Ricordo ancora il rumore plasticoso della VHS, mentre la spingevo dentro il videoregistratore. L’attesa quasi infinita che si riavvolgesse la pellicola per poi guardare per l’ennesima volta la mia favola preferita su schermo. I brividi di paura mista all’eccitazione quando sulla TV spuntava il castello e il narratore iniziava a raccontare quella storia. Io non ero una principessa, ma ero “stramba” come Belle; non vivevo nella Francia di un periodo non ben definito e men che meno credevo fosse possibile innamorarsi di una Bestia, tuttavia ad ogni rewind qualcosa parlava alla mia anima. Ogni canzone, ogni battuta, acquistava di senso man mano che questa favola continuava ad accompagnarmi nel corso degli anni.
Eppure, quanto c’è di più lontano di una storia che racconta di maledizioni, castelli e vita contadina? Perché nessuno scrive favole basandosi sulla nostra realtà? È una di quelle domande che ogni tanto mi torna in mente. Ciascun racconto stimola empatia verso cose che se ci dovessimo basare sui libri di storia e sulla realtà dei fatti sembrerebbero molto peggio. Siamo sinceri, di certo un principe non avrebbe mai sposato un’appartenente ad una classe inferiore.
Allo stesso modo l’opinione popolare non ci è andata leggera con internet ai tempi della sua esplosione e la cronaca non parla della realtà virtuale (e dei videogiochi) come una svolta positiva dell’entertainment. Eppure Ready Player One prende questi due ingredienti, ossia ciò che il mondo incolpa come male assoluto del secolo, e li trasforma in veicoli potentissimi d’emozione, confermando ancora una volta che è cosa fai dello strumento a renderlo speciale.
Nostalgia? No, vita pulsante
Leggerete, o avrete letto già, mille recensioni in cui si dice che la parola d’ordine di questo film sia “nostalgia”. Ma se guardiamo al vero significato – quel sentimento appiccicato ad una cosa che rende il ricordo agrodolce e malinconico – ci rendiamo conto che Ready Player One tratta del presente pur essendo ambientato nel futuro. Non parla della generazione che ha vissuto l’Atari 2600, ma di quella che guarda a quel passato con stupore e fascino. E l’emozione provata da un ragazzo del 2045 davanti ad un Commodore 64 è la stessa che potrebbe provare un uomo del 1963 davanti ad un visore VR. Una sensazione, quella dello stupore, che diventa il fil rouge tra generazioni lontanissime, tra passato e futuro, formando un presente lunghissimo.
Buttiamola via, ‘sta nostalgia, ché in questa pellicola c’è vita pulsante: le tartarughe ninja sono ancora cool e c’è ancora chi non ha visto Shining. C’è una “favola geek”, com’è giustamente stata definita, che racconta di un mondo tanto fantastico quanto reale, OASIS è l’internet di oggi (e allo stesso tempo il cyberspazio di Gibson). Qui la distopia si trasforma per un po’ in utopia: se nel nostro presente la rete rappresenta una realtà parallela in cui facciamo finta di essere chi non siamo, trattandola come fosse il fast food delle informazioni per vincere dibattiti offline e vomitando senza filtri ogni pensiero, foto o dati vari senza pensarci due volte, in OASIS è tutto diverso.
La popolazione si comporta nel modo in cui vorrebbe essere e la realtà virtuale diventa il mezzo di massima espressione di sé. Un visore che non rende ciechi ma che, al contrario, espande la visione, salvando da una realtà sterile. Il VR che rappresenta una scuola di umanità per un popolo ormai stanco di trovare soluzioni per migliorare il mondo. OASIS non è la fuga dalla realtà, ma l’espressione di un’intima fragilità umana; quella del creatore, troppo impaurito per vivere offline, quella di ogni utente presente sui server, libero di esprimere il proprio sé in ogni modo possibile e spogliandosi dei pesantissimi retropensieri e pregiudizi nei confronti dell’altro. Liberi di ritrovare la fiducia perduta, in sé stessi e nell’umanità.
Mentre Ready Player One racconta con le immagini una storia avventurosa e leggera, dietro lo schermo si fanno strada morale e “missioni secondarie” raggiungibili solo dallo spettatore; se “vivere la vita reale” sembra essere il fine ultimo nel gioco dell’esistenza umana, durante il viaggio apprendiamo che ciò che definiamo vero semplicemente lo è, indipendentemente dalla sua estensione su di uno schermo.
Tutto questo è internet, siamo noi
La famiglia di Parzival è composta da Aech ed Art3mis. Ciò che li lega non è una presenza fisica senza nessun interesse come nel caso dei suoi legami di sangue, ma una complicità che supera la necessità di ritrovarsi nella stessa stanza per condividere davvero qualcosa e che si rinnova ad ogni login, cercandosi reciprocamente. Se è vero che i rapporti fanno “level up” se coinvolgono più piani e non solo quello virtuale, è anche vero che esistono connessioni nel mondo offline che non avanzeranno mai di livello. Il film ci mostra un gruppo di amici che condivide un gioco, ma cos’è gioco se non tempo? E cos’è il tempo se non vita che scorre? Mentre sullo schermo viene celebrata la cultura nerd diventata folclore, ufficialmente definita come bagaglio storico di un paio di generazioni, così come lo son stati I Promessi Sposi al tempo della mia bisnonna, il presente si siede accanto a noi in sala.
I clan, i vari mondi dell’OASIS, Parzival che raggiunge la notorietà sul server e diventa l’idolo delle folle così come lo sono per noi gli youtuber, una lotta per un obiettivo comune; tutto questo è internet, siamo noi.
Spielberg non celebra il passato e non ci mostra il futuro, ma crea una favola moderna che racconta il nostro oggi e lo tramanderà alle generazioni future. Mi piace pensare che un giorno, nel 2154, una ragazzina chiederà alle sue lenti a contatto smart di riprodurre Ready Player One; la immagino già con l’espressione stupita e affascinata, mentre ad ogni repeat si farà strada ciò che va oltre qualsiasi easter egg: l’emozione.