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Cobra Kai - Le colpe dei padri e la rivincita dei nerd

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L'analisi della prime due stagioni di Cobra Kai, dopo una lunga sessione di binge watching, tra topos narrativi tipici e ipotesi sul futuro.

Ho visto le due stagioni di Cobra Kai in due giorni, e l’ultima volta che mi era successo di fare binge watching di una serie era stato con l’ultima stagione di BoJack Horseman.
Certo, non vorrei fare un paragone tra le due. Forse.

Ma andiamo con calma: Cobra Kai è una serie che esce inizialmente per YouTube Premium, il servizio con cui il colosso dei video on demand decide di fare concorrenza ai colossi dei subscription video on demand, con risultati comprensibilmente discutibili – considerando che nessuno di noi penso abbia mai pensato di pagare YouTube. Comunque, la prima stagione esce nel 2018 e passa un po’ in sordina.

Ed è un peccato – per fortuna, poi passa a Netflix.

Per chi avesse vissuto in un monastero sul monte Fuji negli ultimi anni, la serie creata da John Hurwitz, Hayden Schlossberg e Josh Head è un sequel del film del 1984 Karate Kid, ed è bellissima.
Inizia trentaquattro anni dopo gli eventi finali del film, in cui Danny LaRusso (Ralph Macchio) ha vinto il torneo di karate dell’All Valley sconfiggendo Johnny Lawrence (William Zabka) con il celebre calcio in faccia. Ma la serie non si concentra su Danny – non all’inizio, almeno – bensì proprio sul perdente.
Johnny Lawrence è rimasto fermo agli anni ’80 ed è diventato un alcolista che tira a campare con lavoretti da elettricista. E che ha dimenticato il karate. È uno sconfitto dalla vita, i suoi ultimi giorni di gloria sono svaniti prima della fine del liceo, non riesce nemmeno a litigare decentemente con il commesso ispanico di un minimarket.
Non gli resta più nulla se non l’amata auto e la riserva di birra.

Almeno fino a quando non conosce Miguel, adolescente sfigatissimo e gracilino incapace direagire ad alcuna provocazione. Uno dei deboli – la categoria di persone che Johnny aveva imparato a disprezzare e a cui si rifiuta di riconoscere la propria appartenenza. Per farla breve, dopo una rissa con dei bulli in cui Johnny salva Miguel, il nostro ex campione decide di riprendere in mano il proprio destino e di riaprire il dojo che frequentava nei bei tempi andati. Il Cobra Kai, appunto.

E qui inizia la storia e iniziano i problemi. Soprattutto quelli con Danny LaRusso.

Il giovane allievo del maestro Miyagi è infatti l’opposto di Johhny: un venditore di auto di successo, con una bella famiglia e una bella casa, simpatico e amato da tutti e che non ha dimenticato gli insegnamenti del karate.

Una contrapposizione facile?

Sì, e funziona: Cobra Kai segue tutte le regole della cinematografia anni ’80 nella costruzione della storia. Ci sono le botte, gli allenamenti, il glam metal che fa da tappeto sonoro, il percorso di crescita e di ascesa, il rapporto con il mentore. Insomma, c’è tutto quello che si potrebbe desiderare da un prodotto con “effetto nostalgia”, e anche di più, perché le relazioni coi mentori – con le figure paterne naturali o metaforiche – sono la colonna portante della serie. Che influenza ha il mentore sulla crescita dell’eroe e sul suo sviluppo psicologico? È possibile emanciparsi, trovando la propria strada e abbandonando i vecchi insegnamenti? Fin dove si può spingere il rapporto tra maestro e discepolo? Quale peso ha la fiducia?

Cobra Kai gioca dunque sulle contrapposizioni su molti livelli: non c’è solo il rapporto tra Johnny e Danny, ma anche quello tra Johnny e Miguel e quello tra Danny e Samantha – sua figlia. E poi c’è quello tra Johnny e Robby – suo figlio, con cui c’è più astio che altro e che per vendetta decide di diventare discepolo di Danny – e quello con John Kreese, il cattivissimo e malvagissimo fondatore dell’originale dojo Cobra Kai.

E tutti questi rapporti e questi conflitti tendono verso un unico punto finale: il torneo di karate dell’All Valley, oggi come trentaquattro anni fa, con la storia destinata a ripetersi. Perché un’altra contrapposizione nella serie è quella tra passato e presente, con un protagonista che fatica ad adeguarsi, che non capisce come il mondo sia diventato quello che è: inclusione delle minoranze, superamento delle barriere di gender, adolescenti sempre più smidollati, musica moscia e… internet. Johnny è fossilizzato in un’epoca che non c’è più e ancorato al personaggio che era: il bullo che risolveva tutto direttamente e che prevaricava gli altri secondo la legge del più forte. O meglio, secondo la legge del Cobra Kai: Strike first, Strike hard, No mercy.
Johnny però è anche un personaggio che può cambiare, che vuole cambiare perché si rende conto che essere il tipo di persona che era non gli ha portato nulla di buono. Come dicevamo, è un fallito. Ma è americano e se c’è una cosa che le grandi narrazioni tipicamente americane insegnano è che ci si può sempre rialzare e che si può sempre migliorare.

Ma cambiare è difficile – per Johhny come per BoJack o per Hank Moody di Californication –: è difficile abbandonare chi si era e le ricadute e gli scivoloni indietro sono sempre in
agguato. Tornare a essere il bullo di sempre è una strada sempre allettante, anche quando si conoscono gli effetti.

Un’altra cosa che le grandi narrazioni tipicamente americane insegnano è che cambiare è difficile e che l’uomo preferisce mantenere lo status quo, anche se peggiore. Abbandonarlo è difficile, ed è il primo passo per diventare un eroe. Eppure, in Cobra Kai ci sono tanti cambiamenti, e tante evoluzioni: la serie infatti si basa sulla contrapposizione tipicamente anni ’80 tra bulli e nerd : ci sono tutti gli sfigati del liceo, gli esclusi, i reietti, i bullizzati che trovano nel karate la forza di ribellarsi e di alzare la testa rispondendo ai propri aguzzini.

Almeno fino a quando non diventano loro i nuovi bulli, e allora c’è da darsi una calmata e da ritrovare un po’ di umanità – ma qualcuno non ce la fa e gli schieramenti cambiano di nuovo, perché la via della violenza, la via del Cobra Kai, è tanto allettante quando quella di subire senza opporsi.

E quindi, se la prima stagione si focalizza di più sulla trama esterna, la seconda esplora ancora di più i legami e le relazioni tra i personaggi – soprattutto quando si parla di adolescenti, non può non venire in mente The OC – tra tira e molla, innamoramenti e litigi –, con la preoccupazione che con un cast di personaggi relativamente piccolo le relazioni si possano rimescolare fino a un certo punto.

L’ultima cosa che infatti insegnano le grandi narrazioni tipicamente americane – prometto che poi la smetto, anche perché il pezzo è praticamente finito – è che in una narrazione seriale i conflitti dei protagonisti si reiterano e non si risolvono mai (sto guardando di nuovo voi due, BoJack e Hank): quando si risolvono, la serie finisce perché la benzina narrativa è finita.

Rimane quindi una domanda: per quanto potrà continuare ancora Cobra Kai? Per quanto ancora riusciremo ad assistere a tentativi di cambiare e cambi di schieramento in quest’alternanza tra bulli e nerd che si spalma su tutti i livelli della società?
Non molto, probabilmente – anche considerando la tendenza di Netflix a chiudere presto le serie, di solito verso la terza stagione (già confermata per Cobra Kai) – ma nel frattempo è una settimana che ascolto glam metal e che medito se ricominciare a praticare arti marziali.

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