Ultimamente il mondo del cinema ci mette sempre più spesso di fronte a operazioni nostalgia, prequel, spin-off, reboot e altri favolosi nomi che tradotti significano “non abbiamo più idee”. È altrettanto certo però che non ne avremmo così tanto la nausea se tutti sapessero riscaldare la minestra come ha fatto Stallone.
Creed guarda la recente cinematografia fatta di giovani problematici, Young Adult che rifiutano la guida dei più grandi e figure paterne assenti o colpevoli e gli urla in faccia che è il momento di tornare ai bei film degli anni ’90, quelli che ti dicevano cos’era giusto e cosa sbagliato, che ti rassicuravano ricordandoti che là fuori è dura per tutti, non solo per te, e che quindi farai bene a smettere di lagnarti e ad allenarti, ascoltando chi ne sa più di te, invece di sperare di risolvere tutto solo perché pensi di essere bravo. E quando cadi stai tranquillo che c’è la famiglia, quella tradizionale (ovvero in stile Fast & Furious), fatta di persone che ti vogliono bene anche quando fai una cazzata.
Creed è un film in cui tutti lottano. Lotta la Signora Robinson (sì, quella della serie TV) che adotta un figlio simbolo del tradimento di un marito che tanto ha amato, lotta la cantante che vuole raggiungere il successo ma deve fare in fretta perché sta diventando sorda. Si lotta contro il cancro, contro la mancanza, contro l’avversario, contro la boria, contro i luoghi comuni, contro i propri demoni. Non c’è un solo personaggio nel film che non dimostri una sacrosanta verità: la vita è un casino e bisogna saper rispondere ai suoi colpi, se non per la vittoria, almeno per uscirne a testa alta.
Per rendere questo concetto l’estetica del film abbandona ogni fronzolo dei canoni moderni per riproporre una grande messa in scena degli anni ’90 come se li filmassimo oggi. Filadelfia è una città priva di lustrini e trovate architettoniche, solo mattoni rossi, ristoranti pacchiani, sporco e tanto traffico. Le palestre illuminate e pulite lasciano presto il passo a buchi semivuoti in cui un vecchio con anni di esperienza può tirarti fuori il meglio senza troppe distrazioni e dove il sacco che colpisci ha più anni di te. È un mondo dove quando vinci, hai dato così tanto che non vai a festeggiare in un club con le zozze, ma crolli sul divano. La gente veste normale, le ragazze hanno i capelli come Janet Jackson, gli zarri impennano con le moto e i colori sono ricchi di contrasto e saturi, come se fossero usciti da una vecchia cinepresa.
La storia è invece un collage dei Rocky precedenti, c’è il ragazzo bravo ma inesperto, c’è il campione che decide di scontrarsi col giovane, c’è la voglia di riscatto, c’è la compagna di carattere ma che non smette mai di supportarti, c’è il training montage, anzi ce ne sono due, perché non si sa mai, e poi c’è Stallone, che è ferito senza essere patetico, quasi dolce col suo cappellino, gli occhialetti e la rosa adagiata sulla tomba della moglie. È una leggenda che passeggia tra i comuni mortali con semplicità e modestia, fiero dei successi e consapevole delle cadute, che ora più che mai rispecchia il cammino di Stallone, un uomo con le idee chiare che ci ha creduto fino in fondo, senza mollare mai e nonostante il pregiudizio di chi lo tacciava come semplice action-man.
Tuttavia, queste ottime premesse potevano andare a puttane con una facilità incredibile. Esattamente come il suo protagonista, il film era un giovane di belle speranze e dal passato glorioso che aveva tutto da dimostrare. Come un pugile ansioso di successo rischiava di perdersi tra allenatori sbagliati, doping e ragazze facili. Invece anche qua Stallone, ma soprattutto Coogler e Covington dimostrano di avere una mano fermissima nel trattare la materia.
Il fulcro della storia sono i combattimenti e l’allenamento di Adonis Johnson/Creed? E allora quello dev’essere sempre in primo piano. La storia d’amore, i drammi, i momenti felici, ruotano tutti attorno a questo centro, senza mai sbracciare per un po’ di attenzione e senza mai cadere nel facile trucchetto della scena hot o del momento strappalacrime. Anche la figura di Apollo è usata solo quando serve, senza esagerare, come la scarica di adrenalina che permette di farcela anche quando tutto sembrava finito.
Ed ecco quindi che, proprio come nel primo Rocky, torna la steadycam che ci regala momenti di boxe talmente intensi che quasi lasciano i lividi e almeno un paio di piani sequenza prima dell’ingresso sul ring e durante un match che fanno digrignare i denti per quanto sei teso e carico. Non male anche la scelta di presentare i vari pugili del film con un fermo immagine ricco di statistiche in stile videogioco, unica concessione di una regia che guarda molto al passato.
Ovviamente parliamo di un film di combattimenti, quindi ci sarà sempre il coglione che se ne esce con “eh ma nella verità mica si picchiano così tanto”? Ma a noi che ce ne frega. Siamo troppo impegnati a sincronizzare i battiti del cuore con la colonna sonora che riprende alcuni temi fondamentali della saga e li rielabora in uno dei pochi veri momenti di modernità.
I difetti del film sono solo due, anche se veramente fastidiosi: il pugile Fedez, inguardabile, e il doppiaggio dei commentatori nello scontro finale, nasale come mai, che rischia seriamente di sciupare uno dei combattimenti più belli degli ultimi anni.
Attenzione: tornati a casa vorrete salire di corsa le scale e alzare le braccia al cielo, pazienza se dopo sputerete un polmone.