Charles Burns, nel Labirinto fumettistico del postmoderno
Charles Burns è uno degli autori che ha saputo esplorare il postmoderno fumettistico: e "Labirinti" è una chiave importante del suo lavoro.
Charles Burns, classe 1955, è uno dei maggiori fumettisti statunitensi emersi dal fumetto indipendente degli anni ’80, a partire dalla sua collaborazione con il RAW di Art Spiegelman e Francoise Mouly che ha costituito probabilmente il fulcro di quella scena di vitale rinnovamento dei comics a partire dall’underground. Con l’Italia, Burns ha un rapporto specifico, avendo collaborato al progetto Valvoline, che nello stesso periodo ha formato una simile, parallela avanguardia italiana, con Igort, Carpinteri, Jori ed altri, determinante anche qui da noi nella nuova concezione dell’arte del fumetto.
I progetti degli anni ’90 e 2000, come “Black Hole” (1993-2004), “X’ed Out” e altri sono stati determinanti nell’imporre nell’immaginario fumettistico il particolare approccio di Burns, giocato su un uso potremmo dire post-moderno di un segno e di situazioni volutamente retrò, che rimandano a certa fantascienza anni ’50, fumettistica e filmica.
“Labirinti”, di cui esce in questi giorni la seconda parte per Coconino, è quindi naturalmente un esempio molto interessante della poetica dell’autore, in quanto questi temi vi sono centrali.
Inoltre, mai come in questo caso, forse, è programmatica la natura postmoderna dell’opera fin dal titolo, “Labirinti” (titolo che, in modo significativo, non ha un particolare rimando ai contenuti del fumetto, dove non c’è un labirinto concreto: ed ha quindi più forza come rimando simbolico). Il Labirinto, infatti, è un simbolo particolarmente caro alla letteratura postmoderna, come teorizzato da Italo Calvino.
E se in molti testi-simbolo del postmoderno letterario c’è un reale labirinto (dalla "Biblioteca di Babele" di Borges al "Nome della Rosa" di Umberto Eco), spesso questo nasce da una storia particolarmente intricata, ricca di svolte, luoghi, personaggi, periodi storici: dall’"Incanto del Lotto 49" di Thomas Pynchon al Pendolo di Foucault del medesimo Eco, passando per "Se una notte d’inverno" un viaggiatore di Calvino (a margine, di recente liberamente adattato anche in un videogame).
Ma a volte - come qui in Burns - il labirinto postmoderno può nascere dalle stratificazioni di rimandi e di piani di letture che si intersecano in un fumetto, in questo caso, dalle dimensioni di romanzo breve a fumetti.
Il protagonista, Brian, introverso e problematico nelle relazioni sociali, divide il suo interesse tra il cinema e il disegno, sempre a tema orrorifico: due modi in cui trasporre le fantasie e i sogni che lo turbano. Appare interessante da un lato il riferimento implicito al fumetto (che numerosi hanno visto come “cinema disegnato”, a partire da Hugo Pratt: definizione volutamente imprecisa, ma suggestiva), dall’altro che i due elementi che compongono il testo fumettistico, il disegno e la sequenzialità “cinematografica”, siano scissi in due.
A un party di proiezioni amatoriali dell’amico Jimmy, co-creatore dei loro cortometraggi horror (è, dei due, quello che materialmente impugna la videocamera, mentre Brian è confinato come sempre, anche nelle sue passioni, in un ruolo più passivo), incontra Laurie, la protagonista del prossimo film. Inizia tra i due una strana tensione erotica, al tempo stesso stimolata e frenata dai rispettivi tarli interiori (più evidenti e patologici quelli di Brian, ma anche Laurie è trattenuta da un certo disagio con cui vive ogni situazione).
L’abilità di Burns come narratore sta nello strutturare questa situazione, in sé estremamente generica ai limiti del potenzialmente banale, giocando raffinatamente sui non detti e sull’uso sapiente dello specifico fumettistico, che crea tavole che vanno osservate e assaporate con cura, ritornandovi più volte e confrontandole con le altre dell’intero ciclo.
Nella prima tavola del primo volume, ad esempio, abbiamo tre vignette lunghe sovrapposte fra loro (vedi immagine sopra). Nella prima incontriamo Brian, colto nel farsi un autoritratto inquietante in forma di spora aliena: benché rappresentazione simbolica e astratta, nel realizzarla Brian – che vediamo in una rappresentazione “neutra”, frontale, nella seconda vignetta - si specchia ossessivamente in un tostapane metallico lievemente bombato, che ci restituisce nella terza un suo ritratto (realizzato da Burns, non da Brian) che ricorda quelli dal Rinascimento a Escher.
Una triplicazione inquietante dello sguardo sul protagonista: ma l’autoritratto alieno tornerà più avanti, ad esempio all’inizio del secondo volume, nei sogni e nei cortometraggi che Brian ha frattanto realizzato. Leggerli consapevoli che questo simbolo (non immediatamente perspicuo) del protagonista è una sua proiezione porta a cogliere meglio diverse sfumature delle sue fantasie, sia quelle più pure del sogno, sia quelle mediate dei suoi film. Anche se, naturalmente, restano elementi volutamente ambigui, che impediscono una soluzione chiarificante definitiva: ma, piuttosto, un costante invito a scavare più a fondo, alla ricerca di ulteriori sfumature di senso.
Un elemento fondamentale nell’efficacia di questo pervasivo, disturbante surrealismo di Burns è la specificità del suo segno. Da un lato, il disegno richiama molti stilemi del fumetto anni ’50, che come certo B-Movie citati (come detto, non solo qui) ha situazioni volutamente scabrose, surreali, “di cattivo gusto”. Burns applica però a questo segno un lavoro che, per certi versi, è in continuità col detournement operato da Roy Lichtenstein agli albori della pop art, nei primi anni ’60. Lichtenstein, come noto, riprendeva singole vignette, le isolava dal contesto e, trasponendole su tela con un segno più accurato rispetto a quello spesso sbrigativo dei fumetti di partenza, ne cambiava la valenza agli occhi dello spettatore, chiamato a cogliere una sorta di dissonanza tra un elemento “basso” (il fumetto, inteso all’epoca come consumo “low-brow”, di scarsa qualità) e l’arte come contesto “alto”.
Se da un lato quella della pop art voleva porsi come critica anche feroce alla cultura pop, il mondo del fumetto è stato comunque attratto da questa operazione (sia per farla in qualche modo propria, come legittimazione, sia – cogliendole la critica anche sprezzante – per ribattervi). Burns ha in realtà un segno ancor più rileccato, elegante, quasi paranoide nella cura del dettaglio e, soprattutto delle texture. Ma soprattutto la figura di Laurie non può non rievocare quelle figure femminili, specie nel suo ironico mettersi in posa da star alla sua prima apparizione.
Altro espediente non nuovo, ma usato magistralmente, è quello della vignetta come schermo vuoi cinematografico, vuoi televisivo: i bordi smussati, il formato rettangolare, il bianco e nero o i colori slavati tipici di un filmato amatoriale segnano gli inserti dei film proiettati, sia B-Movie celebri, sia quelli realizzati dai protagonisti. Su tutti, spicca “L’invasione degli ultracorpi” (1956) di Don Siegel, che caratterizza la sequenza finale del primo volume, con l’appuntamento con Laurie, e che rimane rilevante, con numerose citazioni esplicite e implicite dei baccelloni, nel secondo volume, in cui si inizia effettivamente a lavorare al film. Un richiamo, quello del baccello gigante, che assume una doppia valenza simbolica: da un lato, quella erotica, nella tensione irrisolta con Laurie (del resto, il baccello è, già nell'originale, un seme alieno). Dall'altro, rappresenta la "chiusura" del protagonista, anche quando appare in forma indiretta, ad esempio nel suo rinchiudersi nel suo sacco a pelo.
Spesso però questa scissione si interrompe, come nel secondo volume, dove il filmino proiettato nella disastrosa serata a casa di Brian, inizialmente rappresentato con l’espediente della vignetta-schermo, nel prosieguo dilaga in vignette normali, intersecate alla narrazione del presente di Brian senza distinzioni grafiche (anche se ovviamente ben distinte per la diversa luce nelle due scene). In modo analogo, la distanza tra filmato e reale si cancella nelle sequenze oniriche, ovviamente, ma anche in quelle in cui il film inizia a essere girato.
Il secondo volume, pur ancora vistosamente aperto a nuovi sequel, pone dei tasselli più precisi sul passato di Brian e il rapporto con la madre, che illuminano sulle difficoltà di relazione con Laurie e sull’insistenza di disturbanti simboli vaginali, quale diviene anche il ricorrente rimando agli ogivali baccelloni.
Nel complesso, dunque, un’opera complessa e raffinata, che mostra l’abilità di Burns come narratore e induce nel lettore una sottile inquietudine, rispecchiando almeno in parte le proprie ossessioni in quelle del protagonista.