STAI LEGGENDO : Final Fantasy Pixel Remastered – Un passo indietro, poi sempre avanti

Final Fantasy Pixel Remastered – Un passo indietro, poi sempre avanti

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Con l'arrivo della Pixel Remastered di Final Fantasy il momento è buono per riflettere sul passato della saga e sul presente delle operazioni di restauro dei videogiochi classici.

Le storie sono fatte per essere tramandate, i prodotti dell’ingegno umano vanno conservati. I videogiochi sono un mondo a metà, estremamente dipendenti dal modo in cui si guarda loro. Alcune storie sono veramente meritevoli di essere ricordate al di là del supporto sul quale sono scritte, altre sono invece imprescindibili da questo, e come tali meritano attenzione e ragionamenti speciali.

Le amate/odiate remastered sono state per anni al centro del dibattito della comunità videoludica che si è grossomodo disposta equamente tra chi le appoggia come uno strumento (commerciale) utile per tramandare il ricordo di esperienze vissute, o raccontate da altri e mai vissute in prima persona per questioni anagrafiche o economiche, e chi le detesta, in quanto strumento imperfetto, che adultera invece di perpetrare, l’idea che i giocatori hanno di un titolo.

Square Enix non è nuova a queste operazioni di – chiamiamola – perpetrazione videoludica; escono versioni dei primi Final Fantasy da quando ho memoria, su Gameboy Advance, all’epoca li definii perfetti, comodamente in italiano. Su PSP, smarmellatissimi e quasi abbaglianti, primi esperimenti di tradimento della filologia, con quel Final Fantasy III in tre dimensioni, con la splendida sintesi grafica che caratterizza lo stile di Final Fantasy Tactics (o War of the Lions se l’avete giocato su PSP), Tactics Advance e che poi ricorderemo per Bravely Default, molto dopo: la solita maschera gentile e naif per nascondere una sconfinata serie di meccaniche ludiche che forgiarono quello che, ancora oggi, è considerato uno dei migliori JRPG Tattici della storia di questo sottogenere.

Nella memoria più recente e alla portata di tutte le console contemporanee sono disponibili praticamente tutti i capitoli dell’ “era 3D”, in versioni rimasterizzate con più o meno aggiustamenti per renderle fruibili ad un pubblico contemporaneo, perché una cosa che i ricordi annacquano è l’asperità di questi titoli. Erano durissimi, fortemente improntati sul “grinding” e con un loop di gioco che ogni due per tre passi ti metteva davanti ad uno scontro casuale, solitamente anche molto aggressivo e senza possibilità di scorciatoie per spingere il turno, come spesso capita invece nelle incarnazioni più recenti del genere. Inoltre, il meccanismo di ricompensa era poco fruttifero, con una spesa di energie tale da rendere ogni “incontro” poco bilanciato dal punto di vista dei costi/benefici. Affrontarli con strategia conservative non aveva molto senso. I soldi duramente guadagnati andavano spesi per armi migliori, protezioni migliori e incantesimi migliori, per fare altri soldi da investire in pozioni e cure. Un personaggio del party veniva tirato giù dagli assalti combinati di un gruppo di goblin particolarmente aggressivi? Nessun problema: sborsa una ingente quantità di denaro per riportarlo in vita. Giocarci in purezza, almeno per me, è una faticaccia che consiglio a tutti almeno una volta nella vita, in emulazione avrei detto un po’ di tempo fa, ma tutto ciò è stato abbondantemente superato, con l’uscita della Pixel Remastered.

La Pixel Remastered soddisfa il bisogno naturale che, appunto, hanno tutte le storie di essere raccontate. Ha una funzione puramente divulgativa e, a mio avviso, arriva anche nel momento storico giusto, forte di un rinnovato interesse per la saga, uscita rafforzata dallo smodato favore di pubblico riscosso dall’operazione Final Fantasy VII Remake, con una piacevolissima dose di fregola per l’imminente Final Fantasy XVI e con alcune saghe “vassalle” che hanno fatto dell’esperienza estetica retro il loro punto di forza. Mi riferisco agli esperimenti che proliferano sia in casa Square Enix che fuori, come la nascente serie Octopath Traveler o a Triangle Strategy, ma anche The Diofield Chronicles che propone un’esperienza tattica diversa o la stessa recente remastered di Live A Live, altro titolo epoca Super Nintendo che pensavamo di aver perso nelle nebbie del tempo per sempre.

Non sono un grande fan delle etichette, ma capisco che nella comunicazione a volte siano essenziali per tracciare un paragone analogico con qualcosa che già conosciamo. I nuovi giochi che ammiccano al passato sono chiare operazioni di stampo neoclassico, che raramente smontano davvero il gioco riflettendo sugli elementi fondanti del genere per originare un prodotto posmoderno e per certi versi era postmoderno già Chrono Trigger indipendentemente dalla sua data di uscita che, se stessimo a guardare solo ai numeri, lo posizionerebbe nell’epoca classica del gioco di ruolo alla giapponese.

La Pixel Remastered è in senso stretto un’operazione di restauro mimetico delle opere originali, e questo spiega anche l’atteggiamento legittimamente ambivalente nei confronti dell’operazione dei veri retrogiocatori, quelli che hanno un tubo catodico collegato ad un MiSTer FPGA, quando non davvero real hardware con cartucce originali recuperate sul mercato dell’usato, per i quali la passione per la ricerca fa parte dell’esperienza stessa del gioco. Questa è vera conservazione mentre reputo le remastered un’operazione più divulgativa, "i primi Final Fantasy erano grossomodo così".

Quando gli occidentali operano su di un manufatto storico ci sono due tipi di approccio possibile, il primo è, appunto, il restauro mimetico, quello del “come era/dove era, assorbire il danno e nascondere l’intervento è una via, ma per quanto riguarda il mio gusto, povera e limitante nell’intervento che dà spesso origine al fenomeno dei falsi storici. L’altra via di intervento è il restauro critico (corrente appoggiata, tra gli altri, da Roberto Pane e Cesare Brandi), che sceglie di evidenziare l'intervento con una serie di accorgimenti materici inequivocabili e creare una stratificazione leggibile dell’opera. Per gli asiatici tutta la parte “critica” del restauro non esiste. Loro preservano “la forma”. Ma per certi versi, nemmeno hanno il nostro stesso concetto di conservazione se pensiamo a quella storia del villaggio tradizionale con i tetti ancora fatti come nell’epoca sengoku perché, in effetti, quei tetti vengono sostituiti e rifatti uguali ogni anno. E così nel tempio del Fushimi Inari i torii rossi vengono sostituiti e rifatti uguali ogni volta che ce n’è bisogno e il castello di Osaka visto da lontano sembra perfetto ma quando ti avvicini vedi la plastica sagomata non troppo dissimile da quella del castello di Disneyland.

Perché per loro preservare la forma è conservare e il materiale di cui è fatto poco importa, collegato comunque anche ad una certa fiducia nella ciclicità della vita. Noi invece amiamo le nostre pietre. È il paradosso della Nave di Teseo a cui rispondiamo in modo diverso a seconda della nostra cultura, o sensibilità.

La Pixel Remasterd sposa esattamente questo tipo di ragionamenti riproponendo i giochi classici della serie Final Fantasy come l’emulazione non potrebbe mai farli apparire e, ancora di più del remake del VII e le remastered dei titoli dell’era 3D, li avvicina alla purezza dell’idea che vive nella mente di chi li ha giocati. I pixel non sono stretchati, l’immagine non è spalmata su una superficie troppo grande che ne deforma i tratti e il ricordo, sono "restaurati in maniera mimetica" per fingere di essere quanto più originali possibili sotto il profilo estetico, con in più tutta una serie di opzioni per scalare l’esperienza di gioco e venire incontro al giocatore contemporaneo, moltiplicando l’oro e l’esperienza ottenuta dagli scontri casuali, oppure disattivarli del tutto, scegliere tra due tipi di font o accendere e spegnere le scanline per impastare o meno l’immagine per ammiccare al vecchio hardware, oppure scegliere tra una versione classica o riarrangiata delle musiche.

La Pixel Remasterd quindi si arricchisce di un valore antologico, più che filologico, ma che al di là delle modifiche permette di assaporare il crescendo di complessità e l’evoluzione della serie che dagli albori mosse i primi passi fino a raggiungere il sesto capitolo, considerato uno dei massimi esponenti del genere, da un’idea minima, essenziale, debitrice tanto al mondo dei giochi di ruolo cartacei che di Ultima e che via via inizia ad inglobare elementi della cultura giapponese coeva moltiplicando i riferimenti e, all’interno della costruzione del suo monomito, concludersi sempre verso l’inevitabile “scontro contro Dio”.

Per me una collezione imprescindibile, che ho passato molte delle ore spese a videogiocare a recuperare scientificamente i capitoli rimasterizzati su PS4 (VII e IX) e che ancora guarda un po’ male la pesante assenza di una riedizione all-in-one della trilogia del XIII e, volendo, sperare in un remake in 2.5D dei due Tactics.

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