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La fantasia al potere nel bel mezzo del franchismo

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Allo scoccare della mezzanotte dell’Anno del Signore 1964, qualcuno deve aver deciso che il genio e la creatività avrebbero dovuti concentrarsi quasi del tutto in un preciso luogo del nostro pianeta. E si sarebbero dovuti espremire attraverso due differenti forme. Lo sport e il cinema. Universi quasi paralleli, lontani dallo sfiorarsi o dall’incontrarsi. Certo, in ... La fantasia al potere nel bel mezzo del franchismo

Allo scoccare della mezzanotte dell’Anno del Signore 1964, qualcuno deve aver deciso che il genio e la creatività avrebbero dovuti concentrarsi quasi del tutto in un preciso luogo del nostro pianeta. E si sarebbero dovuti espremire attraverso due differenti forme. Lo sport e il cinema.

Universi quasi paralleli, lontani dallo sfiorarsi o dall’incontrarsi. Certo, in Italia a partire dagli anni ’30 è abbastanza in voga il filone dei film con i calciatori semi protagonisti, ma il genere si è ormai esaurito. E poi non è il Belpaese il luogo dove, tra l’aprile e il giugno di quell’anno, la fantasia, l’estro e la visionarietà esplodono tutto d’un fiato.

Tutto accade in Spagna. Il posto giusto per un giovane regista italiano, nato in una famiglia che vive di pane e cinema, il quale è stanco dei soliti kolossal e sta progettando qualcosa di nuovo. Di innovativo non nel genere, ma nello stile.

Qualcosa da fare invidia alle grandi major hollywodiane.

Questo cineasta risponde al nome di Sergio Leone. L’altro protagonista ha 29 anni, è gallego, gioca divinamente a calcio ed è al top della sua carriera. Ha un palmares da fare impallidire gli avversari, coronato da un Pallone d’Oro. É uomo simbolo nell’Inter pigliatutto di Helenio Herrera. E con il 10 sulle spalle vuole guidare la sua selezione al titolo di Campione d’Europa: si chiama Luis Suarez.

Luisito è il terzo figlio di un macellaio di Monte Alto, un barrio a picco sul mare di La Coruna. Come i suoi fratelli, ha una sola passione: il calcio.

É la classica storia novecentesca. Ambiente umile, quello della Spagna franchista post guerra civile, il pallone come unico sfogo, le sfide con gli amici per calle Hercules, casa di Luis.

Il ragazzino ha gamba e corsa e, soprattutto, ha una visione non comune per la sua età. Più che segnare o dribblare mezza squadra, preferisce mandare in porta i compagni. C’è un problema: difetta un po’ nel fisico. Ci pensa il papà. Niente palestra, bastano le bistecche della macelleria a renderlo forte come i suoi coetanei. Suarez poco a poco costruisce il suo fisico e, dopo il classico passaggio nella squadretta di quartiere, è già pronto per il team della sua città, il Deportivo. A 19 anni disputa 17 partite e segna 3 gol.

Per un giocatore “normale” ci vorrebbe una seconda stagione, quella della conferma, prima del grande salto. Ma Sandro Puppo, allenatore italiano giramondo del Barcelona non se lo vuole far scappare. Nell’estate 1954 Suarez passa ai blaugrana, per iniziare la scalata al mito.

Sergio Leone è il figlio di un’attrice e di un regista dell’epoca pioneristica del cinema tricolore. Romano di Trastevere, cresce in un ambiente dove puoi scegliere due strade: o ti innamori di cellulosa, cineprese e set sin da bambino o li odi a tal punto da cancellarli dalla tua mente.

Il giovane Sergio opta per la prima, senza nemmeno pensarci troppo.

Per lui esiste una sola passione: il cinema americano.

Gli attori di Hollywood come miti inarrivabili, i primi film in sonoro, la voglia matta di sedersi in platea e gustarsi la settima arte. Come periodo storico è fortunato e sfortunato allo stesso tempo. Fortunato, perchè il cinema sta diventando una pietra miliare del tempo libero. Sfortunato, perchè il regime di Mussolini è poco propenso, per usare un eufemismo, al celebrare la cultura straniera e dunque fa largo uso di censura, a vantaggio dell’industria nazionale, ancora molto arretrata.

Quando finalmente la guerra finisce, però, si apre una nuova epoca, per l’Italia e il suo cinema. Quella di De Sica e Rossellini e Leone non vede l’ora di essere di casa a Cinecittà.

Inizia come comparsa in un capolavoro del neorealismo come “Ladri di Biciclette”, poi passa a fare l’aiuto regista per il padre. Siamo negli anni cinquanta e c’è un genere a Roma che va per la maggiore: porta in riva al Tevere le star americane e riempie le sale dei cinematografi. Il “peplum”.

La carriera del ragazzo di Monte Alto cambia nel 1958. Sulla panchina azulgrana siede un argentino, figlio di un anarchico andaluso, che ha giocato una vita in Francia ed ha già vinto due Liga con l’Atletico Madrid. É il mister che darà una accelerata, quella decisiva, verso il firmamento calcistico di Suarez: Helenio Herrera.

alla sua prima stagione, con una squadra che presenta un quartetto come Kubala, Kocsis, Czibor e Suarez vince il campionato e la Coppa del Generalissimo, variante in salsa franchista della coppa nazionale. É vero che il Barça, solo con quei quattro tra centrocampo e attacco è una potenza, ma è forse meglio ricordare chi erano gli sfidanti. Anzi, lo sfidante. Il Grande Real.

Di Stefano, Kopa, Rial, Gento e Puskas. Cinque Coppe Campioni in cinque anni e tanti campionati. Serve altro, per dare l’idea dell’impresa dei catalani? E intanto, poco a poco, il Mago mette da parte Kubala per consegnare le chiavi della squadra a Luisito. Il gallego ha tutto: velocità di pensiero, precisione, altruismo.

Quel giocatore – capolavoro diventa il perno del Barça, con cui vince un’altra Liga. E si prende un soprannome che dice molto sul suo modo di giocare a calcio: “l’Architetto”.

Più o meno negli stessi anni, un trentenne Leone sostituisce Mario Bonnard alla direzione de “Gli ultimi giorni di Pompei”. Quando la pellicola esce, però, il suo nome non figura e allora i produttori decidono di affidargli le redini di un altro peplum: “Il colosso di Rodi”, storia d’amore ambientata al tempo degli eroi, sullo sfondo dell’isola greca.

Il film non va male, ma Sergio intuisce che non è quella la sua strada.

Ci vorrebbe qualcos’altro e allora, gli viene in mente un’idea. Non bisogna creare un nuovo genere, bisogna creare un “sotto” genere. Qualcosa che abbia caratteristiche ben marcate, che si allontani dai clichè dello stile classico e sia riconoscibile da tutti.

Gli americani ci hanno preso la Roma antica? E noi andiamo a conquistare il selvaggio West!

Lí per lí sembra una pazzia. Come si può rimescolare, modellare e trasformare un genere che negli Stati Uniti spopola, che non si esaurisce mai. É da poco uscito “Un dollaro d’onore”, probabilmente l’apice della cinematografia indiani & cowboy, e un ragazzino di viale Glorioso vuol mettersi a rifare quei film a modo suo? Ebbene sí.

A dirla tutta, il suo primo prodotto, che dà ufficialmente il via allo “spaghetti western”, si basa in gran parte su “La sfida del samurai” di Akira Kurosawa. Forse un po’ troppo, visto che il grande cineasta giapponese lo cita in giudizio per plagio, vincendo la causa. Ma Leone ha già in mente come plasmarlo a sua immagine.

Innanzitutto, nonostante l’amore per il cinema a stelle e strisce, cancella ogni aspetto dei western d’Oltreoceano.

Qui da noi non ci sono eroi senza macchia e senza paura e nemmeno cattivissimi (e caricaturali) pellerossa assetati di sangue. Siamo brutti, sporchi e cattivi.

La figura del buono finisce nel cestino della spazzatura. I protagonisti non sono mossi da nobili ideali, ma da vendetta, denaro, rabbia. E allora il sangue sporcherà i ponchos e gli stivali dei nostri, altro che i cavalieri perfettini e senza uno schizzo di fango alla John Wayne.

Barba incolta, modi rozzi, sigaro in bocca e saliva per terra. Siamo nel West, dove ti svegli e non sai mai se arriverai a vedere il tramonto sul rio Bravo. Si comincia. Prima gli interni a Cinecittà, poi si vola a Colmenar Viejo. Vede la Meseta e pensa al confine tra Texas e Messico. Bounty killer, bordelli, saloon e deserto. Pietre che sembrano cimiteri, villaggi bianchi che nascondono vino, oro e pistole.

La Spagna come il luogo dove dar vita alla sua creatività. I produttori li suggeriscono come titolo “Il magnifico straniero”, ma non suona bene. In questa storia di magnifico c’è poco. Giusto il denaro, che è l’unica cosa che conta per i duellanti. Meglio “Per un pugno di dollari”. Ciak, si gira! Ma con che attori?

Luis Suarez passa all’Inter nell’estate ’61 dove ritrova il Mago Herrera. L’argentino sta plasmando la Grande Inter e vuole un campione vero. E chi meglio del genio spagnolo? Vincono lo scudetto nel 1963 e da lí in avanti è storia nota.

Due Coppe dei Campioni, due Intercontinentali, altri due campionati e una filastrocca che sanno tutti e che comincia con “Sarti Burgnich Facchetti..” e che ha in Luis il suo perno.

Altro che archittetto, è a metà tra il pittore e, appunto, il regista.

Estro e cervello in due piedi, manda in porta con rara facilità Mazzola e Jair. In nazionale si gioca le qualificazioni a Euro ’64. Fanno fuori Romania, Irlanda del Nord ed Eire e a questo punto entrano nelle top 4. L’UEFA assegna l’organizzazione di semifinali e finali proprio alla Spagna. Dal 17 al 21 giugno gli occhi del calcio del Vecchio Continente saranno tutti tra Madrid e Barcellona.

Il ct Villalonga si trova tra le mani la generazione post Real, quella dei Suarez, Del Sol, Pereda. Le altre tre sono la sorpresa Danimarca, i campioni uscenti sovietici e l’Ungheria di Florian Albert, che all’epoca andava praticamente sempre a medaglia alle Olimpiadi. E sono proprio quest’ultimi gli avversari della semifinale.

Si gioca al “Bernabeu” perchè Franco, un po’ come Mussolini trent’anni prima, sa che giocare nella capitale, simbolo del potere, aiuta non poco la squadra. Alla quale, però, servono i tempi supplementari per battere i danubiani. 2-1 firmato Pereda e Amancio, pari di Bene in mezzo. A Barcellona, intanto, l’Unione Sovietica ha fatto molta meno fatica contro i danesi (3-0) e viaggia verso la Castiglia con i favori del pronostico. A questo la domanda è una sola: la partita si giocherà?

La sceneggiatura di “Per un pugno di dollari” è scritta a sei mani da Leone e altri due registi simbolo del cinema italiano: Duccio Tessari e Fernando Di Leo. Prende spunto da elementi del cinema tedesco, come la saga di Winnetou e come personaggi si ispira alle maschere di Carlo Goldoni.

E gli attori? Il nostro è giovane, ma ambizioso. Charles Bronson e Henry Fonda. Quando i due vengono contattati, sparano una cifra talmente alta che Leone si tira subito indietro. E allora la sua attenzione si focalizza su un ragazzo di San Francisco, che in patria ha girato qualche serie tv. Leone lo manda a chiamare e quando si presenta sul set, il regista non perde subito tempo. “Clint, mettiti questo poncho”.

Clint, che sarebbe Clint Eastwood, annuisce. Insieme al poncho, si infilta in testa un cappello a larghe tese e un bel sigaro in bocca. “Il protagonista” dice Leone indicando proprio il sigaro “non deve mai mancare”.

In due mosse è nato Joe il biondo, cowboy solitario che piomba in una cittadina in mano a due bande rivali con un solo obiettivo: fare i suoi interessi, tra doppio gioco, pallottole e qualche raro gesto d’umanità. Per la parte dell’antagonista, invece, viene scelto Gian Maria Volontè, all’epoca attore di grande fama, soprattutto per le pellicole impegnate.

Il film è un successo trionfale.

Leone ha ufficiaLmente creato un genere, perché definirlo sottogenere è ormai riduttivo. La Spagna come teatro del “suo” west, i duelli tra Joe e Ramon, le musiche che tutti, ma proprio tutti, riconoscono dopo un attimo di Ennio Morricone, suo vecchio compagno di scuola. I protagonisti sono cavalieri erranti, che si aggirano tra Texas, New Mexico e Arizona senza meta.

Il denaro per sopravvivere, la pistola come unica compagnia, sigaro e un po’ di fagioli annacquati dalla tequila in qualche osteria. Non ci sono amici, non c’è spazio per l’amore. Mai fidarsi di nessuno se non del colpo in canna.

E poi, quei paesaggi unici al mondo con il sottofondo di note uniche al mondo.

La Meseta al principio e, in seguito, il deserto di Tabernas, nascosto dietro il mare andaluso di Almeria. Il regista romano ha spalancato, con la violenza di un calcio nelle risse dei saloon, le porte a un’era di cui sarà il capostipite e il modello.

Il 21 giugno 1964 la finale dei secondi Europei di calcio si giocherà. Di dubbi non ve ne sono.

Perché, ce ne sono stati? Stando a qualche voce pare di sí e anche rischi concreti di un 3-0 a tavolino per i sovietici. Francisco Franco con i comunisti di Mosca non ha niente da spartire. Considera l’URSS una dittatura (da che pulpito!) e dunque i suoi ragazzi in campo non ci vanno.

E per chi pensa che il Generalissimo scherzi si vada a rivedere cosa successe nelle qualificazioni a Euro ’60. Ai quarti di finale ci sarebbe proprio Spagna – Unione Sovietica, che finisce però con un doppio 0-3 deciso dall’UEFA. Gli spagnoli si rifiutano anche solo di stringere la mano agli avversari e l’esito è scontato. Stavolta però si gioca in casa e allora il Caudillo torna sui suoi passi. Anche perche le Furie Rosse giocano davvero di rabbia. Corrono come matti, sospinti dagli 80mila accorsi a Chamartin.

Sei minuti appena e un colpo di tacco libera Suarez sulla destra. Cross di prima che scavalca la difesa e Pereda in qualche modo se la ritrova sul piede. Troppo facile anche se davanti hai un gigante come Jascin: 1-0. Passano 180 secondi e Khusainov pareggia, sfruttando una indecisione di Iribar.

I campioni in carica ci provano, ma i padroni di casa ne hanno di più.

A sei dal 90esimo, il centravanti Marcelino indirizza, quasi senza saltare, una palla arrivata da un cross dalla destra. Jascin stavolta delude le aspettative, prendendo gol sul suo palo senza nemmeno buttarsi. 2-1 e stavolta la rete è quella giusta. Quella perfetta per scrivere la parola fine sulla partita e il nome Spagna, la Spagna di Luis Suarez, sulla coppa Henri Delaunay.

Sergio Leone dirigerà sette film in tutto. Oltre al primo peplum, firmerà la “Trilogia del Dollaro”, tutta in salsa western, e la “Trilogia del Tempo”, personale rivisitazione della storia americana tra ‘800 e ‘900. Produrrà svariate pellicole e, da vero talent scout, scoprirà uno dei migliori interpreti della commedia italiana: Carlo Verdone. Se ne andrà a 60 anni, troppo giovane per i tanti progetti che aveva in mente. Su tutti, un kolossal ambientato durante l’assedio di Leningrado.

Un arresto cardiaco, al tramonto dell’estate ’89, mette fine alla sua parabola terrena. Nel 2001, un altro grande cineasta come Jean Jacques Annaud troverà, proprio nell’ultimo soggetto di Leone, il punto di partenza per dirigere il suo film più famoso: “Il nemico alle porte”.

La carriera di Luis Suarez, dopo l’Inter, proseguirà per qualche anno a Genova, sponda blucerchiata. Appesi gli scarpini al chiodo diverrà allenatore. Meglio in campo che in panchina, anche se, nell’ ‘86 porterà l’Under 21 spagnola a vincere il campionato europeo di categoria. E all’Inter, dopo qualche intermezzo da mister, lascerà il suo ultimo regalo: Javier Zanetti. É lui a segnalarlo e portarlo alla corte di Moratti nel 1995. Trentuno estati dopo quella esaltante del 1964. Quella dove la Spagna divenne il centro del mondo per la creatività di due grandi artistiti del Novecento.

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