La vendetta ti fa villain
Nel cinema horror la vittima e il villain sono sempre stati due poli nettamente contrapposti, ma cosa succede quando si mette in mezzo la vendetta?
L'approccio classico alla costruzione di un film horror vuole solitamente un solo grande villain: il serial killer, il fantasma, il mostro, il virus, il Diavolo. Il Grande Cattivo può avere complici, antagonisti o vittime, tutti al loro posto, per non creare confusione. Fortunatamente, l'horror non è famoso per il suo rispetto delle regole, quindi ha iniziato presto a mischiare le carte in tavola, sfumando sornione i confini tra ruoli, specialmente quello tra aggressore e aggredito, divertendosi con particolare gusto a giocare con gli stereotipi di genere, narrativo e sessuale.
Certo, prima di iniziare a far casino, l'horror ha viaggiato a lungo comodo sui binari della codificazione più rigida. Prendiamo come esempio lo slasher, il sottogenere con l'assassino psicotico che uccide frotte di giovani, spesso durante l'anniversario di un fatto di sangue, spesso in contensti in cui ci sono alcol, sesso e divertimento, tutti elementi trigger che innescano una sequenza di omicidi a catena.
Oltre ad averci fornito il materiale per i sequel dei prossimi mille anni, lo slasher ha cristallizzato la figura della final girl, la ragazza che sopravvive fino alla fine, il feticcio del killer che riesce comunque a fuggire. La final girl più celebre della Storia è Laurie Strode (Jamie Lee Curtis) in Halloween di John Carpenter e ne riassume alla perfezione i tratti salienti e tipici: responsabile, astemia, vergine, circondata da amici che invece si danno alla pazza gioia e vengono macellati in sequenza senza troppo approfondimento.
Il fattore verginità della final girl è uno degli elementi più problematici che si rinfacciano all'horror. La demonizzazione del sesso, soprattutto nei personaggi femminili, ha sicuramente l'aspetto di un pippone moraleggiante, ma la ramanzina si applica con facilità anche ai maschi, perché in caso di accoppiamento muoiono anche loro e muoiono altrettanto male. È proprio il sesso di per sè il problema, come metafora bigotta ok, ma anche come effettivo elemento di svantaggio nel caso di serial killer nei paraggi.
Il sesso richiede una quantità di attenzione e coinvolgimento che mal si sposa con la necessità di scappare velocemente e funge quindi da succulento e facile escamotage narrativo per dare il via a una scena di mattanza. Simple as that.
Il tempo e un simpatico signore di nome Wes Craven metteranno senza problemi una pietra sopra alla questione verginità, già nel 1984 con Nightmare, dove il sesso è pressoché irrilevante, e nel 1990 con Scream, a cui frega poco o niente della vita sessuale di Sidney Prescott, che diventerà per altro il fulcro dell'intero franchise, contrariamente ai competitors che legano le saghe alla figura del villain ricorrente, tipo Michael Myers, Jason Voorhees e Freddy Krueger. Resta il fatto che la vittima preferita di ogni squilibrato (ma anche l'unico personaggio che gli sopravvive) è quasi immancabilmente una donna. Sul perché di questa casistica magari torniamo un'altra volta.
La caratterizzazione della vittima subisce significative varianti a seconda del sottogenere horror di turno. Parallelamente allo slasher, negli anni '70 fiorisce e prospera il filone del rape&revenge, basato su una concatenazione piuttosto definita di eventi: la vittima incappa in uno o più cattivi che la violentano e la abbandonano credendola morta, la vittima sopravvive e infine si vendica degli stupratori con indicibili sevizie.
Anche in questo caso c'è di mezzo il sesso, non come appendice metaforica ma come arma del delitto. Le criticità legate alla rappresentazione di un evento così traumatico sono indubbiamente innumerevoli, non perché sia taboo (niente è taboo nell'horror) ma perché molto spesso legato a una scrittura e a uno sguardo maschile.
Pensiamo alla scena dello stupro in I spit on your grave (Non violentate Jennifer, in italiano, il vero orrore): lunghissima, crudele, dettagliata, un'angoscia da guardare. Andiamo invece alle pellicole affini dirette o scritte e dirette da donne: Revenge di Coralie Fargeat, violenza quasi sullo sfondo, presente ma senza insistenza, oppure Jennifer's Body scritto da Diablo Cody con Karyn Kusama alla regia, rape&revenge atipico perché in realtà non c'è stupro (vagamente suggerito dall'atto dell'accoltellamento) e la vittima non sopravvive, cosa che non le impedisce di andare in giro a mangiarsi i giovanotti più aitanti della scuola.
Bene, le vittime ok, ma quando iniziamo a parlare dei cattivi? Vi ho fregato, ne stavamo già parlando!
(far partire risata malefica di sottofondo)
Il tardo slasher, il meta-horror e ancor più il rape&revenge attuano infatti un divertente ribaltamento di prospettiva che in pratica trasforma la preda in cacciatore attraverso la carica esplosiva della vendetta. Il coefficente di catarsi nel momento del twist è altissimo, si nutre della sofferenza accumulata, dell'umiliazione e della paura per ridefinire le dinamiche di potere tra personaggi, ma così facendo ci porta anche a fare il tifo per quello che è a tutti gli effetti un nuovo villain.
Conoscendo i trascorsi, è chiaro che facciamo il tifo per la ragazza con l'ascia/fucile/bazooka che dà la caccia ai propri assalitori. È altrettanto chiaro, però, che stiamo festeggiando all'idea di un bagno di sangue colossale.
Prima o dopo, il dilemma morale sulla legittimità della vendetta ci assale e si finisce a riflettere su quanto la tortura o l'omicidio possano risolvere i problemi a lungo termine di una vittima momentaneamente rinvigorita dalla pura forza della disperazione.
Questo articolo fa parte delle Core Story di N3rdcore di Settembre