virtù di questa quasi ossessiva dissezione della nostalgia, intersecata con personaggi "inetti post-novecenteschi" che riflettono sul proprio inevitabile decadimento (o, specie nella fase più avanzata, non riflettono autenticamente, ma lo mostrano al lettore).
Per certi versi, in un ambito "high brow" (per usare la terminologia di Eco e altri), porta avanti la riflessione che appare nel pop (mescolata qui inevitabilmente ad altri elementi, ma forse centrale) in un caposaldo come Watchmen di Gibbons e Moore, che ha sviluppato un analogo “nostalgismo impossibile”.
Infatti, i Supereroi mooriani (che dovevano distruggere il supereroico per il loro autore, non salvarlo) sono ormai “fuori tempo massimo” (come sono di fatto, in effetti, alla metà degli ’80 nell’ambito fumettistico-narrativo, con un pubblico ormai smaliziato che non può più provare in forma naif il “sense of wonder”) e vivono ripiegati sulla nostalgia della loro Golden/Silver/Bronze Age, dal 1938 alla fine dei ’70 quando, col Keene Act, sono messi fuori legge.
Una nostalgia metafumettistica che si estende a ogni aspetto e valore di quel mondo perduto e, in realtà, mai esistito nel nostro reale, che Moore ricostruisce in una sceneggiatura minuziosissima e Gibbons rappresenta con perfezione dettagliata. Certo, la grandezza pop e quindi universale di quest’opera sta anche nel suo incastrare questo meccanismo (che Seth indaga in modo ovviamente diverso, più sperimentale e appunto in una rarefatta “purezza”) in una trama che si regge ad altri livelli. Ma c’è qualcosa di comune in questa nostalgia per un passato che mai vi fu, che è fondante, con “Il continuum di Gernsback” di William Gibson (in "La notte che bruciammo Chrome"), anche per la fantascienza cyberpunk dagli anni '80 in poi.
“George Sprott (1894–1975)” di Seth, apparso dal 2005 al 2006, segna dunque stando allo stesso Seth un punto maturità dell’autore in questo percorso. Il protagonista eponimo George Sprott è infatti una star televisiva di una tv locale minore, giunto a un successo di un certo livello dopo un passato di documentarista in chiave di Robert J. Flaherty, ma ormai totalmente perduto.
A differenza dei gloriosi fumetti del passato, la gloria televisiva di un tempo appare nello stesso momento più luminosa e più fugace. A differenza dei cartoonist sullo sfondo delle opere precedenti e successive, l’autoreferenziale Sprott assurge a una certa celebrità, ma la fragilità del supporto televisivo e la sua natura ancora più esplicitamente effimera porta alla perdita quasi totale della trasmissione, che resta solo nella memoria di alcuni spettatori per poi, si implica, perdersi del tutto.
Esiste una pur esilissima trama: sia nella struttura a rebours, che partendo (dichiaratamente) dalle ultime ore di Sprott (chiarite, del resto, fin dai termini della sua vita precisati nel titolo), ricostruisce tutta la parabola di un’esistenza con continui flashback e flashforward, in una collazione delle testimonianze di chi l’aveva conosciuto intervallato con scene della sua vita a costruire un collage volutamente ambiguo, tale da non offrirci una conoscenza univoca della figura di Sprott.
Lo stile frammentario si collega idealmente anche alla forma originale di questo fumetto, originalmente uscito a puntate sul New York Times, cosa che rende da un lato ogni pagina a sé stante, anche se l’insieme costruisce poi un complicato affresco unitario.
Così, per quanto anche nelle altre opere la raffinatezza del segno di Seth sia notevole, qui diviene particolarmente elegante il gioco della costruzione di tavola. Le vignette divengono piccolissime, portando avanti una narrazione densa ma equilibrata. Una possibile sfida, “ut pictura poesis”, tra il linguaggio fumettistico e quello televisivo (così come vi è un costante gioco con sull’immagine fotografica immaginaria “disegnata”, presente anche nelle sue altre opere e qui si estende al fotorealismo televisivo). La struttura rimanda inoltre a quella di "Quarto Potere" di Orson Welles, che indagava col cinema il potere dell'immaginario magnate della stampa, icona di William R. Hearst che, tra le altre cose, fu con il rivale Pulitzer responsabile del boom del fumetto con la loro contesa su "Yellow Kid" di Outcault. Qui il fumetto indaga una immaginaria star televisiva, ma come si confà a Seth in chiave minore, in una ascesa e caduta che non fanno nemmeno all'epoca del loro avvento troppo rumore.
Particolarmente riuscito e straniante è anche l’inserto, a scandire i capitoli della narrazione, di modellini costruiti da Seth che ricostruiscono i luoghi fisici della tv anni ’50, gli studios, i locali, le sale. Un aspetto dell’arte di Seth interessante, che fa parte di questo suo tentativo di “opera d’arte totale” di rievocazione del passato, che passa anche per una costruzione modellistica del suo studio e della sua abitazione (almeno nelle parti condivise in filmati pubblici).
Come osservato dallo stesso Seth nella pregnante intervista su Rolling Stones, qui, questo scavo nostalgico e melanconico su un personaggio si sposa perfettamente alla forma fumetto. Infatti, il fumetto è per necessità esperienza solitaria, in quanto sfugge alla visione collettiva del cinema o del teatro e alla potenziale esperienza collettiva della lettura ad alta voce. La lettura di un fumetto è esperienza intimamente individuale, e questa solitudine del lettore lo pone nella condizione ideale di confrontarsi con la solitudine del protagonista sethiano, che diviene uno specchio deformante in cui proiettare le nostre stesse inquietudini.
Insomma, un lavoro raffinato, che può dare al lettore che accetti di perdersi nella minuziosità dei mondi di Seth un percorso quasi gnostico di indagine sul senso dell'esistenza, dello scorrere del tempo, della memoria, degli oggetti come ermetici portatori di esperienze passate magari inconoscibili nella loro compiutezza, ma proprio per questo dotate di un loro ineffabile fascino. Abbiam accennato prima come tale tema sia rilevante in ambito metafumettistico con un parallelo con Moore: in ambito letterario, questi temi di Seth ci hanno fatto ripensare ad alcuni aspetti di Eugenio Montale e della sua poesia, che ha saputo indicare una via poi percorsa da molti altri nel segno del correlativo oggettivo.
Non recidere, forbice, quel volto,
solo nella memoria che si sfolla,
non far del grande suo viso in ascolto
la mia nebbia di sempre.
Un freddo cala… Duro il colpo svetta.
E l’acacia ferita da sé scrolla
il guscio di cicala
nella prima belletta di Novembre.
Oggi quel volto reciso non è forse quello di una fotografia da cui viene rimossa una persona (non più amata), ma una vignetta perduta di un fumetto. O una sfarfallante, antica immagine televisiva.