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Pseudobiblia: storie di libri destinati a perdersi.

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Un approfondito excursus sugli pseudobiblia, tra cinema, letteratura, leggenda e realtà: dal Necronomicon a Il libro rosso dei confini occidentali.

Sin dalla ceneri dalla leggendaria Biblioteca di Alessandria esistono libri destinati a perdersi. 

Alcuni, a causa della loro perniciosa natura premonitrice, sono stati proibiti, messi all’indice, censurati o condannati al rogo insieme ai loro autori durante il corso dei secoli, per ragioni ideologiche, politiche o religiose; per poi essere divulgati e riabilitati come classici imprescindibili della letteratura mondiale, sfoggiando lussuose copertine, pronte ad ammiccare dagli scaffali delle librerie a generazioni di lettori affascinati dalla loro genesi travagliata. Tra gli esempi più eclatanti pensiamo a testi come “l’Odissea”, di cui l’imperatore Caligola suggerì la censura per le idee di libertà promulgate; oppure al “Mago di Oz, proibito per gli elementi fantastici che esso conteneva, o ancora Frankenstein di Mary Shelley in quanto ritenuto “indecente, discutibile e osceno”; fino ad arrivare, in tempi meno remoti, ad Harry Potter e la Pietra Filosofale” di J.K.Rowling, censurato negli Emirati Arabi in quanto inciterebbe alla stregoneria. 

Altri libri invece, a causa dell’alone di mistero che continua ad avvolgerli, si collocano in una zona d’ombra di opere che sono e non sono allo stesso tempo. Questi libri hanno la caratteristica di non trovarsi mai due volte nello stesso posto, smaterializzandosi agli occhi del pubblico di ogni epoca per tornare ad annidarsi, ogni volta, negli angoli più reconditi di antiche botteghe, gestite da loschi antiquari.  Talvolta è possibile vederli  riapparire, per breve tempo, anche nelle labirintiche biblioteche di misteriosi collezionisti; in mezzo a bizzarre sculture di divinità pagane, mappe incomplete di civiltà sconosciute e radici di mandragola. Il tutto quasi a voler nascondere, per gelosia o diffidenza, i loro segreti. Si tratta di libri “maledetti”: incompiuti, apocrifi o pseudoepigrafi (falsamente attribuiti); libri soppressi o al bando per il loro contenuto; libri dimenticati, non riconosciuti o celati in altri libri; libri esistiti o solamente immaginati, in una parola sola: “pseudobiblia”!

Questo neologismo venne coniato, per la prima volta, dallo scrittore di fantasy/scifi americano Lyon Sprague De Camp – grande amico di Asimov e Heinlein e curatore del Conan di Howard - nell’articolo “The Unwritten Classics”, pubblicato sulla rivista “The Saturday Litterature Review” nel marzo del 1947. Con questo termine, lo scrittore si riferiva a tutte quelle opere immaginarie, burlescamente erudite, volte e creare una mitologia artificiale così convincentemente reale da diventarlo. Si tratta di “classici” mai terminati, opere amputate, di cui si rintracciano solamente titoli, estratti, citazioni, periodi incompiuti, moncherini in altre opere letterarie o pseudo-saggi, che testimoniano quell’irrinunciabile vocazione truffaldina della letteratura, in particolare di matrice fantastica, capace di creare una storia senza storia. 

Secondo questa formula ogni libro diventa uno pseudolibro, ogni storia ne contiene un’altra; finta ma ben mascherata da “fedele cronaca dei fatti”.Tuttavia, ogni finzione letteraria, affinché attecchisca, ha bisogno di un fondo di verità. Infatti la vasta famiglia degli pseudobiblia, non nasce e non si esaurisce unicamente sul terreno sdrucciolevole dell’invenzione narrativa; volumi introvabili sono esistiti anche sul piano della cosiddetta realtà, soprattutto negli ambienti legati all’esotersimo e all’occultismo, dove dicerie e interessate menzogne possono facilmente contribuire alla creazione di miti.

I “classici”. Tra occultismo e archeologia. 

Gli esempi più antichi a riguardo riguardano i famigerati quarantadue “Libri di Thot”, di cui le figure dei tarocchi non sarebbero altro che delle pagine strappate. La storia vuole che questi scritti profetici fossero stati redatti da Tehuti (Thot che in Grecia assumerà il nome di Ermete Trismegisto): il dio egizio della luna, della sapienza e della magia, dalla testa di Ibis, scriba divino, nonché mago. 

Si credeva che questi testi, oltre a contenere sconcertanti rivelazioni astronomiche conferissero a chiunque ne entrasse in possesso straordinari poteri, tra cui quello di resuscitare i morti e quello di influenzare le persone a distanza. I libri fecero la loro prima apparizione in un racconto egizio: “La storia di Setnau Khaemuast”, giunto a noi come papiro d’epoca tolemaica ma probabilmente di datazione più antica. Frammenti di questi manoscritti sono apparsi e scomparsi più volte, copiati e riscritti tra il XIX e il XX secolo e diversi alchimisti hanno raccontato di averne recuperato una copia. Tuttavia nessuno è mai riuscito a testimoniarlo al mondo, continuando a nutrire le fantasie più bizzarre. Secondo alcuni solo la Sfinge di Giza conosce la loro reale ubicazione. Da questo libro nel 1969 verrà poi ricavato un mazzo di tarocchi dipinto da Lady Frieda Harris, sotto la guida del noto studioso di scienze occulte Aleister Crowley.

Come si accennava prima, durante la sua giovinezza, la civiltà occidentale ha prodotto una moltitudine di libri pseudoepigrafi, fra i più importanti ricordiamo il “vero” Enchiridion: un manuale sacro ricercatissimo che raccoglieva formule magiche sotto forma di orazioni, preghiere, invocazioni e che custodiva i segreti della Cabala. Il volume viene attribuito per tradizione a Papa Leone III (750-850 d.C) che lo avrebbe donato a Carlo Magno, affinché il sovrano carolingio, usandolo degnamente, potesse diventare il “padrone del mondo”.  Leggenda vuole che nella presunta lettera, che avrebbe accompagnato il dono, fosse raccomandato di non divulgare al popolo immaturo le “verità” contenute nel testo, in quanto antecedenti alla Bibbia stessa. Dalla sua prima apparizione nel XVI secolo, questo celeberrimo Libro Magico è stato sempre tenuto in grande considerazione da alcuni dei maggiori esperti e più insigni esponenti dell’Occultismo tradizionale, da Eliphas Levi a Stanislao de Guaita. Si riteneva infatti che il possessore del libro fosse garantito da disgrazie, calamità e rovesci di fortuna, e che la sua vita potesse essere attivamente influenzata da eventi benefici e positivi. 

Tra i testi più controversi è necessario citare: “De Tribus Impostoribus”, meglio noto come il “Il trattato dei tre impostori”, empia e blasfema “bibbia dell’ateismo”, che dal XIII secolo cominciò ad essere additata dalla Chiesa Cattolica come e proprio manoscritto satanico, poiché denunciava le tre religioni monoteiste fondate da tre impostori d’eccezione: Mosè, Cristo e Maometto. La questione sulla reale paternità del libro è un giallo rimasto senza risposta fino ai giorni nostri, anche se nel frattempo innumerevoli liberi pensatori sono stati di volta in volta accusati di averlo redatto: dal dantesco Pier delle Vigne, segretario di Federico II all’olandese Baruch Spinoza, radiato dalla comunità ebraica di Amsterdam; passando per i nostri connazionali: Giovanni Boccaccio, Pietro Pomponazzi, Niccolò Macchiavelli, Pietro Aretino, Giordano Bruno  e Tommaso Campanella. E’ inutile sottolineare che di tale libro non rimangono tracce. Il testo che oggi conosciamo come il Trattato dei Tre Impostori fu pubblicato in francese ad Amsterdam nel 1721 come la La vita e lo spirito di Spinoza e acquistò il suo attuale e celebre titolo solo con la seconda edizione del 1721. Secondo il gusto dell’epoca, la prefazione editoriale si presentava come la risposta a una dissertazione che negava l’esistenza di questo stesso libro e confutava la negazione con una sedicente testimonianza di prima mano sul suo ritrovamento in una libreria di Francoforte nel 1706. 

Mentre in epoca più recente merita una menzione d’onore “Il libro di Dzyan”. Ora, nella storia delle scienze occulte esistono due generi di “libri maledetti”: quelli relativi alle pratiche di “magia nera” - i grimori – come la celebre “Clavicola di Salomone” oppure quelli relativi alla storia segreta dell’umanità; ovvero testi che narrano vicende altrimenti sconosciute, generalmente in contrasto con quanto insegnato sia dalla scienza accademica, sia dalla religioni. E’ questo  il caso del libro di Dzyan che dovrebbe rivelare verità sconvolgenti per gli uomini, in quanto provenienti addirittura da altri pianeti. Il manoscritto è citato anche dallo scrittore H.P Lovecraft in alcuni dei suoi racconti del 1935 (“Il Diario di Alonzo Typer” e “L’abittore del buio”), come una delle fonti primarie dei miti di Chtulu, al pari del ben più celebre Necronomicon, di cui parleremo in seguito. 

L’unica versione nota in Occidente di questa opera è quella tradotta in versi dalla nobildonna russa Helena Petrovna Blavatskyj ed intitolata “Le Stanze dal Libro di Dzyan”, che insieme a “La dottrina segreta” e “Iside svelata” è considerata l’opera più importante della scrittrice e fondatrice della Società Teosofica. Circa la sua effettiva esistenza possediamo solo la testimonianza della Blavatskyj che di per sé è già brillantemente romanzata. Infatti la medium russa afferma di aver scoperto al Cairo, grazie ad un mago copto, l’ “esistenza” di un libro pericolosissimo, scritto in una lingua pre-ariana – il senzar – dettato dagli antichi abitanti di Atlantide e conservato in un monastero in Tibet, in grado di svelare segreti vecchi di centinaia di milioni di anni.  

D’altra parte è proprio in questo periodo che s’infittiscono le leggende sui continenti perduti di Atlantide e Mu e si moltiplicano testimonianze ed esplorazioni volte a coniugare realtà e fantasia. Pensiamo che proprio nel 1871 era da poco partita la spedizione dell’archeologo tedesco Heinrich Schliemann in Turchia, alla ricerca della città di Troia e del tesoro di Priamo, sulla base degli scritti di dubbia veridicità, composti da un aedo cieco noto a qualsiasi liceale. Questo a dimostrazione di come l’Oriente fosse la meta ideale di ogni pruriginoso occidentale in cerca di arcane suggestioni.

Pseudobiblia moderni nella letteratura fantastica

Questo vasto proliferare di libri (semi)immaginari non poteva non lasciare una traccia indelebile anche nella letteratura fantastica, in particolare modo fra quegli autori che consideravano conclusa la stagione del romanzo gotico e guardavano con interesse all’esperienza di Edgar Allan Poe. Lo stesso Poe, per rendere più complessa la narrazione e dare maggior peso alle idee discusse nelle sue opere, vi introdurrà numerose pseudocitazioni e brani tratti da testi fittizi. Basti pensare al “Manoscritto trovato in una bottiglia” del 1832 o all’impareggiabile “Manoscritto Trovato a Saragoza” del 1805, unico scritto del conte polacco Jan PotockiGli espedienti narrativi alla base di questo nuovo approccio sono sempre,  o quasi, basati su alcuni elementi ricorrenti: diari rinvenuti per caso, quaderni gualciti carichi di strane annotazioni o raccolte epistolari, spuntate per caso in qualche cassetto, che il narratore di turno rinviene “casualmente” e trascrive appositamente per i suoi lettori. Basti pensare, per un attimo, anche al nostrano “manoscritto” rivenuto da Alessandro Manzoni alla base dei suoi “I Promessi Sposi”. 

Rappresentante di spicco e figura portante del filone è sicuramente Ambrose Bierce, uno degli esponenti più cinici e sarcastici della letteratura americana. Infatti lo scrittore inserisce metodicamente, all’interno dei proprio racconti, una serie di frammenti desunti dal cosiddetto “Libro segreto di Hali”.  Tra questi è fondamentale ricordare il brano posto come epigrafe del suggestivo racconto breve: “Un Cittadino di Carcosa” del 1886, perché è qui che per la prima volta viene menzionata la leggendaria città abbandonata di Carcosa (dall’antico nome della città francese di Carcassonne, o da “carcass”, carogna), le cui rovine diventeranno l’emblema della futilità dell’esistenza umana. 

(Original Caption) American author and journalist Ambrose Bierce. Photograph, sitting under tree. Undated.

Sarà proprio il fascino funereo di questa città a influenzare un giovane pittore bohemienne  di nome Robert William Chambers che, convertitosi alla scrittura, darà vita inconsapevolmente a uno dei capisaldi degli pseudobiblia moderni, pubblicando nel 1895: “Il Re Giallo”. L’autore lo descrive come un fantomatico testo, strutturato in due atti, simile ad una tragedia elisabettiana o giacobita del Seicento inglese, ambientato proprio a Carcosa, sulle rive del lago Hali. Di questo libro non esistono che dei brandelli, con cui vengono a contatto alcuni dei disperati protagonisti dei racconti. Sappiamo solo che nella città vive una dinastia imperiale dedita al culto delle Stelle NereIadi e Aldebaran, celebrato da Hastur, “Il Re in Giallo,Colui che non deve essere nominato”.

Chambers, per avvalorare la supposta pericolosità del libro, infittisce la trama di citazioni dal Primo atto del Re in Giallo, che invita subdolamente a inoltrarsi nel diabolico atto secondo, il cui potere di instillare pazzia genera un’epidemia di suicidi tra tutti gli incauti lettori che provano a indagarne il contenuto.

Qualcuno di voi, a questo punto, si chiederà perché proprio la scelta del colore giallo? Sembra che l’autore concepì l’idea nel 1891, mentre leggeva un romanzo da poco uscito, scritto da un certo Oscar Wilde, in cui un libro, senza titolo, del medesimo colore, avvelenava la vita del protagonista de “Il Ritratto di Dorian Gray.” 

Il mistero si infittisce. In ogni caso, l’influenza dell’opera negli ambienti letterari fu talmente forte da incuriosire un solitario ed eccentrico redattore della rivista “cult” Weird Tales, che rievocherà HasturHali e il Segno Giallo in un suo racconto, “Colui che sussurrava nelle tenebre” del 1930; il suo nome era Howard Phillips Lovecraft. 

Il Necronomicon, storia di un libro che volle farsi mondo

Sulla genesi del “Necronomicon” esistono diverse versioni, una più affascinante dell’altra. Per esempio sull’etimologia del nome, in una lettera, Lovecraft sostiene che il titolo gli sia apparso in sogno da bambino e che significhi “la descrizione delle leggi dei morti (o che governano i morti)”; dalle parole greche “nekros” (cadavere), “nomos” (legge) ed “eikon” (descrizione). Sulle potenziali fonti d’ispirazione invece c’è chi sostiene che sia stato il celebre grimorio la “Chiave di Salomone”, che l’autore avrebbe conosciuto tramite il libro “The Book of Cerimonial Magic” (1898) di Arthur Edward Waite, originariamente noto come “Il Libro della Magia Nera e dei Patti”. Secondo altre fonti lo spunto sarebbe stato “Picatrix”: un trattato alchemico in latino tradotto dalla arabo di fondamentale importanza per l’occultismo astrologico tra il Tardo Medioevo e il Rinascimento. 

La prima apparizione del grimorio lovecraftiano, sebbene soltanto in nuce, è rintracciabile in un racconto breve “Il cane” (The Hound) del 1924. Tuttavia dovremmo attendere ancora qualche anno per giungere ad una più dettagliate e succulenta trattazione. Infatti solo dopo una serie di sfortunati eventi, una volta tornato a Providence, centro nevralgico di idee malsane e propulsore di incubi, il solitario scrittore inizia a costruire, racconto dopo racconto, la sua tentacolare teogonia basata sui Miti di Chtulu, popolati da blasfeme divinità e striscianti creature che saranno alla base del Necronomicon appunto. 

Una volta disseminati gli indizi, attribuirà un ruolo centrale a questo testo, grazie al quale renderà ancora più palpabile il senso di agghiacciante mistero o meglio, di orrore cosmico, che circola nelle sue opere, assegnando una veste storico-bibliografica alla sua creatura, ed è per questo che decide di scrivere nel 1927 una “Storia e Cronologia del Necronomicon”, curata da lui stesso per accentuarne la veridicità. È qui che ci viene narrata, per la prima volta, la storia del suo misterioso autore: l’arabo pazzo Abdul Al Alhazred (da “All Has Read”, “Che Ha Letto Tutto”), di cui i seguaci di Lovecraft avevano già sentito parlare nel racconto “La Citta Senza Nome” del 1921.

Il poeta yemenita, vissuto nel periodo dei califfi Omiadi (VIII secolo d.C), introdotto ai segreti di antichissime religioni, dopo aver visitato le rovine di Babilonia e le catacombe segrete di Menfi, si ritira per dieci anni nel deserto di Rub’ al-Khali (detto “Il Quarto Vuoto”dagli antichi arabi), circondato da spiriti malvagi (jinn). Finché a seguito di altre avventurose peregrinazioni che lo condurranno anche ad Irem (la favolosa “Città dalle Mille Colonne”), si ritira a Damasco dove trascorre gli ultimi anni della sua vita compilando “Al Azif” (“Il suono degli esseri che strisciano nella notte”); più noto con il titolo occidentale di Necronomicon. Ovviamente, chiunque maneggi questo volume è destinato a una tragica sorte, cui non sfuggì neanche l’autore stesso, divorato davanti a tutti, alla luce del sole da una creatura invisibile nel 738, almeno stando a quanto riferito dal biografo Ibn Khallikan.

A fronte di un simile gioiello di pseudoerudizione, non si farà attendere la risposta di cultori e appassionati di letteratura fantastica, i quali parteciperanno negli anni a venire alla ricostruzione delle vicende legate al Necronomicon; aggiungendo nuovi riferimenti bibliografici, particolari curiosi sulla sua storia editoriale, versioni inedite, segnalazioni delle biblioteche (pubbliche e private, reali e immaginarie), che vantano nel loro catalogo il malefico testo. L’originalità e la genialità di Lovecraft, contrariamente a sui predecessori e contemporanei colleghi, risiede nella rivoluzionaria ma soprattutto consapevole gestione di un fenomeno che grazie al suo lavoro ha mutato radicalmente il suo aspetto iniziale, traslocando dalla letteratura alla società.

Dopo il Necronomicon, gli pseudobiblia non appaiono più come meri pretesti letterari che si esauriscono all’interno delle loro singolarità ma diventano veri e propri culti, itinerari percorsi da una folta schiera di onnivori lettori, che a loro volta diventano profeti di questo culti, divulgandoli e ampliandoli con le loro interpretazioni.

Ciò che dispiace è che l’opera dell’arabo Alhazred abbia messo in ombra altri, non meno inquietanti pseudolibri lovecraftiani che avrebbero meritato maggiore fama. Come per esempio i “Manoscritti Pnakotici” o i “Sette Libri Criptici di Hsan” (comparsi nel 1927, nell’onirico romanzo “Alla ricerca del misterioso Kadath”), il”De Vermis Mysteriis”, ideato dal grande Robert Bloch in collaborazione con lo stesso Lovecraft; cosi come l’introvabile “Cultes des Goules” del fantomatico Conte D’Erlette. Tuttavia se qualcuno di voi si trovasse in erasmus ad Arkham nel Massachusetts, consiglio una sosta alla Miskatonic University perché la sua vastissima biblioteca, la Orne Library, custodisce la maggior parte dei titoli di cui vi ho accennato. Chiedete del prof. Henry Armitage Jr, sicuramente lui saprà consigliarvi e se vi prenderà in simpatia, potrà anche raccontarvi di come suo padre sconfisse Wilbur Watheley, l’apocalittico “Orrore di Dunwich”.

Pseudobiblia al cinema

Il carattere metatestuale degli pseudobiblia e il loro indiscusso successo, decretato dal pubblico di massa, non poteva sfuggire alle grinfie del grande e del piccolo schermo; soprattutto nell’epoca della serializzazione selvaggia e delle (ec)citazioni colte. L’immancabile Necronomicon è stato il protagonista a più riprese, come gli appassionati ben ricordano, dell’universo splatter/grottesco del cult-movie de “La Casa” (Evil Dead) di Sam Raimi e dei successivi sequel. Qui, l’arcano volume è capace di evocare non meglio precisati “demoni sumeri, fronteggiati a colpi di motosega da Ash Williams , commesso a tempo pieno dei supermercati S Mart, paladino part-time della razza umana; tornato alla ribalta proprio negli ultimi anni nella serie tv  “Ash vs. Evil Dead interpretata dall’iconico Bruce Campbell

Poco conosciuto in Italia ma meritevole di attenzione è invece il dissacrante “Omicidi ed Incantesimi” (“Cast a Deadly Spell”) del 1991. Un film per la televisione, diretto da Martin Campbell, che ci presenta una piacevole digressione in chiave hardboiled di Lovecraft e del suo universo. Infatti nella pellicola lo ritroviamo nei panni del classico detective – dai modi poco ortodossi ma dall’animo romantico -  mentre si muove a sua agio tra una folla di zombie, gargoyle e gremlins che abitano una Los Angels ucronica del 1948.  Il tutto nel tentativo di recuperare un antico libro – il Necronomicon – per conto di un losco uomo d’affari. 

Più rispettoso dell’originale ispirazione lovecraftiana è invece il film a episodi “Necronomicon – The Book of Dead”, realizzato nel 1993 dal trittico Christophe Gans, Shusuke Kaneko e Brian Yuzna: tre storie che lo scrittore di Providence, in questo caso protagonista in carne e ossa della vicenda, avrebbe tratto proprio dal suo sacrilego grimorio.

Nel 1995 esce al cinema “Il Seme della Follia”: uno dei film più pseudobiblici di sempre, in cui il veterano del cinema horror John Carpenter decide di rendere il migliore omaggio possibile a Lovecraft e all’amico Stephen King; restituendo perfettamente su pellicola le atmosfere evocate dai due autori. 

La storia è quella di uno smaliziato investigatore privato - Sam Neil - che si ritrova coinvolto a indagare sulla misteriosa scomparsa di Sutter Cane, sulfureo autore di inquietanti best-seller in grado di istillare un’ insana isteria collettiva nei suoi lettori; complice il suo ultimo romanzo In the Mouth of Madness” che promette di evocare oscure divinità senza tempo. 

Nel 1999 è il turno di Roman Polanski, regista dannato per definizione, che dirige “La Nona Porta”: un fascinoso thriller sovrannaturale, liberamente ispirato allo splendido romanzo “Il Club Dumas” di Arturo Peréz Reverte, che ci conduce insieme ad un distaccato Johnny Depp, nei panni del bibliofilio mercenario Dean Corso, sulle tracce de “Le nove porte del Regno delle Ombre”, un altro minaccioso volume scritto nel 1666 a quattro mani dall’occultista veneziano Aristide Torchia e da Satana in persona. 

Nel 2001, alle soglie del nuovo millennio, forse in pochi rammentano che anche nel cult generazionale Donnie Darko di Richard Kelly si fa riferimento ad un altro pseudobiblion, stavolta di natura esclusivamente cinematografica. Ci riferiamo a “The Philosophy of Time Travel” di Roberta Ann Sparrow su cui l’intero film poi si appoggia nel tentativo di dare maggiore forza narrativa e una presunta scientificità agli avvenimenti che coinvolgeranno il protagonista. Donnie lo riceve in dono dal suo professore di fisica dopo una discussione sui viaggi nel tempo; approfondendolo il ragazzo si renderà conto che tutte le sue inquietanti visioni trovano pieno riscontro nelle sue pagine e che lui è il protagonista di un destino ineluttabile di cui sta seguendo inconsciamente le tracce. 

Per tornare ad omaggiare i “classici” del genere dobbiamo aspettare il 2014, con un’interessante incursione televisiva direttamente alla corte dell’enigmatico Re in Giallo,  protagonista occulto dell’eccellente prima stagione della serie tv di “True Detective” scritta da Nic Pizzolatto. Spetterà proprio alla coppia dei poliziotti protagonisti, interpretati da Matthew McConaughey e Woody Harrelson, intraprendere un viaggio filosofico/esistenziale che li condurrà proprio a Carcosa, dove il nostro discorso ha avuto inizio. 

Pseudo Conclusioni 

Pur essendomi soffermato solo su alcuni titoli emblematici, in realtà la galassia degli pseudobiblia è davvero sterminata e non ruota solamente intorno a Lovecraft e ai miti di Chtulu ma abbraccia autori e generi completamenti distanti tra loro, che hanno contribuito ad arricchire questa biblioteca immaginaria universale.

Pensiamo all’ “Enciclopedia Galattica”, probabilmente il testo più citato nella fantascienza, da cui prenderà spunto anche Douglas Adams per la sua altrettanto fittizia “Guida Intergalattica per gli Autostoppisti” nel 1979. Questo monumentale tributo alla conoscenza interstellare compare per la prima volta  nel racconto Fondation (1942) di Isaac Asimov, da cui insieme ad altri racconti getterà le basi per il famigerato Ciclo della Fondazione. Oppure “Il libro delle calende”, lo  pseudobiblion concepito da Philip K. Dick, nel romanzo “Giù nella Cattedrale” (1969), come un libro  in continua evoluzione, che non conosce i limiti della scrittura o dell’impaginazione e può cambiare titolo e autore di volta in volta.  Sempre di Dick non è possibile tralasciare il ben più noto “La cavalletta non si alzerà più” di Hawthorne Abendsen, il romanzo sulla sconfitta di Hitler, citato nel suo famoso “La Svastica sul Sole” del 1962. Ovviamente non mancano corrispettivi illustri anche in ambito fantasy da J.R.R Tolkien a George R. R. Martin, passando per J.K Rowling, fino a toccare anche autori di tutt’altra estrazione come il compianto Carlos Luiz Zafòn. 

Questi sono alcuni esempi ma la lista è potenzialmente infinita anche perché, con il passare degli anni, anche il ruolo degli pseudobiblia ha subito una radicale trasformazione; da semplici espedienti narrativi, a disposizione degli scrittori, sono diventati veri e propri protagonisti dei racconti, contaminando il nucleo stesso della narrazione, al punto da abbattere qualsiasi distinzione tra cultura “alta” e cultura “bassa”.  

È il caso di uno scrittore come Vladimir Nabokov che, particolarmente affascinato da questo fenomeno, ha fondato gran parte delle sue opere su libri inesistenti.  Tra le più avvincenti c’è sicuramente “La vera vita di Sebastian Knight” (1941) : un romanzo imprevedibile e dallo stile unico, che si prefigura come il tentativo di redigere una biografia dell’autore del titolo, attraverso frammenti ed estratti delle sue opere; immergendo in il lettore in un intreccio di testi illusori e citazioni fittizie, che non potranno far altro che rapire la sua attenzione per tutta la durata della narrazione.  

Oppure i lavori di Jorge Luis Borges, narratore, poeta e saggista argentino, un autore che per tutta la sua vita ha amato nascondersi dietro falsi nomi, attribuendo ad altri le proprie creazioni e fingendo di non averne memoria o di non averle mai scritte. A lui va riconosciuto il merito di aver studiato e approfondito l’argomento al punto da aver concepito una pietra miliare del genere, un capolavoro moderno, come “Finzioni” (1944). Si tratta di un’antologia che raccoglie alcuni saggi che l’autore ha scritto su degli pseudobiblia, perché secondo il suo approccio “certi libri è più semplice recensirli che scriverli”. Il libro è un colto divertissement in cui scrittori realmente esistiti vengono accostati  a citazioni inventate, dove critica letteraria e letteratura fantastica si fondono in un gioco letterario senza fine. 

Ma cosa sono dunque gli pseudobiblia alla fine? Elogi dell’intrattenimento? Falsi d’autore? Supercazzole stellari? Come è possibile orientarsi all’interno della loro biblioteca labirinto dove nulla è ciò che sembra? Probabilmente, il criterio più congeniale con cui affrontarli è proprio quello di abbandonarsi alla perdita dell’orientamento. Ogni pseudobiblion può essere considerato come un pezzo imprescindibile di un puzzle infinito, che sfida ciascun lettore a mettersi di fronte alla complessità della molteplicità, spingendolo alla ricerca della logica insita nel caos. Umberto Eco li ha definiti una convincente metafora volta alla rappresentazione della realtà in cui l’uomo vive, quella realtà che chiede di essere indagata attraverso una pluralità di percorsi per essere conosciuta e ordinata, nello sforzo di mettere in gioco se stessi.

Se ci riusciremo allora non dovrebbe più stupirci la possibilità di scovare, tra gli scaffali polverosi della nostra biblioteca di riferimento, il volume originale del “Il Libro Rosso dei Confini Occidentali” scritto da Bilbo Baggins o “Le Dinamiche di un Asteroide” del professore James Moriarty. Buona lettura!

 

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