Site icon N3rdcore

Barret Oliver, o della necessità della fuga da La Storia Infinita

Tu dici Stranger Things e io dico anni Ottanta.

Tu dici anni Ottanta e io dico Barret Oliver.

Perché vanno bene le citazioni, gli elenchi ai richiami alla cultura pop di quel decennio che in questa terza stagione targata Netflix sono particolarmente densi, ma è giusto contestualizzare meglio alcune figure, soprattutto se così affascinanti e misteriose come Barret Oliver.

Insomma, chi è costui?

Facciamo un passo indietro. Barret Oliver è stato un attore di punta del cinema statunitense di genere negli anni Ottanta. Il suo volto è indissolubilmente legato ad alcuni personaggi protagonisti di titoli che hanno forgiato quell’immaginario. Il cinema, si sa, è fatto di immagini, ma oltre alle immagini è fatto di icone, che si nutrono delle immagini stesse. Per questo motivo è più facile, per la settima arte, imprimere nell’immaginario figure iconiche, per il fatto stesso che sono impersonificate da volti, corpi, lineamenti che diventano mitografie, simboli, parti essenziali di un meccanismo di riconoscimento immediato. Fin qui ci siamo? Bene.

Siamo nel 1981, un bambino esordisce in veste di attore in un episodio de L’incredibile Hulk, la serie interpretata dal mitico Lou Ferrigno. Come ci è arrivato lì? Barret vive a Los Angeles con la sua famiglia. Ha un bel visino e un amico di famiglia lo propone per il provino di spot televisivi. Da lì al cinema il passo è breve: piccoli ruoli in Scuola di sesso (Jekyll and Hyde... Together Again, Jerry Belson, 1982), in C’è... un fantasma tra noi due (Kiss Me Goodbye, 1982), un paio di episodi in Supercar in cui rischia addirittura di farsi creare un personaggio fisso appositamente per lui. E via così, con una gavetta neanche troppo scontata, data la giovane età (Barret è nato nel 1973).

A un certo punto partecipa al provino per la parte di Bastian in La storia infinita, film tratto dal bellissimo romanzo di Michael Ende e diretto dall’allora lanciatissimo Wolfgang Petersen. Ma la risposta è no, troppo piccolo, troppo giovane, troppo immaturo. Passa un pochino e ancora l’attore protagonista non si è trovato. E così ci riprovano: Oliver sostiene una seconda audizione in cui stupisce tutti per maturità artistica nel breve lasso di tempo tra i due incontri. È fatta. Ed è la svolta.

Il Bastian di Barret Oliver è la chiave con cui interpretare l’intero film che, nel frattempo, è diventato un vero e proprio cult. Perché ok l’immaginario fantasy, ok quella dimensione di avventura sincera e neanche troppo furbesca, ok la visionarietà a tratti coraggiosa, la maledetta morte di Artax che ha sconvolto un’intera generazione che neanche Bambi: il fulcro della storia è la fragilità di un bambino che deve affrontare il mondo e la vita e crede di non avere gli strumenti per farlo. E quella fragilità, quella delicatezza emozionale è tutta sulle spalle di Barret Oliver, un bambino di nemmeno undici anni. Il Bastian di Barret è un nerd, è senza madre, è perseguitato dai bulli. Si rinchiude nel suo mondo fantastico, fatto di libri. Barret Oliver deve sostenere tutta la tragicità del film senza praticamente partecipare agli eventi principali. Dite quello che volete, La storia infinita non sarebbe stato altrettanto incisivo senza tutte le sfumature di delicatezza messe in scena con il suo corpo e le sue espressioni da Barret Oliver.

Ad ogni modo, La storia infinita gli apre una marea di strade. Assieme a pochi altri, Barret diventa (in maniera anche forzata, come sempre quando si tratta di marketing) il volto dei ragazzini pieni di speranza degli anni Ottanta. Interpreta David in Cocoon - l’energia dell’universo, diretto da Ron Howard. Un ruolo marginale questo, ma essenziale nell’economia del film. Nel 1985 interpreta l’androide Daryl in D.A.R.Y.L. di Simon Wincer: ancora una volta, al di là della qualità della pellicola, è il contributo di Oliver a lasciare meravigliati. Sembra un professionista, l’impegno e l’abnegazione che incanala nelle sue interpretazioni lasciano presagire di trovarci davanti a un enfant prodige. Non a caso, per il ruolo di Daryl, vince un Saturn Award per il miglior attore emergente.

Il tempo passa e Oliver cresce. L’industria cinematografica, talvolta (talvolta?), sa essere spietata e stritola i suoi giocattoli finché può. Se è vero, quindi, che Oliver non può più interpretare il bambino sognante che già conosciamo, è altrettanto vero che può dar sfoggio delle sue qualità. Infatti, nel 1987 interpreta Dickon Sowerby nel film The Secret Garden. Un ragazzo inglese interpretato da un ragazzo statunitense: significativo, no?

Nel 1988 torna nel sequel di Cocoon - il ritorno. Poi, nel 1989, interpreta il figlio un po’ malato della vedova Clare, protagonista di Scene di lotta di classe a Beverly Hills (Scenes from the Class Struggle in Beverly Hills).

Una svolta? Il desiderio di un nuovo percorso da intraprendere? Il film del mutamento? Forse. Non lo sapremo mai. E sapete perché? Perché dopo essere diventato volto icona del cinema degli anni Ottanta, Oliver Barret ha deciso di scomparire. Letteralmente.

Ve lo immaginate? Siete dentro il sistema hollywoodiano, potete scegliere di proseguire con una carriera straordinaria, magari reinventandosi. E invece no, scegliete di scomparire, cioè di annullare l’importanza centrale e cruciale dell’immagine cinematografica, quella che genera il culto, il mito, l’immaginario.

Siete al centro dell’inquadratura, tutti vi guardano e voi scegliete di scomparire. Cosa rimane?

Rimane un’inquadratura vuota.

E tante illazioni.

Che fine ha fatto Barret Oliver?

Ha aderito a Scientology, ne è stato risucchiato per uscirne in qualche modo cambiato, mezzo matto. No.

È entrato nel vortice della droga, è diventato un tossico che ha dovuto intraprendere il difficile percorso di riabilitazione. Niet.

È morto!

Ecco, questo è significativo e può aiutarci a comprendere una figura come Barret Oliver.

In un mondo votato all’apparenza, al culto, all’immagine, alimentato da strumenti voraci come il cinema stesso (e Hollywood in particolare), pensare che un uomo che possa avere tutto questo possa scegliere di ritirarsi, di smetterla, di fare altro, di uscirne fuori è insostenibile. Così insostenibile da dare adito alle più disparate teorie. E se queste teorie non bastano arriva quella più definitiva di tutte: Barret Oliver è morto. Perché non è accettabile che rifiuti la sovraesposizione, i soldi, il successo: quindi è morto.

Invece no. Barret Oliver ha, forse, compreso i meccanismi spietati che lui stesso ha oliato per bene e, con un atto di coraggio rarissimo, ha detto basta. Magari è morto il “personaggio” Barret Oliver, ma non l’uomo.

In tanti lo hanno cercato, ma non c’è stato verso di trovarlo. Almeno fino a quando si è scoperto, anni e anni dopo la sua sparizione (intorno al 2004), che si è specializzato in una tecnica fotografica nota come wet-plate photography. Insegna fotografia e ha scritto saggi a riguardo. Ha smesso di essere il ragazzino perfetto che tutti conosciamo ed è diventato un uomo, un po’ pelato e lunghi dread e una barba lunga e folta, quasi un santone. Ha abbandonato il cinema ma non l’immagine, curioso vero?

E così, quando Dustin in Stranger Things canta, in momento molto bello e ilare, la canzone di La storia infinita, voi ridete, io pure ma nel frattempo penso a Barret Oliver, un uomo che, laddove l’immagine è assoluta nelle dinamiche sociali, ha scelto di togliersi da davanti alla macchina da presa per fuggire e vivere ciò che accade dietro il mirino, in una dimensione intima e, forse, anche più sincera.

Questo articolo fa parte della Core Story dedicata a Stranger Things

Exit mobile version