STAI LEGGENDO : Come il videogioco ha tradotto l'icona dello zombie.

Come il videogioco ha tradotto l'icona dello zombie.

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La figura dello zombie è da tempo approdata nei videogiochi con numerose produzioni: da Resident Evil a The Last of Us passando per Dying Light.

Nella moderna iconografia popolare, l’immagine dello zombie (o zombi) è forse quella che più è riuscita a imposi nei media, compreso il videogioco.

l'ormai iconica "Bicycle Girl" di The Walking Dead

Volendo prescindere dalle sue radici folkloristiche, l’immaginario narrativo contemporaneo è solito ricondurre la figura dello zombie a qualcosa di catastrofico, di inconcepibile, di apocalittico. Per questa ragione la sua immagine rientra nei canoni della core story; perché quando vediamo o leggiamo di uno zombie, sappiamo che parallelamente l’umanità è compromessa. Questo è un fatto.

Nello scorso articolo citavo Mattheson, che con il suo I Am Legend diede i natali a un topos che nei decenni a seguire avrebbe raggiunto una notorietà immane. Sì perché proprio Mattheson parlava di una pandemia che trasformava i suoi infetti in vampiri. La distopia in questo caso risiedeva in molteplici punti: lo scenario, la causa e i suoi effetti. L’insieme di questi elementi rivoluzionarono la narrativa horror, ispirando direttamente chi invece, al posto dei vampiri, preferì gli zombie.

George A. Romero, buonanima, è ritenuto unanimemente il padre putativo dello zombie moderno; d’altronde è stato lui a concepire e quindi a immaginare i morti viventi per come li conosciamo oggi. Ciononostante, per Romero lo zombie non si limitava a semplice figura orrifica, bensì fungeva da manifesto; il simbolo del decadimento collettivo di una nazione.

Lo zombie nacque come mezzo per poter fare impegno civile.

È proprio in questa visione che risiede la distopia: razzismo, militarismo, elitarismo, consumismo, tutto ciò che per Romero è parte fondante del tesserato sociale americano, viene rappresentato sotto-forma di una piaga capace di infettare e trasformare l’essere umano in uno zombie; un predatore antropofago che morde e infetta a sua volta. Sin da The Night of the Living Dead, il regista newyorkese ha rappresentato la catastrofe attraverso queste linee topiche, proponendo di pellicola in pellicola, una visione sempre più decadente e apocalittica della società.

Il retaggio di George Romero, manco a dirlo, riuscì nell’impresa di valicare i confini del medium cinematografico; trovando un’immediata corrispondenza proprio nel videogioco. Eccomi qui che per la quarta (?) volta mi sentirete parlare di Resident Evil. Scusate ma ne non posso farne a meno.

Le corrispondenze concettuali con l’iconografia Romeriana ci sono tutte, a cominciare da quelle puramente narrative. Un virus, un contagio e la conseguente comparsa di quelle amenità che tanto abbiamo imparato a temere e amare. Resident Evil si depura, seppur con qualche lascito, dal fattore sociopolitico, tuttavia, l’ascendente horror viene conservato e tradotto mediante una forma completamente nuova, a tratti fantascientifica. Mi piace definire questo aspetto ricorrendo alla terminologia “industrial”.

A prescindere da questo, il fattore sopravvivenza – uno dei più rappresentativi topos distopici – definisce l’aspetto più preponderante dell’esperienza di gioco, permettendo, a partire dal secondo capitolo, di poter sperimentare su ampia scala la devastazione che il virus ha liberato. In questo scenario di morte e desolazione, bisognerà orientarsi fra le strade e i vicoli di una Raccoon City in preda al giogo della piaga. Automobili in fiamme, negozi depredati e distese di cadaveri divorati ornano questo dipinto catastrofico. Lo zombie a questo punto diventa il collante fra noi, i superstiti, e la morte che gira per le strade. Questi però non solo la minaccia ambulante, ma rappresentano anche il risultato di un fatalismo, essendo questi vittime dell’epidemia stessa.

In molte opere videoludiche, l’elemento che funge da propellente per quella che oggi definiamo “apocalisse zombie”, è l’uso sconsiderato della scienza da parte dell’uomo. Questo aspetto è di enorme importanza se valutato con maggiore attenzione. La natura in questi casi è innocente; trovo giusto sottolinearlo. Leggendo quindi fra le righe di questa narrazione, è possibile intuire innanzitutto la validità del medium videoludico che sì, utilizza l’espediente della tecnologia sfuggita di mano per poter edificare una storia, ma parallelamente ha il potere di gettare ulteriore riflessione sui quei limiti che non andrebbero superati; riflessione che ovviamente prescinde dalla figura dello zombie o di altre icone di finzione.

Tornando al videogioco, Resident Evil ha avuto il potere di sdoganare un nuovo modus operandi per poter veicolare horror e fantascienza, il cui eco è giunto sino a noi, a distanza di oltre vent’anni. Filtrando le dozzine di titoli pubblicati, ci sono almeno due i.p che meritano la nostra attenzione.

Dying Light, sviluppato dalla polacca Techland e in seguito pubblicato nel 2015, è uno degli ultimi videogiochi a trattare apertamente la tematica degli zombie. Questo propone uno scenario non troppo dissimile da Resident Evil, mostrando una città, Harran, caduta sotto gli effetti di un patogeno che ha infettato e trasformato in zombie i suoi abitanti. Essendo un open world, avremo la possibilità di osservare gli effetti dell’epidemia in maniera profondamente più impattante rispetto al titolo di Capcom, inoltre, sempre a differenza del videogioco giapponese, in Dying Light osserveremo un dettaglio che, proprio Romero, aveva sottolineato in Dawn of the Dead: la violenza umana sarà sempre la peggiore.

Harran è stata circoscritta, chi è dentro è dentro, qui è fuori è fuori, sopravvivere e lottare. Dinanzi a questa premessa, è ovvio supporre che l’unità, valore in teoria imprescindibile, venga meno. L’istinto di autoconservazione sarebbe capace di far commettere il più spregevole degli atti anche alla persona più placida. Immaginate cosa potrebbero fare invece, quelle persone che da sempre sposano la violenza. Nel gioco ci vedremo infatti contrapposti a una milizia locale capeggiata dal Rais, Kadir Suleiman, un neo signore della guerra che risponde ai più tipici canoni storici della figura.

La Somalia è geopoliticamente nota per essere uno degli stati africani più instabili della storia contemporanea. A partire dagli anni ’90, è stata protagonista di una guerra civile fra le più drammatiche che la terra ricordi. A movimentare questo conflitto interno, c’era Mohammed Farah Hassan detto Aidid, Il Vittorioso. Trasformatosi in un signore della guerra, durante la sua contrapposizione al leader riconosciuto Ali Mahdi Mohamed, Aidid si macchiò di ogni reato penalmente perseguibile dalla Corte dell’Aia. Una lunga serie di crimini che trovano corrispondenza proprio nei metodi di Suleiman, inclusa la requisizione di quegli aiuti regolarmente aviolanciati su Harran. Lo stesso Aidid requisiva con la forza gli aiuti umanitari delle Nazioni Unite.

Avrete quindi capito che lo zombie, per quanto famelico, non è consapevole dei suoi gesti. L’uomo al contrario sì. Per questa ragione reputo Dying Light oltre che un ottimo videogioco – nato dalla tesorizzazione che il team ha maturato con Dead Island – rappresenta anche un perfetto esempio di quell’immoralità assai ricorrente nella narrazione distopica.

La cultura pop ci ha sempre definito lo zombie attraverso canoni ben precisi: decadenti, famelici, barcollanti e privi di raziocinio. Ciononostante, mi sento di dover fare una grande digressione, e considerato il titolo, credo che me la concederete.

In The Last of Us, sviluppato da Naughty Dog nel 2013, non ci sono zombie. Non abbiamo a che fare neppure con un virus, bensì con un fungo, il Cordyceps. Eppure perché ritengo necessario parlarne in questo contesto? Forse perché il decadimento globale, e quindi la distopia, qui sono tangibili a livelli estremi, oppure perché anche in questo caso, come per Dying Light e Resident Evil, l’infetto è ancora una volta una vittima, sicuramente ostile, ma pur sempre una vittima privata della facoltà di valutare. Inoltre c’è un aspetto in questo videogioco che mi preme sottolineare: raramente in questo medium, una tematica che normalmente coinvolge dinamiche perlopiù muscolari, riesce a esplicare così meravigliosamente quanto detto riguardo The Road nello scorso articolo. Un rapporto privo di legami di sangue, ma capace di generare i medesimi istinti in un uomo apparentemente afflitto, rassegnato e indebolito dallo scorrere del tempo.

Un viaggio attraverso una terra martoriata e diffamata da coloro che la abitano. Uomini e donne i cui comportamenti consapevoli vanno ben oltre la ferocia di quella spora. Essi sono senz’altro la conseguenza di quella spora, che ha inclinato e poi spezzato le loro vite; tuttavia ciò non li giustifica, al contrario li giudica colpevoli di aver perso la loro civiltà. Non tutto però è perduto; perché tra le rovine di quella vecchia e frenetica civiltà, c’è l’innocenza di una ragazzina nata in un mondo in cui alla minaccia dei cliker e delle barbarie, si contrappone l’affetto, oramai divenuto paterno, di un uomo che ha ritrovato una ragione per vivere.

 

 

 

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