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Pacific Drive e l'atmosfera fuori strada

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Pacific Drive ci porta a guidare in una zona di quarantena piena di fenomeni paranormali e dal fascino inquietante, armati solo del cambio.

Sopravvivere alla guida è quello che faccio ogni giorno, visto che mi tocca girare a Roma. Evidentemente però lo scenario urbano non basta per Pacific Drive di Ironwood Studio: un gioco di sopravvivenza la cui idea centrale è di attraversare una Zona di Esclusione fitta di fenomeni paranormali a bordo di un’auto di fortuna che diventa l’unica protezione contro i rischi esterni. Un “driving survival” lo definiscono gli esperti, un genere che di certo non si vede spesso considerando come l’esperienza automobilistica sia il più delle volte legata al racing o al trasporto merci. L'ispirazione palese è ovviamente "Picnic sul ciglio della strada", romanzo russo da noi chiamato anche Stalker che ha definito tutta l'atmosfera che poi è diventata parte di un tipo di giochi ben preciso.

Pacific Drive uscirà a febbraio ma, nell’attesa, ho potuto provare le prime ore di gioco e capire un po’ l’anima che rende vivo questo scenario paranormale su quattro ruote. L’interesse da parte mia c’è tutto: ho un debole per i videogiochi la cui atmosfera si inabissa nel mistero contornata da tonalità pastello spente, dove i contorni visivi e della realtà si mischiano in una linea sfocata con l’impossibile.

Tuttavia queste atmosfere non sono del tutto nuove, altri hanno già avuto modo di sfruttarne i vantaggi e l’espediente artistico è ormai esplorato abbondantemente. Control, Inside, Generation Zero, Somerville, ne potrei citare altri ma avete sicuramente capito. Per me si tratta di una corrente molto vicina a quelle che sono le idee visive di Simon Stalenhag e vi basta aprire qualche suo libro per comprenderne perché, anche se mi limiterei solamente a parlare di ispirazione e non di “copiatura”.

Dunque in questo mare blu scuro, dove si colloca Pacific Drive? Sicuramente fa parte di quelli per cui la narrativa emergente è tutto, affidando ai giocatori il compito di scoprire le cose semplicemente esplorando e traendo le proprie conclusioni con l’aiuto di qualche voce incorporea. Per Pacific Drive questo si traduce nell’ambientazione della Penisola Olimpica e la relativa Zona di Esclusione: una sorta di area posta in quarantena da enormi mura industriali e brutaliste, una Wayward Pines senza case e quelle che ci sono ormai fanno parte delle rovine sparse per il mondo.

Come Metro 2033, la totalità dei fenomeni ha a che fare con delle energie elettriche e plasmatiche, costruendo quindi il contrasto tra la forte componente naturale delle foreste di Pacific Drive con quella industriale altamente intrusiva, qui portata alle conseguenze più evidenti. Anche questo parallelismo può ascriversi alla ispirazione artistica di cui sopra.

Pacific Drive è indubbiamente un gioco d’atmosfera più che ludico ed è lì che Ironwood Studio ha portato tutto quello che poteva. La macchina è infatti il veicolo (metaforico e letterale) scelto per immedesimarsi nella situazione che fa da sfondo alle vicende di gioco e, per tale ragione, ogni sua componente è interattiva come se il giocatore stesse veramente dentro l’abitacolo del proprio mezzo, passando dagli accessori come le chiavi per l’accensione fino alle eventuali riparazioni da effettuare.

La sensazione di guida effettiva c’è ed è ben eseguita, ma non avrebbe valore senza un panorama tanto inquietante quanto affascinante. Certo non tutte le strade sono entusiasmanti, ma la maggior parte degli scorci visibili dai finestrini sono valevoli di ore e ore passate a guidare con una bella playlist di sottofondo ad accompagnare.

Il problema, come spesso accade in giochi d’atmosfera del genere, è quando la parte ludica diventa intrusiva o petulante, come se il giocatore dovesse per forza stare a eseguire qualcosa a meno di volerlo morto di noia.

Crafting, potenziamenti, raccolta di materiali e via discorrendo non solo vi allontano dalla macchina (per poco tempo, per fortuna) ma spezzano quello che sarebbe un ritmo di guida altrimenti perfetto, tornandovi a far ricordare che siete di fronte a un gioco che vi richiede di completare degli obiettivi per giustificare i soldi spesi.

Come se non bastasse, ci sono dei limiti artificiali che inficiano su durata della partita e durevolezza del mezzo: comprensibili per via della struttura della trama, certo, ma creati appositamente per rendere Pacific Drive il più riproducibile possibile e assicurarsi di bloccarvi in quel loop da gioco di sopravvivenza roguelike, roguelite, come vi pare.

C’è chi non ha avuto bisogno di questi ninnoli per fare un’esperienza pura con la stessa atmosfera: Titan Chaser di Stas Shostak. Lo cito spesso perché è stato un compagno di molte serate tranquille, ora in realtà pensiero di preoccupazione perché lo sviluppatore – come molti altri – sta combattendo per difendere la propria casa in Ucraina (per fortuna è ancora in vita e spero possa rimanerci).

Lì la macchina è tutto e, soprattutto, l’atmosfera è il centro nevralgico della trama e del gameplay, sfruttando sapientemente l’elemento automobilistico (i fari) come interazione principale ma senza aggiungere conseguenze ludiche per ogni azione. Ecco, Pacific Drive segue questo principio solo in parte, tornando spesso e volentieri alla prima persona o a meccanismi di puro gioco per diversificare la propria offerta.

Per molti è sicuramente un pregio, per me invece è il suo peccato più grande, frutto ancora una volta di progetti dalle idee molto forti che si perdono in manovre commerciali pur di risultare appetibili o “divertenti” quanto basta. E, come qui, quando l’esecuzione non è neanche così perfetta allora forse sarebbe stato meglio ripensare il ruolo del giocatore.

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