Il percorso verso l'infinito di Leiji Matsumoto come metafora della vita
Più di Capitan Harlock, è stato Galaxy Express 999 ad accompagnarmi per mano durante la mia infanzia e a forgiare la mia persona. Un'opera densa, in grado di riflettere, più di tante altre, quella che è la reale natura nell'essere umano: quell'imperfezione che ci rende unici, e che, al contempo, ci permette di sopravvivere alla vita stessa. Ecco un omaggio a Leiji Matsumoto, che ha iniziato il suo viaggio sul treno spaziale verso l'infinito.
Avrò avuto cinque anni quella prima volta in cui ho incontrato Leiji Matsumoto e sono salita a bordo del Galaxy Express 999.
In un’epoca, gli anni Ottanta, in cui l’animazione giapponese era un escamotage per rimpolpare i palinsesti quasi assenti delle tv locali, avevo un paio di appuntamenti fissi che scandivano la mia giornata: Ken Il Guerriero (come arrivò intitolato qui in Italia la prima volta e che continuo a chiamare così, sorry) e Galaxy Express 999. Se per il primo avevo il permesso di guardarlo solo ed esclusivamente in compagnia di mio padre (in fin dei conti, Kenshiro non era esattamente un’educanda), per il «cartone animato» (!) di Leiji Matsumoto non avevo alcun veto.
Ho questa immagine impressa nella mia memoria: avevo imparato da poco a leggere l’ora sul Flick/Flack (certo che ne hanno vendute di cazzate negli anni Ottanta, non è vero?) e sapevo che quando la lancetta piccola finiva su quel numero, potevo correre davanti alla tv in camera di mamma e papà e posizionarmi ai piedi del lettone, a gambe incrociate. Perché, a differenza dei cartoni che vedevo su Bim Bum Bam che mi gustavo in soggiorno con in sottofondo mio padre impegnato a lavorare, mi piaceva vedere Galaxy Express 999 in totale solitudine.
Io e lo schermo.
Io e Masai/Tetsuro.
Io e Maisha/Maetel.
Un po’ perché ogni tanto c’erano delle scene in cui mi emozionavo e piangevo, e mi seccava mostrarmi fragile davanti ai miei genitori mentre guardavo una cosa finta. E un po’ perché Galaxy Express 999 mi inquietava: le sue atmosfere cupe mi facevano quasi paura; eppure, era proprio quella sensazione, un mix tra piacere e disagio, a portarmi tutte le volte a cercare il canale 14 (se non erro, Telecapri) disperatamente per seguire le loro avventure.
«Corre il treno corre nella notte, va, e volerà nel blu fra luna e stelle. Un ragazzo coraggioso partirà e troverà la verità e vincerà, e vincerà…». Qual era la verità che quel ragazzino un po’ trasandato e povero avrebbe trovato? Chi era quella ragazza vestita di nero, fiera ed elegante, che è disposta a pagargli un biglietto del treno, solo per avere compagnia? Si parlava di macchine, corpi meccanici, immortalità, umanità. Concetti che, ovviamente, avrei capito molto, ma molto dopo.
E poi c’era quel senso di tristezza, di vuoto, che mi assaliva episodio dopo episodio. Pensavo alla solitudine di Masai, piccolo forse quanto me, che viaggiava accompagnato da una sconosciuta bellissima, ma glaciale. E poi c’erano le fermate del Galaxy Express, tutte quelle prima di raggiungere l’ambita Andromeda. Un viaggio in cui Masai scopre, a poco a poco, quella verità: che l’umanità è l’unico elemento che ci rende davvero liberi, nonostante ci renda imperfetti rispetto alle macchine.
L’ho visto fino all’ultima puntata, Galaxy Express 999. Ogni fermata era la tappa di un viaggio – Leiji Matsumoto avrà letto Joseph Campbell? – e non solo quello di Masai/Tetsuro. Era la tappa di un viaggio che anche io, piccola cinquenne alle prese con temi e universi molto più grandi di me, stavo facendo a livello interiore. Un viaggio che mi preparava ad una vita diversa rispetto a quella spensierata che consumavo a botte di pane&Nutella e di effimero offerto da Fininvest nella sua tv per ragazzi. Una vita cupa, difficile, ma non per questo meno travolgente.
Nei giorni in cui il Maestro Leiji Matsumoto ha detto addio alla sua vita mortale per accedere di diritto all’infinito, la piccola Masai che è in me ha pianto. È stato come dire addio ad un nonno che mi ha portato per mano a scoprire il lato oscuro e filosofico della vita, che mi ha insegnato a scendere a patti con il dolore e la perdita. Ma anche con la speranza e con l’idea che la conoscenza ci renda profondamente liberi.
Di Matsumoto tutti ricordano, com’è giusto che sia, Capitan Harlock. Un pirata «tutto nero che per casa ha solo il ciel, ha cambiato in astronave il suo velier. Il suo teschio è una bandiera che vuol dire libertà». E per quanto il pirata spaziale rappresenti un ideale d ribellione che ha foraggiato gli animi adolescenziali di molti negli anni della giovinezza, per me la filosofia pura di Matsumoto è e resta intrappolata in quel capolavoro chiamato Galaxy Express 999.
Proprio in quel treno che nella notte vola e va, che mi ha portato a scoprire l’immensità di un pensiero. Magari non originale, certo, ma unico. Unico per me, che mi ha permesso di capire, anche se ancora molto piccola, quanto la vita possa essere terribile.
Ma riuscire, comunque, a sopravviverle.