Perché "First Man" non la racconta giusta
Il film di Chazelle è ricco di emozioni e scene ben riuscite, ma forse gli manca qualcosa: un punto di vista che ci mostri l'immensità fredda e indifferente dello Spazio
Okay, finalmente (?) vi parlo del perché “First Man” mi è piaciuto ma non mi è piaciutissimo (se invece volete qualcuno a cui è piaciutissimo leggete qua NdLorenzo).
A vedere il film di Chazelle io c’ho portato tutta la famiglia. Tipo pellegrinaggio a Medjugorie. C’è il 50esimo anniversario quindi tutti a vedere cosa siamo riusciti a compiere nel 1969! Ecco, l'errore è stato mio. Pur sapendo che si trattava di un film narrativo, di un’opera che, per inevitabili questioni drammaturgiche, dovrà focalizzarsi sulle vicende personali dei protagonisti, io ci sono andato con l’idea di vivere quell’evento. E di farlo vivere anche ai miei.
Ora, devo ammettere, per una questione di onestà intellettuale, che io sono uno di quei space-geek integralisti che si è letto praticamente ogni cosa sulle Missioni Mercury/Gemini/Apollo. Sono arrivato a ricreare la missione con Kerbal Space Program. Quindi, si, magari sono solo io un po' troppo difficilino da accontentare.
Il film è indubbiamente bello, le sequenze sulle capsule sono iper-realistiche e viscerali. Si certo, c'è Gosling che fa un po' troppo Gosling e Corey Stoll ritrae un Buzz Aldrin sbuffoncello che poco ha a che fare con il personaggio reale, ma è una produzione tecnicamente eccellente. Il sound-design è incredibile. È tutto superlativo, ma … mh ... a me è mancata la percezione dell’enormità di quello che l'umanità raggiunse sul finire degli anni sessanta.
Credo che il motivo sia da ricercare nel fatto che Chazelle non è affascinato dalla vastità insondabile dello spazio, dalla sua impensabile disumanità (nell’accezione di luogo totalmente alieno all’uomo). Chazelle è interessato all'Armstrong uomo. Ed è una scelta rispettabilissima, ma ho idea che se la missione avesse avuto come obiettivo il raggiungimento della Fossa delle Marianne, il regista l’avrebbe raccontata nello stesso modo proprio perché attratto dall’individuo, dall’esperienza in prima persona. Un racconto dall’interno degli abitacoli. Che fuori ci sia lo spazio o l'oceano è lo stesso. Nel farlo, però, non lascia il tempo a quella vicenda di respirare. Non permette al pubblico di sentire sulla pelle l’abisso delle stelle, di percepire l’umanissima necessità di queste scimmie evolute di “portare la propria luce nella vastità senza significato dell’universo” come disse Stanley nella famosa intervista a Playboy del 1968.
E proprio perché l’allunaggio del luglio del ’69 è stato un evento che ha travalicato qualsiasi storia personale, l’atto di raccontarlo dal punto di vista di “qualcuno” (anche se quel qualcuno è il tizio che è sceso davvero sulla Luna) ne smorza la portata. Conoscendo le incredibili sfide che il team NASA dovette affrontare la rappresentazione che ne fa “First Man” risulta annacquata.
Pochi cineasti hanno saputo mostrare l’annichilente salto di scala tra le vicende umane e l’assordante disinteresse del cosmo. Oltre Kubrick, mi viene in mente Danny Boyle con “Sunshine” (fino allo scemissimo terzo atto), Cordero per buona parte di “Europa Report” e anche, ma si!, Robert Wise nella lunghissima sequenza del volo dentro la Nuvola in "Star Trek: The Motion Picture".
Invece nel film di Chazelle il viaggio dura troppo poco, l’allunaggio è inutilmente iper-drammatizzato, il lander va troppo veloce, gli interni, sia del modulo di comando che del LEM, sono ingiustificatamente lerci. Questa scelta di rendere tutto così drammatico e “raw” è fuori luogo. Lo è perché la realtà fu già sufficientemente drammatica. Ascoltate i 15 minuti di registrazione audio tra Armstrong/Aldrin e Houston che trovate qui sotto. Il racconto è incredibilmente emozionante. Lo è molto di più. E lo è senza quasi vedere alcuna immagine, solo attraverso le voci. Senza edulcorare niente.
Sapete cosa? Sarebbe stato splendido se “First Man” avesse lasciato gli ultimi 15 minuti del film per raccontare, secondo per secondo, battuta per battuta, quella incredibile discesa. Hai presente il cosplaying di Rami Malek durante il concerto Live Aid in “Bohemian Rapsody”? Ecco, così. Sarebbe stato molto più emozionante, intenso e nail-biting di quel riassunto velocizzato e drammatizzato che abbiamo visto sullo schermo.
Il peso del Chazelle-autore qui ha inutilmente scolorito la vicenda raccontata che, al di là delle storie personali, al di là del dramma del singolo, è il racconto di un viaggio verso la Luna compiuto cinquant'anni fa dentro una scatola agganciata ad un'altra scatola persa nell'infinito nulla.
(Ah, forse, però siamo fortunati perché la NASA per il 50esimo anniversario dello sbarco ha supportato due progetti cinematografici distinti. Uno è il film di Chazelle, l’altro è il documentario “Apollo 11” di cui è uscito oggi il trailer. Realizzato utilizzando riprese in 65mm mai viste, dicono loro, il film potrebbe aiutare a restituire la giusta prospettiva su questo evento unico ed epocale.)