Avatar: Frontiers of Pandora è l'essenza stessa dell'esplorazione
Un pianeta alieno da esplorare in un ambiente ricreato perfettamente? Questa è l'essenza degli open world secondo Avatar: Frontiers of Pandora
Ho sempre pensato che la meraviglia fosse l'ingrediente principale di un buon open world e, nello specifico, il fattore maggiore in grado di suscitare questo sentimento non è altro che l'ambiente stesso, la parte “world” che dovrebbe aprirsi agli occhi del giocatore. Quando si tratta di una nuova IP di certo è più facile: pensiamo a chi ha bei ricordi con Horizon Zero Dawn e la scoperta di quelle giungle meccaniche tra le rovine umane. Di base, per quanto guizzi creativi facciano parte dell'anima del gioco, la struttura di Zero Dawn non era certo la rivoluzione di Zelda Breath of the Wild, ma a molti andava bene così. Del resto c'era tanto da vedere, da osservare e scoprire in uno dei titoli che, all'epoca, era tra i più tecnicamente riusciti dei PlayStation Studios.
Insomma, perché non stiamo parlando come dovremmo di Avatar: Frontiers of Pandora? Me lo sono chiesto da quando ci ho messo mano, soprattutto leggendo opinioni di colleghi e giocatori che avevano provato il titolo e ne avevano visto la più grande qualità: creare un pianeta magnifico, ricco e assolutamente vicino all'opera cinematografica, anzi oserei dire che ne è la più rispettosa e arricchente espansione. La sequenza iniziale che mi ha costretto a passare per un grigio tunnel la cui uscita si apriva su panorama floreale dalle leggi impossibili è un momento che mi ha regalato un'emozione sincera, la stessa che un po' ho provato quando sul primo Destiny si abbandona il Cosmodromo per osservare il Viaggiatore. E Avatar: Frontiers of Pandora non lesina su momenti dal forte impatto emozionale, ce ne sono tanti e ben collegati al cuore pulsante della filosofia di Cameron per Avatar.
Utilizzare i canoni a favore
A sentire però chi non l'ha apprezzato uno dei punti di maggiore disdegno è il fatto di essere di fronte a un clone di Far Cry: critica che in molti sensi trova fondamento, ma è davvero una colpa così peccaminosa? A mio giudizio, per vedere qualche innovazione significativa nell'open world bisognerà aspettare molto molto tempo se nel nostro passato ci sono Elden Ring, Death Stranding (e sappiamo come la anti-tradizionalità è stata accolta) e Zelda. Non tutto però deve necessariamente cambiare il paradigma, così come i picchiaduro seguono gli stessi schemi da decenni anche Avatar: Frontiers of Pandora si affida a uno scheletro solido per costruire i suoi elementi più necessari, modificandoli di quando in quando per adattarli alle unicità di Pandora.
Ad esempio, cavalcare un Ikran nel titolo di Ubisoft non è solo prendere un “mezzo di trasporto”, si avverte invece il legame naturale che vincola i Na'Vi con queste creature alate e gli altri esseri con cui è possibile connettersi. L'ecosistema che li guida, i primi approcci per la fiducia reciproca e le possibilità permesse da questa cavalcatura si evolvono nel corso del gioco in rafforzamento del rapporto con il giocatore, il quale ha il compito implicito di abbracciare l'eredità del suo luogo d'origine. All'inizio è difficile notare tutti questi elementi e chi investe poche ore nel mondo di Avatar: Frontiers of Pandora si ritroverà a vagare in una giungla fin troppo fitta, per quanto mai ripetitiva nei suoi ambienti. E qui la caccia e la raccolta la fanno da elemento portante per le nostre esplorazioni, sebbene il titolo di Ubisoft si impegni a declinare tali azioni “classiche” in rivisitazioni particolari.
Da neofiti esploratori quali siamo, nonostante la stazza più grande dell'umano, i primi passi sono dedicati alla comprensione e all'adattamento. Il gioco vi permette di ottenere delle piante attraverso un’animazione di vera raccolta e il cui successo/qualità dipenderà dal vostro sapere “cogliere” dal verso giusto e con la giusta potenza il frutto scelto. Se all'inizio ci sarà un tutorial a schermo a guidarvi, più andrete avanti più questo sparirà e vi ritroverete ad affidarvi alla vostra memoria e a ciò che avete imparato. Ad esempio, adesso riconosco tante piante in giro per la mappa e se nelle 10 ore iniziali mi sembravano tutte aliene o carini elementi di sfondo, adesso so che proprietà hanno, come coglierle senza far casino e addirittura usarne alcune contro dei nemici o le prede della caccia. L'altro lato della medaglia di Avatar: Frontiers of Pandora è che questa voglia di affidarsi alla mia comprensione possa eccedere un po' troppo, come quando la navigazione verso le missioni è totalmente fuori fuoco e affidata a un lontano segnale da seguire, imparando a scandagliare l'ambiente per vedere il percorso migliore.
All'inizio mi sentivo in difficoltà e anche frustrato, vero. Un po' come con Aloy passavo del tempo a osservare le macchine in giro per la mappa prima di capire come funzionavano con esattezza, senza soffrirne sotto i colpi. In Avatar, per le prime battute, il nemico è soprattutto il pianeta stesso (oltre la minaccia umana turbocapitalista) poiché nasciamo come entità strappate da esso nonostante siano cresciute nel suo grembo. C'è una sorta di rigetto di fondo, lo stesso che il protagonista del primo film ha provato quando sentiva il bisogno di unirsi di più al pianeta, nonostante provenisse dalla Terra. Metaforicamente questo conflitto il gioco lo risolve donandovi conoscenza, chiedendovi di osservare tutto con “L’occhio di Pandora” per scoprire descrizioni, caratteristiche e abilità utili alla sopravvivenza; caratteristiche che passano principalmente nella vostra conoscenza del mondo di gioco e di quanto vi sentiate in sintonia con esso.
Possibilità di scelta
Ludicamente, dall'altro lato, molti dei conflitti si risolvono potenziandosi attraverso classici punti di rilievo sulla mappa, tra abilità e oggetti definiti da livelli di statistica ormai tanto cari. Se dovessi essere sincero trovo queste caratteristiche, per quanto utili a incentivare il tempo in-game, lontane dalle scelte che avrebbero aiutato il gioco a sentirsi più vicino alla crescita naturale nella vera definizione della parola. O almeno le avrei messe opzionali, come la possibilità di disattivare numerosi indicatori per far sì che siano le descrizioni dei personaggi e la vostra capacità di osservazione a guidarvi (lo consiglio, ovviamente).
Insomma, la paura di osare troppo è palpabile e non credo che – come in tanti casi – sia una decisione che il team di sviluppo può controllare senza essere incatenato alla commerciabilità di certe soluzioni (a meno che non sei Kojima, tutt'altro che indipendente). Dietro Avatar: Frontiers of Pandora però c'è Massive, uno studio che io ho sempre apprezzato per una ragione molto semplice e in linea con questo pezzo: la capacità di creare mondi dettagliati e vivi, in cui ogni angolo racconta una storia e ha tanto da dire.
Esempi della loro bravura sono le terre post-apocalittiche (o quasi) di The Division 1 e 2. Vi sfido a tornare nella New York innevata e non trovare qualcosa di interessante in ogni angolo di strada, a vedere NPC che hanno una vita tra le strade in cerca di risorse preziose o prede da uccidere, così come quelli che invece ancora si rifugiano in casa e vi esortano dal balcone di casa, o anche quelli che ormai non ci sono più e i cui echi rimangono tra le tracce di una città fuggita da un disastro. Non ero sicuro che riuscissero a ripetere la magia con Avatar ma, seppur con qualche inciampo dovuto a un mondo più ampio e stilisticamente diverso, sono contento che ci siano riusciti, forse più sul lato ambientale che su quello legato agli NPC.
Certo le tribù e gli avamposti sono pieni di situazioni da osservare, posto che ci si prenda il tempo di farlo tra una missione e l'altra, ma è evidente che la vastità orizzontale e verticale di Pandora li rendano sporadici. Ogni zona però, esattamente come New York, ha una sua identità precisa e riconoscibile. Le zone parlano della storia delle tribù che le abitano, delle loro abitudini e del perché gli stili di vita delle fazioni Na'Vi si siano adattati a determinati biomi. Allo stesso tempo c'è la devastazione che solo gli umani possono portare, diffusa attraverso un morbo grigio che spezza la natura e fa dell'acciaio un vessillo riconoscibile, quasi infuriante per quanto ostentato. A tal proposito, concedetemi di essere un po' deluso dalla necessità di arrivare ad usare i loro fucili per andare avanti, anche se ormai ne ho fatto una scelta etica e rimango solo con le armi Na'Vi. Ecco, questo è un classico elemento messo lì per la ludicità delle masse, non certo per un'idea di design.
Tutto questo, così come ogni lato peggiore o banale che vi possa arrivare alla mente dalla vostra prova, passa in secondo piano rispetto alla bellezza di Pandora e la comunione con il pianeta che il gioco di Avatar riesce a suscitare con i suoi ambienti e le scelte più oculate. Passare dalle vaste pianure sospese in cielo fatte di cascate alle fitte giungle ricche di vita senza avvertire “artificialità” nel tragitto è qualcosa di stupefacente, specie per quanto intimamente riesce a colpire. Digital Foundry ha definito Avatar: Frontiers of Pandora come il gioco tecnicamente migliore del 2023 e vi basta qualche minuto per rendervene conto. Ed è attraverso questi ambienti così ben realizzati che l'open world realizza il suo vero scopo d'esistenza: il turismo.
Che sia Horizon Zero Dawn o Elden Ring, ciò che ci guida è “scoprire cosa ci sia per di là” o “che storia ha quel monumento o castello?”. La storia è importante, alle volte più o meno coinvolgente, ma lo è ancora di più essere invogliati a restare ancora qualche ora per vedere dove conduce quel sentiero che abbiamo appenato notato tra i rami, lontano dagli indicatori di missioni. Avatar è l'apoteosi di questa concezione, un sogno ad occhi aperti per i fan del franchise di Avatar (canonico oltretutto, essendo ambientato nel mezzo di la Via dell'Acqua) e per chiunque sia alla ricerca di titoli del genere non per vivere le gesta di un eroe, piuttosto quelle di un esploratore: un pioniere tra tanti i cui occhi sono i soli, attraverso lo schermo, a scoprire cose che prima non conosceva.