Creed II è appena finito. Mentre esco dalla sala penso che sì, è il momento di fare qualcosa contro la mia indolenza, sì è il momento di ricordarsi che il sacrificio è quello che ci fa ottenere qualcosa, non sarà come quando da bambino vedevi Rocky IV e volevi subito menarti con gli amici al grido di "Ti spiezzo in due", ma è una spia a cui fare caso.
Quando si scrive una delle prove più difficili da affrontare è raccontare qualcosa che ti ha toccato nel profondo. A stroncare con parole ironiche e iperboli cattive son bravi tutti, ma quando l’analisi si mescola con l’emozione c’è sempre il rischio di dire “Bello! Bello!” senza però riuscire a mettere in fila un pensiero che sia sensato e non banale.
Va detto che non è una sfida complessa quanto salire sul ring contro Florian Munteanu, che nel film interpreta il figlio di Ivan Drago, uscirne senza dover mangiare solo cibo liquido e pisciare sangue per il resto della tua vita, quindi ce la possiamo fare.
Il primo Creed era un film giovane, energico, rabbioso, come il suo protagonista. Un film che voleva farsi un nome tutto suo, contando sull’esperienza di Stallone (regista, scrittore e interprete meraviglioso mai abbastanza osannato da una critica cieca e snob) e su un talentuoso protagonista, affiancato da un regista con le medesime caratteristiche. Il risultato è stato un film la cui qualità era sotto gli occhi di tutti, un passaggio di consegne fra vecchio e nuovo, tra chi aveva già vissuto buona parte della sua vita e chi invece voleva scrivere il suo nome nella storia. Emozione pura.
Creed II partiva quindi da premesse potentissime, eppure facilissime da sprecare: Ivan Drago è probabilmente una delle figure più iconiche del nostro immaginario, un ruolo di poche battute capace di trasformare Dolph Lundgren da toy boy di Grace Jones in un action hero. Rimetterlo di fronte a Rocky vuol dire confrontarsi col passato, col peso di quella memoria e con le aspettative di un pubblico che si attende molto.
Vuole anche dire rischiare di subire il fascino seducente della nostalgia appiccicosa, del fanservice, di dare agli spettatori solo uno zuccherino.
Va detto subito che Creed II non è un film preciso ben costruito come il capitolo precedente. Innanzitutto, si vede che manca la mano di Coogler alla regia. I combattimenti sono rappresentati con efficacia, ma manca quel guizzo in più di chi ha la stoffa. Nonostante le emozioni che suscita, la storia soffre di alcuni cali di ritmo, è prevedibile in maniera confortante e alcune sequenze vorrebbero ricordare l’allenamento di Rocky in montagna, trasportando il tutto nel deserto, ma manca quel quid per renderle altrettanto epiche. E sappiamo tutti quanto il training montage sia stato importante nell’universo di Rocky.
È palese che Stallone, pur nella sua bravura, ha avuto un certo timore reverenziale verso il suo passato, la paura di commettere un errore, di utilizzare un materiale potentissimo che rischiava di schiacciare sotto il suo peso tutto il resto del film, il cui scopo è raccontare soprattutto la storia di Adonis, non di Rocky. Tuttavia credo sia il primo caso di film che è il seguito di altri due film, uno di quali ambientato più di 30 anni fa.
Il coraggio di Creed II, pur nella sua imperfezione, sta nel non cercare la soddisfazione facile attraverso una lenta costruzione dell’epica sfida finale. Lo si intuisce fin dalle prime scene, con Drago che sveglia suo figlio con un cazzotto per iniziare l’ennesima giornata di lavori di merda, allenamenti e combattimenti in una Kiev, sporca, desolata e ben lontana dalla potente ideologia sovietica di cui lui era stato il simbolo molti anni prima. Rugoso, zoppicante e dimenticato da tutti, l’ex campione russo ha perso tutto cadendo al tappeto ed è tenuto in piedi solo dal rancore e dalla voglia di riscatto con cui ha plasmato una macchina per uccidere: suo figlio. Tra i due c’è lo stesso rapporto che ci potrebbe essere tra una lama e un fabbro, il secondo prende a martellate la prima per renderla migliore, le carezze non servono a niente.
Viktor Drago è inizialmente presentato come una sorta di nemesi greca, una forza della natura inarrestabile con cui il protagonista deve fare i conti e uscirne cambiato, ma più passa il tempo e più scopriamo che tra le pieghe della bocca e gli occhi calmi e furiosi del figlio c’è una motivazione forte, condivisibile: il riscatto da una vita che non ha regalato niente se non la voglia di sopravvivere. Viktor sa per cosa lotta e questo lo rende inarrestabile, puro nella sua violenza.
Dall’altra parte, Adonis è un campione affermato, ma irrequieto, vive di quell’insoddisfazione logorante di chi avverte la mancanza di un tassello fondamentale nella propria vita, forse è l’ombra del padre che sente sulle spalle, forse è ciò che senti quando hai combattuto tanto, ma quando arrivi in cima scopri di non avere uno scopo.
Poi arriva finalmente l’occasione per chiudere i conti con la storia: la sfida Creed vs Drago, un match citato e ricitato, così come quello che ha portato alla morte del padre. Una sfida a cui non puoi dire di no, neppure quando tutti te lo sconsigliano. Non puoi farlo per te stesso, per il tuo passato e perché in fondo senza una montagna da scalare ti senti vuoto, anche se rischi di morire.
Anche Adonis ha perso qualcosa, ma vive comunque una vita agiata, è amato dalla sua compagna, sua madre abita in una grande villa, per strada lo salutano, lo incitano e può contare sulle parole e la saggezza di Rocky, quel Rocky che ha preso un sacco di botte ma è ancora là, che si sente solo, che sta nell’angolo di quel ragazzo che riempie il vuoto di un figlio lontano. Per vincere di nuovo dovrà scendere fino all’inferno, sfruttando un archetipo narrativo molto presente nei videogiochi: l’eroe che viene strappato dei suoi poteri e deve riconquistare l’antica gloria, scendendo a patti con le proprie debolezze.
L’aspetto migliore di questo scontro è senza dubbio il fatto che non è presentato cercando a tutti i costi lo scontro e il parallelismo con quello tra Rocky e Drago. Le ideologie sono crollate, la sfida non è più tra USA e URSS, ma tra due rancori dal sapore differente e con sé stessi. La famiglia Drago non è là solo per riempire la casella del cattivo, ha motivazioni sensate, condivisibili, umane. Perché Viktor e Ivan non dovrebbero aspirare a una vita migliore? Perché la gloria dev’essere sempre degli altri? Perché di Rocky c’è una statua a Philadelphia mentre Drago vive nello squallore? Ed è qua che vacilla l'impianto dicotomico dei film di boxe, perché sì ok, Adonis è puro carisma, ma Viktor è il vero sfigato della situazione, quello che ha qualcosa da riscattare. In certi momenti viene naturale tifare per lui e se questa non era l'intenzione degli autori allora forse abbiamo un problema.
Perché tutti in Creed II sono in qualche modo “rotti”, anche la spettacolare e bravissima Tessa Thompson, tutti cercano un modo per aggiustarsi, perché nessuno picchia più forte della vita.
Tutti in Creed II sono rotti, perché nessuno picchia più forte della vita
I due giganti lottano per tutto il film, ma è un gioco di sguardi storti (mamma mia che prova d'attore per Lundgren), di bocche storte, sorrisi beffardi e consigli al proprio aspirante campione. Viktor e Adonis agiscono come estensioni dello spirito combattivo di chi siede ai loro angoli, persone che hanno sapientemente cercato di trasferire ogni goccia del proprio sapere e giocano l'ultima carta di una vita che tramonta. I due vecchi rottami si guardano, si parlano poco, non riescono mai del tutto ad avvicinarsi, a rievocare del passato, a mettersi alle spalle qualcosa che li ha deformati per sempre.
Neppure Rocky, pur vittorioso, conserva foto di quel momento, perché Ivan “ha rotto cose dentro di lui che non sono più guarite”. Ma il film si chiama Creed II, non “Rocky vs Drago, la rivincita” quindi tutto deve passare anche da lui, da un campione che non si sente tale, da un uomo che imparerà a piangere per diventare più forte. Di fronte ha un suo pari che dietro una montagna di muscoli nasconde il dolore della solitudine (e lo nasconde molto bene, perché dio santo se è enorme).
Prima di arrivare all’incredibile scontro finale dovranno succedere molte cose è il grande coraggio imperfetto di Creed II è qua, nel rifiuto della scorciatoia, della cosa facile, del passato confortante. Adonis in certi momenti è quasi fastidioso nella sua incapacità di capire che niente può essere dato per scontato, che tutto dev’essere guadagnato con sforzi al limite dello svenimento.
Anche lo spettatore deve guadagnarsi le proprie emozioni, che sfilano spesso sottotraccia, nel non detto e in ritmo che a volte zoppica. Sarebbe bastato pochissimo, magari anche solo un cazzotto o una messa in guardia tra i due vecchi campioni per esaltarci con poco, e invece no, anche noi dobbiamo soffrire. Rocky IV non è un confortante momento della gloria passata da rievocare con emozione, ma un’ombra da cui staccarsi per non rimanere al palo mentre il mondo va avanti. Si vince se si corre, non se si guarda indietro. Bisogna combattere per sé stessi e per chi c’è, non per chi ormai è irraggiungibile, idealizzato. Lo sa bene anche Stallone, che con questo film saluta il suo amico più importante.
Con questo carico di emozioni arriviamo allo scontro finale. Una manciata di minuti che sembrano ore e mozzano il fiato (contro forse quattro respiri in dieci round), in cui la colonna sonora drizza i peli sulle braccia rielaborando i temi del passato. Impossibile restare indifferenti e non sentire gli occhi che si inumidiscono mentre finalmente si libera tutta la tensione accumulata. Uno scontro brutale, epico, doloroso in cui l’esito fino all’ultimo secondo non è assolutamente scontato, nonostante la prevedibilità del tutto. Difficile, onestamente, scindere il giudizio dalla passione, io non credo di esserci riuscito del tutto.
Un uomo vince, l’altro perde, ma oltre alla vittoria e alla sconfitta c’è la capacità di diventare migliori anche fuori dal ring.
Avrei forse apprezzato un momento di chiusura tra Ivan e Rocky, una sorta di riconciliazione finale, ma forse queste sono cose che capitano solo al cinema e Rocky, come ben sappiamo, è vita.
E adesso datemi un film solo su Ivan e Viktor.