Panic annuncia una console che se ne fotte di regole e mercato, e che punta al cuore dei gamer della vecchia guardia
Chi vi scrive nutre un rapporto di amore e odio con le console portatili. Un rapporto che si è evoluto nell'arco di 30 anni, e che è passato attraverso una moltitudine di arrivi sul mercato di accrocchi più o meno riusciti. Un rapporto tumultuoso, come quello che puoi avere con il grande amore della tua vita, con quella ragazza che ad un certo punto ti tiene per le palle con la mano così stretta che te senti il dolore anche quando ci pensi dopo anni e anni.
Ecco, io forse delle portatili sono innamorato, e il mio astio è solo dovuto alle tante delusioni. Tipo il Game Gear di Sega, il Wonder Swan di Bandai e persino la Switch che per me, di portatile, non ha nulla se non il concept. Le portatili sono state il primo grande amore della mia vita e, a volersi sentire proprio vecchi, parliamo di un amore che ho coltivato sin dalla tenerissima età, essendo stati i videogame “da tasca” il primo approccio che abbia mai avuto con il videogioco in sé.
Il mio abecedario, ovvero il “testo” da cui ho imparato a capire e cominciare a leggere i videogiochi sono stati gli indimenticabili tascabili Tiger (da noi penso li portasse Giochi Preziosi) che sulla falsariga dei Game & Watch inondarono il mercato sin dalla metà degli anni '80. Economici, rigorosamente privi di colore, plasticosi come non mai e, in qualche forma, artigianali.
Da lì al Game Boy, ovvero la prima vera console che abbia mai posseduto, fu un attimo. E che cos'era il Game Boy se non una cosa dall'aspetto tremendamente artigianale? Era giocattoloso, ma in un modo del tutto incomprensibile, con quella sua livrea grigia che, a proposito di “artigianato”, lo faceva assomigliare ad un foratino da cantiere . Però era bello. Era fottutamente bello ed era portatile. Lo portavi in giro ovunque, e lui non ti abbandonava quasi mai, anche se andava a pile. Era un simbolo di pensare il videogioco in mondo schietto, smart, senza troppi giri di parole. Un po' come il tizio che se l'era inventato: Gunpei Yokoi.
Yokoi era un manutentore degli uffici di Nintendo. Uno che, insomma, non contava molto nelle dinamiche di un'azienda che, già all'epoca, era comunque abbastanza grossa e abbastanza ricca da tentare di sfondare in settori che non le competevano. Yokoi però era brillante e divertito, un genio a suo modo, e si era inventato una roba che a pensarci era una cazzata assurda: una manina estendibile per prendere le cose. Si chiama “Ultra Hand”, ed era un po' l'emblema della sua filosofia di design. Oggetti semplici, funzionali, alla portata di tutti, e senza l'austera pretesa del non voler essere giocattoli.
Pensando al Game Boy, a Yokoi, e a tutto quello che significa giocare, e poi vedere il Playdate mi ha fatto sorridere di brutto. Una console venuta fuori dal nulla, con una goffa manovella a fare bella mostra di sé sul fianco. Pochi tasti, giusto quelli che proprio ti servono per poterci giocare, uno schermo del tutto privo di pretese, e una livrea giallo banana che, non appena la vedi, te la fa subito sembrare un'idea a la Yokoi in tutto e per tutto.
Una console senza supporto fisico, senza schermo retro-illuminato, senza alta definizione e senza colori, e con al lato una manovella tipo le torcette da pochi euro che puoi trovare da Decathlon.
Follia o genio, il confine è molto labile.
PlayDate, dopo anni ed anni di aridità emotiva verso il settore portatile, mi ha fatto tornare la voglia di giocare al Game Boy e, già solo per questo, grazie. Se l'è inventata Panic, ovvero quelli che hanno pubblicato (ma non sviluppato), Firewatch. La loro idea è tanto fuori di melone quanto poteva esserla una certa frangia della Nintendo dei bei tempi che furono: facciamo una console portatile, neanche particolarmente economica (149 euro a inizio 2020), in cui il modello di vendita funzionerà a stagioni, ed in cui al giocatore offriremo un sistema di controllo del tutto privo di senso: una manovella.
L'idea sulla carta pare surreale, ma Panic la sta facendo lo stesso e la cosa curiosa è che il progetto non è neanche un Kickstarter. Una cosa che secondo me è fondamentale per il modello di mercato attuale. P anic, in sostanza, non ti chiede di supportare lo sviluppo e la produzione secondo un più logico (e meno rischioso) modello di crowfunding ma, anzi, si sta intenzionalmente accollando il rischio mettendo in produzione la console. In numero limitato, certo, ma senza sotterfugi di sorta.
Se conoscente il fondatore di Panic, ovvero Steven Frank, capireste che la cosa ha perfettamente senso. Frank è uno che nel tempo libero si diverte a fare animazione, fumetti, e persino un po' di musica. In rete è diventato famoso nel 2004, quando ispirandosi alle mail di spam che gli affollavano la casella, si inventò una serie a fumetti basata sul contenuto di quelle stesse mail: “Spamusement!”. Disegnata male, anzi malissimo, la sua strip è diventata un cult degli uffici americani, perché era schietta, divertente, e del tutto incapace di prendersi sul serio.
Playdate, la console di Panic, mi pare orientarsi sulla stessa linea. Partiamo dalle basi: uno schermo 400x240 pixel in bianco e nero (come il Game Boy e, credetemi, sicuramente non è un caso) senza illuminazione. Il sito ufficiale promette che non ci saranno problemi a giocarci anche sotto al sole ma, diciamocelo, siamo in netta controtendenza con qualunque altro dispositivo del mercato che non siano le calcolatrici.
Una decisione che, certamente dovuta anche al contenimento dei costi, risuona così forte di “sticazzi la concorrenza” da essere, di per sé, già una garanzia. Due i tasti, i classici A e B, e una croce direzionale così demodé che ormai non li si vorrebbe neanche più sui pad di casa. Praticamente un Game Boy giallo, ma con questa benedetta manovella.
Ora, se a me dici che una cosa è “a manovella”, considerando il mio forte backgroud da amante delle espressioni gergali, io traduco immediatamente il tutto con “è una poveracciata”. La manovella, come sinonimo di un qualcosa di antico, di vetusto, di sorpassato, è qui il fottuto selling point dell'intera console.
Non lo dico io, lo dice Panic, che in questo momento ammette di non sapere nemmeno come rilascerà i giochi successivi alla prima ondata (12 per altro, uno per ogni mese del 2020), né tanto meno se li faranno altri giochi successivi al dodicesimo.
A loro, evidentemente divertiti come matti all'idea di fare una console, non frega nulla se non, appunto “fare la console”. La sconsideratezza dal sapore naive dell'intera operazione mi ha già conquistato.Oh yeah, the crank! No, it doesn't power the device. It's a flip-out rotational controller that puts a fresh spin on fun. Some games use it exclusively, some use it with the d-pad, and some not at all. pic.twitter.com/XYW97nLZKK
— Playdate (@playdate) 22 maggio 2019
Ma vi dirò di più. Ripensiamo a Yokoi: il videogame, nella sua purezza, è sempre stato figlio di due cose: sperimentalismo e follia. Ben prima che il mercato si adoperasse per rispondere alla domanda, più che a generare l'offerta, prima – insomma – che le IP si trasformassero in brand, ed i brand in franchise, i migliori videogame venivano fuori da idee completamente fuori di testa.
Esiste lì fuori un intero panorama di vecchi arcade (e soprattutto di vecchi bemani) a testimonianza di quello che vi dico. Panic, come chi vi scrive, è evidentemente affezionata a quell'idea. Lo è così tanto che non solo ti fa una console a manovella, con pacchetti di giochi venduti come un abbonamento, ma sceglie di percorrere la strada dello sviluppo strampalato e che sa osare.
Un solo gioco è stato annunciato per Playdate. L'unico, per ora, che si sa userà per certo la manovella: si chiama Time Travel Adventure, e si basa tutto sul concetto di far avanzare e riavvolgere il tempo per mezzo della rotazione della manovella della console. A svilupparlo è Keita Takahashi, ovvero il padre della serie Katamari Damacy, che è forse uno dei giochi più genuinamente “Nintendofili” ad essere uscito al di fuori dei confini della grande N.
Coincidenze? Non credo proprio.
Ora, di Playdate si sta dicendo ovunque peste e corna. Io però ho notato questo: quelli come me, che hanno 30 e passa anni, e che hanno passato la loro vita nella speranza di diventare i campioni della propria sala giochi di quartiere (con buona pace delle stesse, ormai estinte), sono tutti in fibrillazione.
Noi, vecchia generazione di arcade player, innamorati del videogioco prima del business del videogioco, abbiamo forse capito intrinsecamente quello che Playdate vorrebbe essere. Non un'alternativa, ma un sano e divertito omaggio al mondo del videogioco. Un tributo che non ha alcuna pretesa o attesa commerciale, ma che vuole solo far divertire, di gusta, una vecchia nicchia di amanti del videogame.
Funzionerà? Forse no, forse durerà un anno, ma in fin dei conti va bene lo stesso.