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Half-Life 25 anni dopo: Black Mesa è un luogo dell'anima

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Sono passati venticinque anni dall'uscita di Half Life, il progetto di un gruppo di ex microsoft senza grandi esperienze che fece il miracolo

Il 19 novembre 1998, viene messo in commercio Half-Life: il 1998 è stato un anno particolarmente significativo se guardiamo alle uscite per PC. Unreal, Quake 2, Sin, Rainbow Six… solo citando gli FPS (ma menzionando anche Metal Gear Solid per evitare di commettere un vilipendio alle istituzioni) prende forma una costellazione di titoli tanto fulgidi da illuminare ancora la nostra via. Certo, soprattutto quella dei millennials come me.

Perché non si può parlare di Half-Life senza vestirlo di un'aura un po’ mitica e sicuramente anche nostalgica: è stato fatto infinite volte e il rischio di indulgere su questa patina di fine anni ‘90 - che tanto spesso ci acceca privandoci di un giudizio obiettivo o quantomeno onesto - è grande. Ma se c’è un momento per correre questo rischio è oggi, in occasione dell’uscita su YouTube del documentario di Valve dedicato ai 25 anni di Half-Life.

Il documentario stesso ci accoglie con una stilettata dritta al molle ventre delle nostre debolezze nostalgiche, raccontando di quando i membri della neonata Valve andarono a incontrare John Romero, visto che il progetto Quiver (così si chiamava prima di prendere il nome di Half-Life) si sarebbe basato sul Quake engine.

half life

L'incontro con idSoftware

Sappiamo bene che quella di utilizzare un engine di terze parti stava proprio in quegli anni diventando pratica comune, specie per quanto riguarda idTech, ma nel caso di Half-Life l’aneddotica si ammanta di un fascino particolare.

Gabe Newell e Mike Harrington avevano appena fondato Valve uscendo da Microsoft: proprio nella tech company di Bill Gates avevano lavorato lungamente con Michael Abrash, che pochissimi anni prima era passato in id Software svolgendo un ruolo centrale nello sviluppo di Quake. In virtù di quest’amicizia, i soci di Valve ottennero l’engine idTech come in uno scambio di figurine tra amici: nel documentario ricordano proprio come Romero avesse allungato loro il cd con l’engine, senza un accordo commerciale definito.

Uno ci prova, a restare lucido e a non cascare nella trappola della nostalgia, però…

E questo legame con Quake è a mio avviso centrale nel percorso che ha condotto Half-Life verso il posto speciale che gli spetta di diritto, non solo nel cuore dei giocatori (perché si sa, ognuno porta nel cuore titoli ‘speciali’ per motivi spesso più personali che di merito) ma anche nel big picture costituito da quei videogiochi divenuti pietre miliari.

L’engine venne rivisto a fondo da Valve, d’altronde Half-Life avrebbe dovuto confrontarsi con Quake 2 (che era già uscito da diversi mesi ed era forte della nuova abbacinante versione dell’idTech) e con Unreal. Le modifiche al motore furono tali da conferire al risultato la dignità di un nome specifico, GoldSrc, da cui sarebbe poi originato il Source Engine di Half-Life 2.

Non è difficile allora intravedere una traccia che dal Quake engine porta fino alla nascita di Steam, passando per il capolavoro di Valve e districandosi nel fitto divenire di quegli anni tra un millennio e l’altro: la parabola discendente di 3dfx, il cui tramonto andava ad illuminare la nascita di nVidia con le prime GeForce, e le DirectX impostisi ormai come standard, rendendo Windows un ambiente stabile (più o meno) per il gaming su PC. Half- Life fu protagonista di quest’epoca, ma sarebbe limitante raccontarlo come un passaggio legato unicamente alla grafica: nelle mani di Valve, l’engine di id Software veniva modellato per dar vita a qualcosa di nuovo in un senso più ampio e ricco.

Questo avvenne in un clima che emerge chiaramente dal documentario, che con sincerità (e un po’ di survivorship bias) racconta come in Valve praticamente nessuno fosse esperto nello sviluppo di videogiochi. In tre o quattro tra i designer/programmatori avevano fatto parte dello sviluppo integrale di un gioco. Newell e Harrington fecero tesoro del consiglio di John Romero: “This is what you do to start a game company: you need to go out and hire some level designer.

Può sembrare lapalissiano, ma contestualizzando le parole di Romero con quello che era accaduto in id Software queste rilucono di interessanti e più profondi layer. John Carmack era il cervello pulsante dietro allo sviluppo di idTech, e con il suo soprannome di Engine John è facile immaginarlo seduto al PC per centinaia, migliaia di ore, a scrivere codice, guadagnandosi la fama che tutt’ora lo vuole tra i più talentuosi sviluppatori al mondo.

La dicotomia con l’altro John è ormai letteratura, in una sorta di dialettica apollineo-dionisiaca, di Yin e Yang. In essa, John Romero incarna la passione totalizzante del game designer, forte di un’immaginazione e un talento tali che, fondendosi in perfetta sinergia con il codice di Carmack, seppero dar vita ai capolavori di Id. Riassumono bene il quadro le indovinatissime parole di David Kushner in Masters of Doom: “Carmack created a palette that Romero used to paint the future”.

Quest’alchimia si spezzò alla fine dello sviluppo di Quake, quando secondo Romero l’affannosa e implacabile corsa verso la perfezione tecnologica stava succhiando tutte le risorse di id, pregiudicando lo sviluppo del gameplay: il suo credo era “design is law”, e sarebbe poi diventato la filosofia di Ion Storm, la software house da lui fondata dopo il divorzio da Carmack.

Presi dalla strada

Il suggerimento di assumere dei game designer ha quindi una valenza molto profonda, e i fondatori di Valve presero alla lettera le parole di quello che giustamente pareva loro il massimo esperto in fatto di sviluppo di videogiochi. I designer di Valve erano giovanissimi appassionati presi soprattutto tra la comunità di modder che Doom e Quake avevano fatto nascere. Sentendo le loro storie sembra di vedere una di quelle scene da film americano parodiate in Rick e Morty (”You son of a bitch, I’m in”) in cui dei pazzi visionari mettono assieme un team di scoppiati per una missione impossibile. Apprendiamo così che gran parte del codice di Half-Life è stato scritto da un avvocato, mentre uno dei principali designer lavorava in un Waffle House. 

Naturalmente la magia ha funzionato perché il lato tech era ancorato al granitico engine di id Software, ma è impossibile non vedere - romanticamente - in quest’incantesimo così ben riuscito la realizzazione del sogno di John Romero, in cui un gruppo di hardcore gamers plasmava la tecnologia, al servizio dell’imperativo design is law, dando vita all’FPS definitivo.

Sono proprio le parole di Gabe Newell a regalarci un esempio di questa magia: racconta di come scelsero il piede di porco come arma primaria, la famosa crowbar diventata poi simbolo di Half-Life. Stavano cercando qualcosa a cui l’ambiente potesse reagire, e quando videro quest’arnese che colpendo casse e grate le faceva a pezzi permettendo al giocatore di avanzare capirono che la possibilità di interagire con il mondo in quel modo era la perfetta definizione di “what fun was”.

Il mondo di Half-Life ti vede, ti riconosce, e reagisce alla tua presenza. Ascoltiamo i game designer che raccontano entusiasti di quando da idee folli prendevano vita le armi aliene (come quella che spara insetti che inseguono i target agganciandoli) perché le provavano in deathmatch e il risultato  era divertente.

Ancor più rappresentativa è l’origine degli snarks, o squeak grenade, quei maledetti insetti rossi da lanciare a ripetizione per seminare il caos, tra squittii ed esplosioni che sono sicuro  sappiano rievocare anche in voi sintomi vicini a quelli di un PTSD: erano stati pensati per stanare chi camperava in deathmatch, e sentire Gabe Newell che nel documentario dice “I like snarks. Snarks always made me laugh” ci permette davvero di godere di una scintilla di antica magia, di quella passione che solamente chi aveva visto nascere gli FPS, ci aveva smanettato tra mod, mapping e infiniti deathmatch, poteva incanalare per dar vita a un gioco come Half-Life.

Siamo già nel gioco?

Ma la magia di Half-Life sta proprio nell’essere stato in grado di trascendere queste premesse, se vogliamo anche di aver superato il maestro: non sarebbe divenuto la pietra angolare degli FPS moderni se si fosse limitato a perfezionare il deathmatch, o ne parleremmo come di una mod ottimamente riuscita.

Lo scarto è ben raccontato nel documentario, ed è scolpito nella sequenza che tutti noi ricordiamo: probabilmente come il sottoscritto ricordiamo proprio il momento in cui la nostra esperienza di videogiocatori veniva stravolta dall’arrivo a Black Mesa, da quel viaggio nel vagone in cui ci trovavamo per la prima volta nei panni di Gordon Freeman.

Gli stessi autori raccontano di coloro che provavano il gioco per la prima volta e, pensando di trovarsi in una cut-scene, “accidentally bumped their mouse” rendendosi conto all’improvviso di essere live. Quell’introduzione, con i credits che sfumano discreti tra una scena e l’altra, sotto lo sguardo del giocatore disarmato in tutti i sensi (visto che finora era stato abituato dagli FPS ad avere un’arma tra le mani, ben al centro della visuale) era qualcosa di totalmente nuovo e più accostabile al cinema che al videogioco.

Da lì in avanti il giocatore inizia un viaggio di totale immersione nell’ambiente, con piccoli dettagli come il forno microonde che se utilizzato funziona e fa esplodere il cibo al suo interno, il distributore di bibite con la lattina che cura 1 HP, e ovviamente con la macroscopica componente di vita data dalla presenza attiva di scienziati e guardie. Quello che per noi appare oggi così scontato, come una manciata di NPC che ci rivolgono la parola o che si intrattengono in chiacchiere prima del famigerato esperimento nella test chamber, era in Half-Life il genere di innovazione che sconcertava in maniera sottile, e che ci faceva percepire di essere davanti - anzi dentro - a qualcosa di nuovo.

Qualcosa da cui non si sarebbe potuto prescindere negli anni a venire. Dall'engine di Carmack era sorto qualcosa di imprevisto, e che riuscì non solo a trattenerlo nel mondo del single-player, ma a definire quel mondo con degli stilemi personalissimi, figli di una ricerca in cui davvero design is law.

In un’epoca in cui gli FPS ci lanciavano nel bel mezzo di una mondo con l’arma in mano, e la trama era nient’altro che un espediente per sparare a mostri diversi (devo davvero ricordare Carmack che paragona la necessità di trama nei videogiochi a quella nei film porno, come se la citazione non fosse nel bagaglio di noi tutti?), la narrazione in Half-Life imponeva ben più di un passo avanti. Era una scrittura diegetica, con la trama che scorre soprattutto fuori dalla nostra vista e dal nostro controllo, e ne siamo messi al corrente solo in parte.

Come in un racconto di David Foster Wallace guardiamo a personaggi ed eventi con la sensazione di coerenza data dalla percezione che ci sia qualcos’altro oltre a quel che vediamo. La vita dei personaggi attorno a noi esiste al di là della porzione di essa che ci viene raccontata. Non sappiamo quasi niente di Black Mesa né tantomeno del pericoloso esperimento che stiamo per compiere, mentre tutti non fanno che dirci di sbrigarci perché siamo in ritardo.

A Black Mesa non riceviamo risposte, possiamo solo farci domande mentre ci rendiamo conto che tutti ne sanno più di noi.

Avremo sempre Black Mesa

Un po’ come era accaduto durante lo sviluppo Quake - le similitudini saltano fuori spontaneamente, è una storia che si racconta da sè - i level designer lavoravano in estrema autonomia, dando vita a sezioni di gioco che parevano difficili da raccordare. Fondamentale fu dunque il lavoro della texture designer: sì, perché le texture di Half-Life sono state create tutte da una sola eroica persona: Karen Laur (peraltro estremamente somigliante a Brienne di Tarth), che ha dovuto tenere a bada i level designer che tendevano a pescare tra le texture con molta libertà.

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Una interessante novità dello sviluppo di Half Life sono le cosiddette "Cabal Unit": gruppi 6 sviluppatori che mescolano programmatori, game designer e artisti lavorano per 6 ore al giorno per 6 settimane ad alcuni aspetti del gioco, producendo un documento di design dettagliato, che poi viene discusso, testato ed eventualmente adottato. In questo modo un gruppo che inizialmente non aveva idea di come strutturare il lavoro riuscì a creare un flusso efficiente che lasciasse spazio alle idee e non facesse sentire nessuna parte esclusa dal processo creativo.

Decise quindi di rinominarle con un nome file che chiarisse la loro destinazione all'interno del mondo: la sua intuizione di dare a ciascun'area di Black Mesa un’estetica ben precisa, un tono peculiare che la definisse donandole carattere, si rivelerà vincente. Tutti noi associamo a Tensione di Superficie, Complesso di Uffici, Etica Discutibile, una determinata atmosfera, una vibe che ancora cerchiamo e amiamo riassaporare negli infiniti ritorni a Black Mesa.

Perché alla fine a Black Mesa si torna sempre. E la tentazione è di trattenervi con me tra le maglie dei ricordi risvegliati dal documentario di Valve. Potrei parlarvi delle scene che sembravano avvenire per caso, lì di fronte a noi, come quando il mostro a tre teste afferra uno scienziato nel clangore assordante di metallo martellato.

O delle misteriose apparizioni del G-Man, irraggiungibile e spettrale. O dell’affascinante avvicendarsi di elemento umano e alieno, tra marines e mostri provenienti da un altro mondo, per finire con la controversa incursione sul mondo di Xen. O delle vertigini di quando ci siamo affacciati da quel tubo di aerazione aperto sul vuoto, il canyon sotto di noi, mentre un caccia ci sfreccia davanti all’improvviso tuonando.

E potrei raccontarvi che ho cercato davvero di parlare di Half-Life stando in guardia, tenendo da parte la nostalgia risvegliata da quella patina luminosa di cui rifulgono i classici che ci hanno fatto emozionare e ci hanno cresciuti… ma saprei di mentirvi, come so che ha ragione Francis Scott Fitzgerald nella chiusura del suo capolavoro Il Grande Gatsby: “Così continuiamo a remare, barche contro corrente, risospinti senza posa nel passato.”

 

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