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Abbiamo ancora bisogno del cinema di Richard Kelly?

C’è un buco nero in cui, spesso, finiscono personaggi un tempo assurti a celebrità. È un luogo che genera ribrezzo in chi vi posa, casualmente, l’occhio, è repellente, respingente. È oscuro e divora tutto ciò che vi orbita intorno, senza distinzioni.

Il cinema è l’arte dell’immagine e, si sa, si alimenta anche e soprattutto di dinamiche che allo spettatore sono sconosciute ma che sono ben chiare a chi si muove all’interno di quel contesto.

Hollywood in particolare vive di questa dualità: da una parte la dimensione scintillante del successo, che espone, fa esplodere la visibilità, fino a renderla unico motivo di interesse; dall’altra questo famigerato buco nero che è dove finiscono gli autori, gli attori, i registi che si sono trovati disallineati rispetto al sistema. C’è chi fugge da tutto questo (Barrett Oliver ne è un esempio lampante), chi sprofonda e riesce a uscirne (Shyamalan) e chi, come Richard Kelly, ne rimane impigliato, bloccato in una melma oscura che, alla fine, porta all’oblio. A mio parere quel buco nero è intriso di vitalità perché nasconde sorprese che ci costringono a riflettere in maniera anomala e trasversale sul sistema cinema e hollywoodiano in particolare.

Chi è Richard Kelly?

Qualche tempo fa, il suo film d’esordio ha vissuto una rinascita dal potere esaltante. Donnie Darko, storia di un ragazzo negli anni Ottanta che, spinto da un coniglio, deve contribuire alla “fine del mondo”, fece il suo esordio nel 2001 in occasione del Sundance Film Festival con un buon riscontro critico.

La distribuzione ufficiale avvenne però nell’ottobre dello stesso anno: prima, cruciale sfiga. Giusto un mese prima le Torri gemelle sono crollate a causa di due aerei dirottati, spappolando l’immaginario collettivo, scioccando il mondo intero e, di fatto, aprendo una nuova (terribile) stagione geopolitica. Forse siete troppo giovani per saperlo, forse troppo ingenui, ma dovete sapere che la censura americana all’indomani dell’11 settembre fu inclemente: intere sequenze o addirittura produzioni furono bloccate o tagliate perché contenevano vaghissimi riferimenti all’attacco (e bastava la presenza di un aereo). All’epoca stava per uscire Spiderman di Sam Raimi, che conteneva una sequenza con le Torri gemelle, vista di sfuggita in un teaser: eliminata, kaput. In Donnie Darko c’è un pezzo di aereo che crolla sulla casa del protagonista, immaginatevi l’accoglienza del sistema hollywoodiano: poco più di 500 mila dollari di incasso. Un disastro.

E così il povero Richard Kelly si ritrova già messo da parte al suo esordio, catalogato ed espulso, praticamente manco aveva cominciato che era già stato fatto fuori. Ma le vie della Settima Arte sono infinite e così, nel 2004, complice la sua partecipazione alla 61ma Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia e a una ridistribuzione della versione director’s cut in suolo statunitense, Donnie Darko divenne in breve tempo un cult movie, il film che tutti dovevano aver visto. Con tutte le esagerazioni del caso: famosa la definizione (non si sa di chi) che lo posizionava tra i migliori cento film della storia del cinema.

Dalle stalle alle stelle senza una reale via di mezzo. Ma proviamo ad analizzarlo per quello che è, lasciando perdere il tragico debutto e le urla di giubilo in occasione della sua rinascita, Donnie Darko è un ottimo film per una serie di motivi. Perché ragiona in termini esistenziali inserendo nella sua narrazioni coordinate che ora sono celebrate (vedi Stranger Things). Perché ha un cast incredibile in cui spicca il giovane Gyllenhaal, uno strepitoso Patrick Swayze, una delicata Mary McDonnel, un eccezionale Holmes Osborne.

Perché ha una sottotraccia che riflette sulle condizioni storico-politiche degli Stati Uniti di inizio millennio scavando su un passato non troppo recente (e infatti lo scontro elettorale Dukakis-Bush attraversa l’intero film). Perché ha una colonna sonora da urlo. Perché gli anni Ottanta non solo solo motivo di nostalgia ma di critica a un sistema di appariscenza spietato che è alla base del successo o dell’insuccesso degli individui. Donnie (SPOILER!) compie tutta una serie di gesti atti a destabilizzare un sistema malato. Ma questo implica la perdita delle persone a lui care e così, per amor loro, si sacrifica. E il mondo torna a essere quel luogo impietoso che è, mentre Bush vince le elezioni preparandosi alla prima guerra del Golfo.

Insomma, Donnie Darko è celebrato ovunque e Richard Kelly è pronto per essere lanciato nell’Olimpo degli dei del cinema. Può fare qualunque cosa, riceve proposte a destra e a manca e lui che fa?

Intanto scrive un film (bruttino) per Tony Scott, Domino (2005).

Poi si mette al lavoro per la tanto attesa seconda prova.

E arriva, il suo secondo film. Come una bomba in un negozio di antiquariato, fa esplodere tutto, disintegrando ciò che, immobile, sta lì, in attesa di non si sa cosa.

Southland Tales (2006) è un film schizofrenico, imperfetto, sperimentale, folle.

È un’opera che vive delle sue incongruenze, che mescola David Lynch con Ridley Scott, Thomas Pynchon con Philip K. Dick, che fa di tutto per essere contro. Dentro ci sono Dwayne “The Rock” Johnson nella sua interpretazione più vera, Sean William Scott, Sarah Michelle Gellar, Justin Timberlake, cast stellare. E la storia è quella di… no, non ve la racconto. Non perché non voglia, ma perché è impossibile da riassumere.

Vi basti sapere che è ambientato nel 2008, quando gli USA sono in piena guerra mondiale mentre forze neo-marxiste rischiano di lacerare il Paese. E in questo folle vorticare, in questo mellifluo nonsense, Southland Tales diventa l’opera perfetta nella sua imperfezione. E a dirla tutta, nel suo alternare poesia con sarcasmo, fantascienza con musical, Southland Tales rivela un autore enorme, straordinario, coraggioso nel voler riflettere in maniera critica e astiosa il sistema socio-politico in cui vive, gli Stati Uniti che già erano al centro dell’attacco (velato) proposto in Donnie Darko.

E in questa sua presa di posizione così antisistemica ma così pro-cinema, Richard Kelly si è rovinato.

Southland Tales è, per Kelly, quello che Apocalypse Now è stato per Coppola, Il salario della paura (Sorcerer) per Friedkin, Fitzcarraldo per Herzog o più recentemente Lady in the Water per Shyamalan e The Fountain per Aronofsky. Tutti film oltre, fuori sistema, in cui l’autore sacrifica se stesso in nome dell’arte in cui crede, a prescindere dal risultato finale. In questa lotta impari tendenzialmente si perde e rialzarsi diventa difficile.

Shyamalan è dovuto passare per il purgatorio della mediocrità (L’ultimo dominatore dell’aria, After Earth) prima di tornare ai grandi fasti (The Visit, Split e Glass), grazie a produzioni più piccole e indipendenti. Aronofsky ha optato per un minimalismo esistenziale lontano dal virtuosismo sperimentale di Pi greco o di Requiem for a Dream, facendo un film à la Dardenne molto bello (The Wrestler).

Per Richard Kelly è stato ancora più difficile perché l’oggetto della critica erano gli USA, il sistema stesso. Southland Tales è un magnifico fallimento. Magnifico ma comunque fallimentare. Gli incassi a livello mondiale sono stati poco più di 374 mila dollari, non si conosce il bugdet esatto di produzione ma si stima sia stato di 15 milioni. Fate voi i calcoli.

Tornare a lavorare per Kelly è stato maledettamente difficile, ma ci è riuscito.

Nel 2009 esce il suo terzo film: The Box, tratto dal racconto Button, Button di Richard Matheson. Il film racconta di una coppia, nel 1976, che riceve una scatola con un bottone. Se schiacciano il bottone ricevono un milione di dollari ma una persona, nel mondo, morirà. Ventiquattro ore per decidere.

Il film è più posato rispetto a Southland Tales e tradisce ulteriormente l’amore di Kelly per il genere (non uno solo) e per David Lynch in particolare. A mio parere è un altro bellissimo tassello di una filmografia che vuole essere al tempo stesso cinema con sprazzi di visionarietà inaudita e riflessione lucida e intelligente sui controsensi della società capitalista statunitense. Kelly, quindi, continua un percorso autoriale personale e sentito, senza il timore di affrontare giudizi severi dal pubblico o dal botteghino.

Il cinema di Richard Kelly è un atto coraggioso che analizza trasversalmente e con una buona dose critica il sistema socio-politico degli Stati Uniti, attraverso un amore incondizionato per il mezzo. È cinema autoriale allo stato puro, che dialoga con il genere e che non intende lasciare narcotizzato lo spettatore.

Purtroppo il coraggio non basta.

Sono passati dieci anni da The Box e Richard Kelly non ha realizzato altro. Né in veste di regista, né in quella di sceneggiatore.

È stato letteralmente fatto fuori dal sistema.

In un momento in cui il cinema indipendente sta assumendo nuove forme di messa in scena, nuove vie produttive, grazie a case di produzioni come BlumHouse o la A24, la speranza è che Richard Kelly possa trovare un nuovo modo per continuare questa sua bellissima, spietata, imperfetta riflessione sul mondo, questo suo personale tributo al cinema.

Perché in fondo abbiamo bisogno dell’amore incondizionato di Kelly per la Settima Arte ma anche del suo coraggio suicida.

L’arte ha bisogno di questo coraggio e noi abbiamo bisogno del cinema di Richard Kelly.

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