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La Distopia ai tempi di Hideo Kojima.

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Hideo Kojima attraverso le sue opere ha proposto un nuovo modo di concepire la distopia. Metal Gear Solid e Death stranding ne sono due fulgidi esempi.

Il medium videoludico è riuscito, alla stregua di altri media, a tradurre le molteplici visualizzazioni che da oltre un secolo la distopia propone. Interpretare una visione estrema e/o apocalittica della realtà risulta cosa particolarmente diffusa nel videogioco, proponendo però concept e figure archetipe piuttosto similari fra loro. Al netto di ciò è anche vero che per quanto due opere si somiglino, i tratti comunitari spesso vengono successivamente affrontati in maniera differente, offrendo così al videogiocatore uno spettro di situazioni diverse nonostante la tematica comune.

Tuttavia nel corso degli anni, alcuni celebri game director hanno cominciato a proporre topoi sempre meno comuni, spingendosi persino al di là della fantascienza ordinaria; uno di questi è senz’altro Hideo Kojima.

Come accennavo nello scorso articolo, Hideo Kojima non ha bisogno di presentazioni. A lui dobbiamo icone videoludiche come Metal Gear Solid e molto più recentemente Death Stranding, probabilmente il titolo di cui più si è parlato negli ultimi anni.

Il celebre autore, sin dalle scritture dei primi capitoli di Metal Gear Solid, ha sempre mostrato un grande interesse per forme di intreccio piuttosto complesse, ricorrendo a espedienti narrativi dalle forti sfumature contenutistiche. Nel franchise di Metal Gear Solid c’è per esempio un grande ausilio della fantapolitica, questa corroborata da forti richiami techno thriller; lo stesso sostantivo “espionage” (spionaggio) ne conferma la natura. Eppure per quale ragione Metal Gear Solid presenta anche contaminazioni distopiche?

Spesso riteniamo la distopia quella forma di linguaggio che ci permette di rappresentare una catastrofe; giusto, ma sarebbe più corretto dire che questa ci permette di rappresentare ANCHE una catastrofe, peraltro non sempre apocalittica. Persino una violenta deriva sociale rientra nel coro distopico. Allora dov’è in Metal Gear Solid? Innanzitutto la natura stessa dei sistemi d’arma Metal Gear funge da elemento collante: questi nascono per scopi ben precisi, e dispongono il più delle volte di capacità nucleare. Quindi, il timore di un’escalation nucleare rafforza quei concetti apparsi per la prima volta su diverse riviste pulp, e che mostravano proprio gli effetti di una guerra atomica su vasta scala. Andando più in profondità, trovo molte correlazioni con il progetto Les Enfants Terribles, in cui, analogamente ad alcune congetture proposte da Aldous Huxley in A Brave New World, l’ingegneria genetica permette di creare esseri umani con fare quasi industriale. Seppur con scopi completamente diversi, questo processo viene osservato in un’ottica tutt’altro che positiva, dovendo asservire a scopi decisamente poco nobili.

In molte opere di fantapolitica, la distopia è spesso sottintesa, in quanto osserviamo popoli e società in perenne conflitto, in cui una lunga serie di aggravanti contribuiscono a ledere ogni singola forma di democrazia, dignità e umanità. In Metal Gears Solid questo è sottolineato più volte. Prendiamo in esame MGS 4: Guns of the Patriots. Qui, nella sola apertura, ci viene mostrato un conflitto in un non meglio specificato stato mediorientale. L’immediata contrapposizione fra coloro che resistono, e una compagnia militare privata dotata proprio di quei sistemi Metal Gear, dovrebbe indurre il videogiocatore a riflettere su più punti di vista. Innanzitutto c’è la completa impotenza di fronte allo strapotere militare di quelle macchine (potenziale allegoria), inoltre è mostrata un’ipotetica evoluzione del concetto stesso di risoluzione militare. Tutti questi elementi rientrano in una sfera più ampia di generi; una sfera da cui non è esente la distopia. Daltronde furono proprio le due guerre mondiali – oltre alla nascita e all'affermazione dei totalitarismi – a dare i natali alla distopia.

Veniamo alla sua opera più recente, Death Stranding. Qui, al contrario di Metal Gear Solid, la distopia non viene celata, ma costituisce il palinsesto sulla quale si erge l’intera esperienza di gioco. Osserviamo infatti un vero e proprio evento apocalittico, capace di sconvolgere l’intero pianeta in ogni suo aspetto.

Qui Kojima gioca su numerosi aspetti del genere distopico, mostrando sia gli effetti che il cataclisma ha causato sul vecchio mondo, sia gli sforzi per ricostruirlo. L’anello di giunzione fra questi due estremi è quanto di più bello ho avuto modo di vedere negli ultimi dieci anni. Troppe cose sono state dette sulla sua trama, spesso fuorviando completamente la sottile raffinatezza che l’autore decide raccontare. Perché sì, la distopia presente in Death Stranding è profondamente umana; capace di scavare nell’interiorità dei suoi personaggi con un tocco quasi Innespace.

La costruzione dell’evento, ossia l’apocalisse che ha mutato il volto della terra, buca prepotentemente i dogmi classici del genere: nessun olocausto nucleare, nessun asteroide, nessuna pandemia, insomma, niente di tutto ciò. La repentina comparsa di enormi voragini inaugura il countdown della vita sulla terra. Una serie di rette narrative che convergono tutte sul concetto di estinzione, qui mai ridotto a semplice constatazione. L’estinzione in Death Stranding è anche profondamente simbolica, definendo sia l’innaturale fenomeno catastrofico, ma anche la disgregazione sociale che ha fatto seguito al cataclisma. Dobbiamo considerare l’inevitabile circostanza che ha afflitto ciò che resta dell’umanità, ossia l’isolamento. La diffidenza pregressa che ogni individuo ha maturato nel corso degli anni. Sam dovrà ricostruire soprattutto questo, il legame che definisce, quasi geneticamente, gli esseri umani. Questa è l’apocalisse peggiore che possa esistere: l’assenza di umanità. Una condizione quasi patologica, che se non invertita può portare alla follia, come nel caso dei MULI, individui ossessionati dai carichi che i corrieri trasportano. Sorte persino peggiore è osservabile nei Demens, capaci di esternare reazioni di gran lunga più violente.

Al di là di questo, il gioco è cosparso di numerosi elementi che contribuiscono ad arricchire lo scenario distopico. La stessa Cronopioggia (o Timefall) indica uno degli elementi di costante pericolo presenti nel gioco. Una pioggia anomala capace di distorcere il tempo, accelerando il decadimento biologico (e non) della superficie che bagna. Una progeria coatta. Questo fenomeno si inserisce in quella cerchia di situazioni all’limite capaci di accentuare l’istinto di autoconservazione; aspetto preponderante in numerose opere distopiche. Discorso similare per quanto riguarda le ormai celebri C.A. o creature arenate, le entità extra-dimensionali capaci di generare voragini i cui diametri posso avere le dimensioni di una nazione.

La natura stessa delle C.A. trascende la grammatica tipica della distopia.

Death Stranding non finisce mai di arricchire il genere, percorrendo strade tanto tristi quanto meravigliose, come la contemplazione di un paesaggio nuovamente in mano alla natura, e che mostra attraverso essa, quella che un tempo era l’opera dell’uomo.

 

 

 

 

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