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Non entrate in quella casa: Hill House e il manierismo kinghiano

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La serie horror di Netflix nasce da un libro amatissimo dal Re del Brivido, quanto resta di quel fascino nella trasposizione?

“The Haunting of Hill House” è una delle nuove, acclamate serie Netflix del momento. Ispirata molto liberamente a “L'incubo di Hill House” (1959), l’opera più famosa della scrittrice americana Shirley Jackson, che aveva visto anche due adattamenti filmici: uno, nel 1963, di poco successivo al romanzo e poco prima della morte dell’autrice, scomparsa nel 1965 a soli 48 anni, e uno più recente nel 1999. La serie – indubbiamente ben realizzata – ha beneficiato anche di un endorsement di livello come quello di Stephen King, che se ne è detto entusiasta, parlando di (quasi) “a work of genius”. Un entusiasmo che vale ancor di più se teniamo conto che King considera l’opera della Jackson tra le più riuscite opere della letteratura gotica americana, ed egli stesso aveva adattato il libro in una sua serie, nel 2002 col regista Craig Baxley, dal titolo “Rose Red”, che egli quindi implicitamente ammette superato da questa.

Non stupisce del resto il parere favorevole del re dell’horror anni ’80, in quanto per molti versi la serie riprende comunque diversi dei suoi stilemi: il bilanciamento tra minaccia sovrannaturale e tensione psicologica famigliare tra i protagonisti, in primis (elemento innovativo introdotto dalla serie tv: i personaggi, in parte corrispondenti, nel romanzo sono slegati da vincoli famigliari), ma anche una vicenda giocata sull’alternarsi dei due piani tra un “prima” (la famiglia Crane nel 1992, ancora felice, che entra nella casa) e un “dopo” (la famiglia Crain oggi, nel 2018, coi segni delle ferite dell’orrore della “Hell House”, e di due enormi perdite che l’hanno quasi distrutta). Insomma, l’entusiasmo di King, ad essere maliziosi, deriva anche dal fatto che la serie conferma una continuità tra la Jackson e lui a cui l’autore sembra tenere abbastanza (King tra l’altro inizia a scrivere nella decade immediatamente successiva alla morte dell’autrice: la costruzione di un canone è così perfetta).

Il regista, Mike Flanagan, è del resto un cultore di questo tipo di horror spettrale nella sua produzione, ed è proprio reduce da un adattamento filmico kinghiano, quello de “Il Gioco di Gerald” (2017), l’opera con cui, nel 1992, King avviava l’evoluzione verso un orrore più psicologico e adulto, dopo “Cose preziose” (1991), ottimo ma ancora pienamente incardinato al genere orrorifico sovrannaturale.

Un elemento che funziona nel rendere la serie inquietante è la sfasatura dei piani temporali che si attua a più livelli della narrazione. I vari periodi intrecciati – il passato della casa, di cui veniamo a sapere pochissimo, gli anni ’90, il presente – si amalgamano in un flusso fluido povero di riferimenti temporali precisi, che accentuano l’inquietudine suscitata dalle reciproche interferenze cronologiche causate dalle manifestazioni fantasmatiche.

Per quanto riguarda tali interferenze interne alla trama, il punto più efficace al proposito è, probabilmente, la cesura del quinto episodio, che si conclude con un efficace finale a sorpresa che viene ripreso, in modo però meno forte dal punto di vista dell'impatto (benché brillante nella costruzione), nel finale dell'intera stagione: un finale per contro un po’ troppo conciliatorio che, se da un lato appaga gli spettatori ormai affezionatisi ai personaggi, tradisce in buona parte lo spirito autentico del genere horror, che prescriverebbe una piena “Caduta della Casa Crain”. Per contro, da un punto di vista strettamente visivo l’incastro è perfetto: sia negli indizi sparsi nella trama sia a livello testuale sia, soprattutto, a livello visuale, nella simmetria centrale che poteva divenire un indizio del funzionamento della Red Room. Un – sottilissimo, e che per questo non rischia di sembrare troppo ambizioso – rimando all’estetica kubrickiana, che sulla Red Room e la sua importanza visuale ha giocato il suo “Shining” (1980), ripreso come arcinoto dall’omonimo romanzo su un hotel stregato di King, del 1977 (una dimora stregata che, tramite i suoi spettri, conduce alla distruzione un famiglia...).

Più sottile il viluppo di rimandi cronologici in cui intuiamo si cela più di un non-detto: la casa ha “un secolo”, ci racconta Steven, il figlio divenuto scrittore di storie di fantasmi (Steven/Stephen, rimando a King?). Ciò colloca la sua fondazione intorno al 1920, cosa che si sposa con la produzione di alcoolici durante il proibizionismo. Dato che ciò avviene tramite un sotterraneo nascosto omesso nei progetti originali, sono i due coniugi Hill ad aver previsto questo “peccato originale” nella costruzione della casa, probabilmente in particolare Poppy, che risulta quasi una personificazione – o più probabilmente una sorta di “araldo” – delle forze oscure catalizzate nella magione. Anche la disuguaglianza nella lunghezza dei vari episodi – una caratteristica della nuova serialità “on demand”, che non è più pensata per il letto di Procuste degli standard televisivi – contribuisce a questo senso di fluidità temporale.

Questa calcolata indeterminatezza, questo pervasivo senso di non-detto getta una luce livida anche sul finale troppo conciliatorio: i personaggi pensano di aver vinto sulla Casa, ma appare anche ampiamente possibile che la vera lettura sia che lei li abbia raggirati, ottenendo per intanto altri due sacrifici e la certezza di essere diventata intangibile agli occhi dei figli Crain proprio grazie a questi (esattamente come avvenuto nel passato).

Viene in mente, per certi versi, quanto scriveva Umberto Eco di “Sylvie” (1853) di Nerval, in "Sei passeggiate nei boschi narrativi" (1994), dimostrando come l’indeterminatezza temporale del racconto (prodotta dall’assenza di datazioni precise) creava anche un secondo livello di lettura una volta ottenuta, sul finale, una data precisa, che consentiva di ricostruire la cronologia degli eventi. La serie di Hill House, forse, non regge la stessa adamantina precisione una volta che andiamo a smontarne il meccanismo cronologico: ma usa l’espediente, in ogni caso, per produrre un diffuso senso di inquietudine in grado di coinvolgere anche lo spettatore smaliziato che sia disponibile ad abbandonarsi al più ancestrale dei piaceri: il piacere di avere paura.

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