Un film che come un giardino zen delinea la sua bellezza attraverso l’essenzialità della forma, ma che non rinuncia a una struttura barocca
“Per seguire la Via il samurai deve mantenere l’attenzione sul momento presente e non vacillare, non avere pensieri mondani né essere schiavo delle passioni. Ogni istante è importante e quindi è necessario concentrarsi sempre sul momento presente” Yamamoto Tsunetomo
Uomini di cui non conosciamo il passato e il futuro, azione che parla da sola, che non si spiega con le parole, ma con i gesti, dialoghi ridotti all’osso, al limite del film muto, pure immagini in movimento accompagnate da un tema sonoro ossessionate, come all’alba della cinematografia o nel pieno della nouvelle vague, una trama che non ha bisogno di niente, perché in questo film la storia è la Storia.
Questo è Dunkirk, un film profondamente zen in cui tutto ciò che non è essenziale viene lasciato fuori. Non ci interessa sapere chi erano questi uomini prima che apparissero sullo schermo né abbiamo bisogno di spiegazioni, tutto ciò che ci serve è di fronte ai nostri occhi, ripreso nella magnificenza di una pellicola da 70mm che ci ricorda come mai il cinema è una cosa e vedersi le serie TV sullo schermo del computer è un’altra.
Un film che ha molto in comune con un altro capolavoro che metteva il proprio genio a servizio più del come che del cosa: Fury Road. In entrambi i casi parliamo di viaggi quasi circolari, trame ridotte all’osso, personaggi conosciuti in media res e di immagini e suoni che prendono a schiaffi le sinapsi.
Ma Dunkirk è soprattutto Nolan, quel Nolan che ama i colori freddi e che si trova a sua agio sia nei campi lunghi che nei primissimi piani in stile western, in cui la mossa di un sopracciglio vale più di una pagina di dialoghi, che lascia a Zimmer il compito di sottolineare le immagini con una colonna sonora forse non particolarmente brillante ma adeguatamente assillante, fatta di ticchettii che si insinuano piano piano nel cervello e sembrano sabotare il ritmo del nostro cuore.
Ma soprattutto è il Nolan ossessionato dal tempo e dai suoi incastri, dalla sua non linearità. In Dunkirk arriva al suo punto più alto un discorso iniziato con Following, esploso con Memento e portato avanti in Inception e Interstellar.
Il film si basa su tre elementi: terra, acqua e aria, con tre differenti linee temporali, una settimana, un giorno, un’ora e tre “protagonisti”, un soldato che vuole scappare in ogni modo da Dunkirk, un uomo di mezza età alla guida di una barchetta che cerca di fare la sua parte e un pilota. Queste differenze vengono chiarite nei primi minuti, poi la successione degli eventi si spezzetta, si piega, si incastra e si mescola come i palazzi nei sogni di Di Caprio, per poi rivelarsi nel suo finale, mostrandoci il trucco, come in The Prestige. Capire il puzzle non sarà sempre facile, anzi, rappresenta forse l’unica sfida di un film che per il resto è estremamente asciutto (nonostante le molte scene acquatiche) nella sua rappresentazione.
Attorno alle figure cardine ruotano una serie di personaggi che a volte si incontreranno, a volte, presi come sono a cercare di sopravvivere in uno dei momenti più cruciali della storia moderna.
Con pochissimi elementi su cui appoggiarsi per comprendere, allo spettatore non resta altro che vedere e sentire: le urla dei soldati che hanno paura di morire nella stiva di una nave silurata, i laconici dialoghi tra piloti che decidono quale nemico abbattere, l’incredibile vista di 300.000 persone in fila su una spiaggia che ogni tanto si accucciano per evitare un bombardamento, sperando di potersi rialzare. Ogni immagine ha senso, ogni parola non è detta invano, ogni momento conta come gli altri.
Per il cinema di oggi, in cui la trama è tutto, il dialogo definisce il personaggio, lo spiegone è la regola e il pubblico guarda con la lente ai “buchi di sceneggiatura” ci troviamo di fronte a qualcosa di estremo e sperimentale, ovviamente per quanto riguarda i blockbuster, un’operazione che giusto uno come Nolan si poteva permettere.
Il risultato è un film di pura azione, intesa non solo come cose che esplodono, ma come immagini in movimento, un concentrato di ansia, paura di morire e speranza che Nolan guarda non con l’occhio emozionato e partecipe di uno Spielberg, ma col distacco quasi asettico dell’entomologo: sembra quasi di trovarsi di fronte a un documentario in cui la macchina da presa non parteggia né per il leone, né per la gazzella. Tutti sono importanti, ma nessuno è indispensabile per fare un grande film, quello che una volta avremmo chiamato Kolossal.
Dal punto di vista dello spettatore questo si traduce in una sorta di assedio alle nostre coronarie, non c’è un solo momento che non sia caratterizzato dall’ansia, dalla paura di morire, dal bisogno di fare le cose in fretta, perché la morte è là, presentissima è invisibile. I tedeschi ci sono, ma non li vediamo mai. Come gli indiani di Ombre Rosse sono un’entità invisibile e oppressiva che si manifesta solo nel momento in cui colpisce. Solo alla fine il film decide che finalmente può mollarti la carotide per farti respirare, mentre ti chiedi come hai fatto a reggere così tanti minuti sull’orlo di una crisi di nervi.
I personaggi, raccontati più dai loro gesti che dallo loro parole, sono invece equamente divisi tra due tipi di eroismo: quello “normale” di chi fa il suo dovere e aiuta gli altri, nonostante tutto, come il capitano della barca o il pilota di caccia, incredibilmente interpretato da un Tom Hardy che riesce a trasmettere tutto ciò che serve pur rimanendo tutto il tempo bloccato in un abitacolo e con una maschera per l’ossigeno sulla bocca. E quello di chi sopporta, di chi si arrangia, resiste e cerca comunque di salvarsi con la furbizia e l’egoismo di chi vuole vivere, anche se sarebbe molto più semplice lasciarsi catturare o morire.
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Unica nota stonata, ma parliamo di dettagli da riportare giusto per il gusto di trovare il pelo nell’uovo, è il momento in cui Nolan sul finale decide di allentare un attimo la presa e si concede un momento di realismo magico da film d’azione, sul quale evito di darvi troppi dettagli, quando ci arriverete capirete.
Con Dunkirk ci troviamo di fronte al Cinema, quello bello, fatto con cura, mezzi e capacità, quello che devi vedere nel più grande schermo possibile e che è in grado di spegnere tutto ciò che lo circonda, quello che non si accontenta di essere televisione proiettata sul muro. Siate felici di poter essere i primi a vederlo al cinema e andateci ogni volta che potete.
Capolavoro? Sì.