Another World e il fascino dell'ignoto
Un mondo alieno, un uomo solo, una storia affascinante che è ancora una bellissima lezione di narrativa, nonostante sia un videogioco del 1991
Ricordo esattamente cosa ho fatto la prima volta che ho terminato Another World dopo vari tentativi, morti dolorose ed esperimenti: l’ho ricominciato subito per cercare di finirlo senza morire mai e tornare là, sul quel pianeta alieno, con quel misterioso amico, ancora in fuga, verso non si sa dove.
Another World è un gioco per Amiga del 1991 e l’opera più importante di Eric Chahi, che sviluppo il gioco facendo quasi tutto da solo per mantenere il pieno controllo autoriale del prodotto dalla prima all’ultima riga di codice.
La storia di uno scienziato che dopo il più classico degli incidenti andati male si ritrova in un mondo alieno senza alcuna conoscenza della lingua e soprattutto dentro una piscina in cui rischia di morire annegato o trascinato via da alcuni inquietanti tentacoli neri. Da qua in poi inizia un’avventura che per gli standard di oggi potrebbe essere considerata abbastanza impegnativa, ma in parte mitigata dalle vite infinite e dall’offrire al giocatore alcuni indizi su come sopravvivere. Insomma, non è il classico giochino che ti prende per mano, ma neppure quello che ti strappa il braccio e lo usa per picchiarli, diciamo che ti dà una stretta di mano decisa, al limite della frattura, per capire di che pasta sei fatto.
Ogni scena, ogni combattimento e ogni rompicapo è strutturato in due fasi: capire cosa Chahi vuole da noi e quindi eseguirlo con estrema precisione.
Il gioco, che all'epoca fu qualcosa di incredibile nonostante l'affollatissimo panorama dell'Amiga, esce in questi giorni su Switch e ovviamente i suoi quasi trent’anni si sentono tutti, ma resta comunque uno dei primi e più importanti esempi di narrativa videoludica. Intanto per lo stile visivo, tutto giocato su colori piatti, quasi nessuna sfumatura, ispirandosi in maniera neanche troppo velata al fumetto francese, ma anche alla versione per Amiga di Dragon’s Lair, a Dune e alle illustrazioni di Michael Whelan.
Una scelta che rende il titolo attualissimo e affascinante ancora oggi, forse anche per le animazioni fluide e precise, soprattutto nelle scene di intermezzo. Questo al perfezionamento di una tecnica chiamata rotoscoping, una sorta di motion capture ante litteram che prevedeva di filmare alcuni movimenti per poi digitalizzare il tutto.
Chahi fece tutto questo da solo, ci mise circa due anni e la storia del gioco, sviluppata in maniera lineare di pari passo col codice, riflette in parte i sentimenti provati durante lo sviluppo. La prima parte, quella in cui il giocatore è solo costantemente in pericolo, riflette l’isolamento che l’autore provava nei primi mesi, quando il progetto era agli inizi e ancora tutto da definire. La fine invece, in cui il protagonista striscia ormai privo di forze, è l’evidente metafora di come si sentisse al termine dei due anni.
Perché sviluppare da solo? Perché la cosa più importante per Chahi era avere l’ultima parola su tutto. Quando Interplay chiese di cambiare la musica iniziale prima di pubblicare il gioco negli Stati Uniti lui rispose con un fax lunghissimo che conteneva una sola frase ripetuta all’infinito: “Keep the original intro music”. Alla fine la spuntò lui, anche perché Delphine Software, il publisher francese, dimostrò che Interplay non poteva accampare alcun diritto di modifica.
Ciò che ancora oggi è rimasto intatto di Another World è il suo essere uno dei primi giochi a saper coniugare un occhio cinematografico e consapevole con delle meccaniche di gioco che si inseriscano in questa narrativa senza stravolgerla troppo. Inquadrature, panoramiche, senza trasformarci in trenta secondi in un action hero ma facendoci procedere per gradi. Col passare del tempo il gioco vira più verso una componente di azione a discapito della narrativa ma ricordandosi sempre di variare il ritmo con momenti incredibilmente potenti e trasformandosi col tempo in una sorta di buddy movie fantascientifico in grado di farti legare con un alieno che non parla neppure la tua lingua.
Perché un altro motivo di grandezza per Another World è senza dubbio il suo lavoro in sottrazione dal punto di vista narrativo: non c’è un dialogo, non c’è una scritta, tutto è puro storytelling visuale fatto tutto di colonna sonora e atmosfera. Puro cinema d’azione in cui non ci sono spiegoni, non ci sono testi da saltare sbuffando o centinaia di scritte o collezionabili che ti raccontano il mondo di gioco. Sei uno straniero in terra straniera e tale rimarrai fino alla fine.
Another World era un gioco d’azione ma anche di scorci incredibili, ricordo come fosse ieri quello in cima alla torre, assolutamente accessorio, che ti mostrava questa incredibile città di cui non avresti saputo nient’altro. Un momento narrativamente unico per un ragazzino, al pari di vedere la mappa di un mondo fantasy senza ancora conoscere le storie che la popolano.
Oppure la scena che forse è rimasta più viva nella mia mente: il momento in cui, dopo aver partecipato a dei giochi gladiatori a bordo di un carrarmato in cui bisognava solo premere tasti a caso, ti eiettavi in un modulo di salvataggio che finiva dentro una specie di harem, un gineceo termale in cui non avevi neanche il tempo di capire cosa fosse successo che già ti sparavano addosso.
Questi sprazzi di altrove mescolati con la filosofia “show don’t tell” di Chahi davano origine a suggestioni potentissime. Il fascino misterioso e imponderabile di questa assurda civiltà di alieni grigi, così distanti e così simili, forse ispirati a John Carter di Marte, ci accompagna per tutto il gioco, senza mai cedere alla facile lusinga di spiegarci qualcosa.
La bellezza del non sapere è forse il regalo più grande che Chahi fa al giocatore, un regalo che lo accompagna anche dopo il finale, quando i due amici si allontanano in groppa a una creatura alata, verso un fato che non conosciamo e a cui nessun seguito potrebbe mai rendere giustizia.
Another World è ancora oggi una lezione di game design sotto molti aspetti: lotta per la propria identità, cerca di evocare sensazioni, offre uno spazio per le abilità del giocatore, non cerca soluzioni facili, rende la scarsità di mezzi una risorsa e ti affascina senza darti tutto. Ha un solo grande difetto: come tutte le cose più belle è troppo breve.