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Forse ogni cosa è Distopia? Un'indagine linguistica, dai classici al fantastico.

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Un viaggio alla ricerca delle costruzioni distopiche all'interno della narrativa, usando il linguaggio come strumento d'indagine

 

La Distopia non esiste. Tutto è utopia, nessun postulato distopico nasce in quanto tale, è soltanto la palese degradazione dell'idea originaria a base utopica. Ma neanche l'utopia esiste, altrimenti saremmo tutti dei felici abitanti della città descritta da Tommaso Moro. Quindi alla fine torniamo al punto di partenza, tutto è distopia. Potremmo giocare su sillogismi e sofismi filosofici per un bel pezzo e potrei tediare profondamente la vostra persona. Perciò preferisco concentrarmi su alcune particolarità che spesso vengono sottovalutate quando si parla di distopia, ovvero i linguaggi.
Un esempio perfetto di tali contingenze l'ho riscontrato nei “Viaggi di Gulliver” di Swift, il quale ritrae una delle distopie più terrificanti della storia umana. O almeno per me, ho letto in diverse occasioni il capolavoro di Swift. Una volta da adolescente per piacere personale, e in seguito per studi accademici. Ad ogni lettura rimanevo profondamente scioccato dall'isola degli Houyhnhnms, ovvero i cavalli parlanti che ospitano per un certo periodo il viaggiatore inglese. L'isola in cui serenamente vivono codesti membri della superba razza equina è il simbolo vivente, e tangibile, della possibilità della realizzazione dell'Utopia, modellata secondo i principi di stampo baconiano e di Moro.

 

 

A questa cristallina perfezione possiamo allegare diversi esempi: nelle loro contrade non esistono delitti, crimini, gelosie, atti impuri o menzogne. La tranquillità degli Houyhnhnms è purtroppo ammorbata dalla repellente presenza degli Yahoo, ovvero dei rozzi esseri umani che da qui in poi saranno sempre chiamati Yahoo. Gulliver non si sente coinvolto nel consorzio Yahoo, nemmeno lui li vede come esseri umani, ma come membri corrotti della società equina. Gulliver perciò rinuncia al suo status antropico per insinuarsi nella gerarchia equina, è bastata la semantica a scindere le sfere del pensiero del viaggiatore inglese. Yahoo è un termine che non appartiene all'architettura utopica dell'isola, è l'elemento di disordine nell'Eden equino. Gulliver invece viene visto come uno Yahoo atipico, mansueto ed educato, ma pur sempre un animale da rinchiudere in qualche stalla. La mia opinione, che per fortuna si allinea con la posizione del romanziere Orwell, è che la struttura utopica dei Cavalli sia in realtà una utopia-negativa (cfr: Daniela Guardamagna, in Analisi dell’incubo. L’utopia negativa da Swift alla fantascienza) tipica dei totalitarismi moderni, e nel caso di Swift alle stringenti istanze politiche della monarchia inglese a lui coeva. La particolarità di Swift è di deformare le pre-esistenti utopie rinascimentali anglo-italiane, e di decostruire la geometria perfetta dell'utopia equina. Infatti sotto questo soave velo di magnificenza socio-politica si cela una popolazione che non si preoccupa di schiavizzare e umiliare i poveri Yahoo. Nonostante questo gli equini continuano a dipingersi come razza estranea al male, tant'è che nel loro linguaggio non esistono vocaboli per esprimere il male, il dolore e tanti altri retaggi della brutalità male. Swift realizza una distopia-utopia dove il male non “esiste” perché non può essere semanticamente descritto, il linguaggio viene non-creato per alimentare la distopia latente degli equini. In sintesi, per garantire la stabilità dell'Isola utopica gli equini ricorrono a eliminare sistematicamente le anomalie, mettendo in auge un meccanismo despotico. Bisogna tornare alla fantascienza della Ursula Le Guin per vedere un popolo dall'animo utopico (eppure non imbambolato tra le comodità cognitive della perfezione politica), nel romanzo breve “L'occhio dell'Airone”; dove in una comunità non violenta, e soggetta alla tirannia di un altro gruppo sociale para-militare, propugna la sua filosofia ghandiana tramite la resistenza passiva.

 

Sono due esempi diametralmente opposti, ma è interessante notare che laddove esiste il linguaggio e la capacità di codificare il male esiste il raggiungimento di una potenziale utopia; invero negli scritti di Swift è palese che la finta-utopia equina faccia i suoi comodi nascondendosi dietro al fallace concetto “di non poter fare il male non potendolo conoscere”.
Così ho pensato che fosse interessante creare una dicotomia tra perfezione sociale e linguaggio, e ciò che segue è una personalissima ricerca dei linguaggi (inventati e non) in letteratura (fantastica e non).
Nel 1848 Wilhelm Grimm curò un'edizione del glossario (parziale di 291 voci) della Lingua Ignota di Idelgarda di Bingen, conosciuta come la Sibilla del Reno (1098-1178).

 

 

 

Mentre Jacob insisteva nel cercare le radici della letteratura tedesca nel folklore delle fiabe, non sbagliando, Wilhelm ( il filologo più classico tra i due) si disinteressò da questa operazione per dedicarsi allo studio dei testi cardine della germanistica dell'ottocento. Idelgarda riuscì a destare diverse considerazioni nello studioso, soprattutto per inquadrare quella letteratura mistica di ascendenza renana (con origini illustri e secolari) negli spazi della filologia. La Lingua Ignota, venne probabilmente concepita come un gioco (tesi degli studiosi coevi), un passatempo intellettuale e personale, ma Wilhelm riuscì a rintracciare diverse ascendenze linguistiche, come quelle ebraiche, latine e greche. Successivamente, partendo proprio dal glossario di W. Grimm, si riuscì a capire che la Lingua Ignota era destinata ad un accompagnamento musicale (King-Lenzmeier 2004) mentre gli esperantisti videro nell'opera di Idelgarda (quasi mille vocaboli) il primo tentativo di creare una lingua universale-ausiliaria; per questa ragione viene considerata la “patrona” dell'esperanto. A mio avviso la Lingua Ignota della santa è un meta-tentativo di sub-creare un modello di comunicazione utopico e universale, in particolare è interessante che Idelbranda venga assunta come eroina sociale proprio negli anni della cementificazione dei totalitarismi.
La Lingua Ignota non resterà un exemplum isolato ma sarà seguita da epigoni illustri come Rabelais, Lewis Carroll, Lovecraft, l'orientalista Fosco Maraini, Joyce, Marinetti, Umberto Eco e Borges. Questi linguaggi spesso saranno definiti Utopici, non perché nati esclusivamente dalla penna degli “utopisti” ma per includere tutti quegli elementi linguistici partoriti in ambiti intellettualmente diversificati (Marrone 2004), come le opere di fantascienza, i cartoni animati, le serie tv o le distopie letterarie (Orwell, Nuova Lingua).

 

Non è semplice soffermarsi sui processi di glossogenesi dei linguaggi inventanti, in particolare quando il campo di indagine è un “non luogo”, potenzialmente non esistente, ma potrei perdermi in acrobazie filosofiche fuorvianti. Una cosa è certa, il linguaggio utopico è strettamente legato alla società e alla sua manifestazione materiale del luogo urbano:

«Il nostro linguaggio può essere considerato come una vecchia città: un dedalo di stradine e di piazze, di case vecchie e nuove, e di case con parti aggiunte in tempi diversi; il tutto è circondato da una rete di nuovi sobborghi con strade con strade dritte e regolari, e case uniformi» (Wittgenstain in Marrone p. 33)

La lingua si sviluppa con l'architettura, un linguaggio concreto e sviluppato corrisponde ad un abitato solido e ben strutturato, un linguaggio frammentario è lo specchio di un'entità materiale decadente. Perciò mi riallaccio volentieri anche a Eugene Thacker e il suo saggio “Tra le ceneri di questo Pianeta” (NOT Edizioni).A questa tesi probabilmente si appoggiarono anche i primi antropologi quando conobbero le popolazioni ad oralità primaria ma con strutture sociali semplici e un'edilizia primitiva (Fabietti 2015), tesi discutibilmente corretta ma interessante.
Ma il rapporto linguaggio-città-essenza umana è ancora inscindibile, basta pensare alla definizione aristotelica di uomo “animale linguistico” che trova il proprio habitat nella comunità, nella famiglia, nella città. I simboli verbali o voci significative sono elementi naturali dell'animale umano, che padroneggia il linguaggio per predisposizione naturale; egli a differenza degli animali sa riconoscere il Bene e il Male e per questo deve esclusivamente vivere in un ambiente comunitario come la Città (Lo Piparo 2003). Solo nella perfetta simmetria urbana può avverarsi il miracolo dell'Utopia di Tommaso Moro (1478-1535), infatti gli utopiani oltre ad avere la città migliore mai esistita possiedono la lingua migliore che si allinea e cresce insieme alla mente.

Allo stesso modo anche Tommaso Campanella (1568 – 1639) doterà le mura della sua Civitas Soli di incisioni in lingua utopica-universale, legando il linguaggio alla perfezione cittadina. La città ideale di matrice platonica (cfr. La Repubblica) è secondo lo scrittore ungaro-ebraico Koestler una realtà “utopica” (ergo distopica) ben peggiore di quella Orwelliana di 1984, ovvero il filosofo greco auspica ciò che l'americano rigetta. Interessante vedere i ricorsi storico-filosofici e la posizione dell'uomo, come vedete il linguaggio è sempre strettamente correlato alla realtà fattuale, nel bene e nel male. Non esistono utopie indissolubili e distopie preconfezionate, ogni ente è soggetto alla sua scalata nobilitante o degradazione.
Nel caso scomparisse la fiducia nella città, segregando la filosofia aristotelica e platonica in angusti recessi, si potrà sempre ricorrere alla Bibbia e trovare la verità del linguaggio universale tra le macerie della confusione babelica, andando a ritroso in una erudita ricostruzione del protolinguaggio umano. L'illustre e ancestrale antenato linguistico che ci è stato donato da Dio, il miracolo della lingua adamatica. Nella Genesi Adamo riceve il dono della parola e della lingua per descrivere il “creato”, per prendere coscienza della “conoscenza”, per assimilare il “nome vero” delle cose. La lingua originaria era speculare alla realtà, nata per dare il potere dell'apprendimento all'essere umano non per mera forma di comunicazione. La lingua nasce per offrire la conoscenza, per padroneggiare gli oggetti esistenti “pre-formati” rispetto alla lingua. In principio era il Verbo, ma la lingua adamatica nasce insieme l'uomo. Allora mi domando, se esiste un secondary world dove la lingua esista ancora prima della creazione, prima del mondo, prima di ogni Demiurgo ordinatore. Un canto, una scintilla di armonia incorporea. Mi ricollego alla fantascienza, proprio a un racconto “babelico”, il primo della silloge “Storie della Tua Vita” dello scrittore cinese Ted Chiang. In “Torre di Babilonia” i fedeli del sommo Dio costruiscono una torre infinita che si tuffa nei cieli pur di avvicinarsi al loro creatore e iniziare a comunicare con esso. Se nel mito (o verità biblica) originario gli uomini parlano tutti la stessa lingua (utopia dell'umanità unita) e poi vengono puniti da Dio con l'oceano delle lingue portando all'incomprensione degli uomini (distopia e proliferazione di civiltà “diverse”) nel racconto di Chiang, più vicino al poemetto sumerico “Enmerkar e il signore di Aratta” e gli studi ebraici della materia, giunge alla conclusione del protagonista che finalmente “incontra” Dio ma viene riportato ai piedi della gigantesca torre.

 

 

 

Dio non ha parlato, ha certamente agito, opera silenziosamente tra le nuvole ma ha rifiutato di ESSERE perché non ha espresso il suo VERBO. Se il racconto professa una latente volontà utopica si va nel finale a scontrarsi con la più grande distopia linguistica che Chiang poteva narrare. Ovvero il Silenzio dell'Ente primigenio. Il Silenzio è distopia.
In questo scritto ho voluto inoltre di sottolineare le somiglianze (che poi vedrete) tra lingue “orientali” e quelle inventate in un contesto fantasy (la somiglianza non è una preferenza ma ha una sottile e utile strumentalità), per scoprire con l'aiuto della narrativa fantastica quanto sia sacra e potente la lingua. Vista la lunghezza dell'elaborato mi limiterò al mondo tolkieniano e la sua valenza sacra della mitopoiesi linguistica, con opportuni riferimenti alle famiglie linguistiche afro-asiatiche e il linguaggio nato per necessità, per completare la perfezione del Worldbuilding.

 

Tolkien partecipò alla battaglia della Somme del 1916 e riuscì a sopravvivere, tra le trincee e il periodo di riposo concesso dopo la battaglia era solito godersi momenti di pura fantasticheria. In realtà ancora non immaginava la caduta di Gondolin, gli Anelli del Potere, la cavalcata degli Eorlingas o la tranquillità british della Contea e degli Hobbit. Iniziò a scrivere una grammatica elegante e primordiale, una voce per un mondo che doveva ancora arrivare; del resto era intriso fin dall'infanzia dalle favole materne ambientate in mondi nordici o sconosciuti e la filologia era la chiave per decifrare queste realtà.

Fairyland ovvero l'Altrove di Spencer, William Morris, George MacDonald o di Dunsany fu sempre in simbiosi con Tolkien.

La lettura del Kalevala influenzò profondamente il nostro autore, lo testimonia la recente pubblicazione di Kullervo testo primordiale per una futura sub-creazione fantastica, il poema finnico non aveva solamente insegnato la dualità tra tradizione orale e epica nazionale-comunitaria ma aveva aperto un mondo di giochi linguistici e colorate metafore, incantesimi verbali e maledizioni versificate. Così nacquero le prime scritture elfiche di Tolkien, in guerra e ripensando al Kalevala, e nel frattempo, probabilmente a livello inconscio nasceva l'esigenza di creare un mondo dove poter contenere questi linguaggi. Perché una volta inventati vanno lasciati andare, il Verbo è pura potenza che non può essere delimitata dagli angusti spazi di un foglio di carta striminzito. Ma non ci è dato saperlo, cosa pensava Tolkien della sua Terra di Mezzo perché ancora non era in grado di concepirla.

«Le storie furono create per fornire un mondo di linguaggi e non il contrario. Per me, prima viene il nome e poi la storia» (Lettera 165)

Questo professore, che disegnava orsi polari ai propri figli durante il Natale, dall'animo gentile e giocondo non smise mai di giocare, rispettosamente, con le lingue. A quanto pare non bastava la carriera accademica e la stimolante cattedra di filologia anglosassone, lavoro che gli permise di ri-costruire gioielli letterari dall'alto valore scientifico: Beowulf, The Battle of Maldon, Sir Gawain and the Green Knight, Pearl, Sir Orfeus, The Fall of Arthur e numerosi altri testi. Cercò quindi di riprendere i vecchi appunti giovanili, con le sue lingue inventate e si rese conto che un mondo stava effettivamente nascendo.

La convinzione di Tolkien è sempre stata che i linguaggi non siano strumenti utilitaristici per descrivere una storia, ma che quest'ultima (la storia) fosse il contenitore dove far fluire le lingue. Per questo l'esperanto, il suo “vizio segreto”, non poteva ambire al ruolo di lingua universale, perché era povero di mitologia, le sue parole non avevano un sovra-macrocosmo, parole senza identità non possono raccontare una storia. Si rafforza l'idea che il mondo di Tolkien nacque come l'utopia linguistica per eccelleza.

«Come primo spunto, mi permetterei di azzardare l'idea che per la costruzione di una lingua artistica veramente perfetta sia necessario elaborare, quantomeno a grandi linee, una mitologia a essa concomitante. Non solo perché certi frammenti poetici finiranno inevitabilmente per far parte della sua struttura, più o meno completa che sia, ma anche perché creazione della lingua e creazione della mitologia sono funzioni correlate» (Tolkien 2004)

La sub-creazione è l'elemento chiave che spinge la mente umana a elaborare il medium linguistico ( Wu ming 4 2013), la lingua genera una mitologia o cosmogonia e quindi le storie. E la lingua tolkieniana è anche spirituale, si allinea visceralmente alla bontà o malvagità del suo parlante; per questo l'elfico è elegante, armonioso come il canto della foresta e del mare mentre il linguaggio delle Grandi Aquile è tagliente ma anche solenne, per perforare le nuvole e arrivare al cuore delle creature, mentre l'entese è lento, antico e onomatopeico. D'altro canto il Linguaggio Nero di Mordor è cacofonico, graffiante, doloroso e sgradevole...impronunciabile per la nostra stessa incolumità. La musica è la potenza creatrice, che lega il suono dei linguaggi ai concetti significanti. Questa corrispondenza, musica-suono-concetto-creazione è alla base di tutta l'opera tolkieniana, basta pensare al cuore del legendarium del professore, il Silmarillion.

Ainulindale. La Musica degli Ainur :
«Esisteva Eru, l'Uno, che in Arda è chiamato Ilùvatar; ed egli creò per primi gli Ainur, i Santi, rampolli del suo pensiero, ed essi erano con lui prima che ogni altro fosse creato.
Ed egli parlò loro, proponendo temi musicali; ed essi cantarono al suo cospetto, ed egli ne fu lieto. A lungo cantarono soltanto uno alla volta, o solo pochi insieme, mentre gli altri stavano ad ascoltare; ché ciascuno di essi penetrava soltanto quella parte della mente di Ilùvatar da cui proveniva, e crescevano lentamente.
Ma già solo ascoltando pervenivano a una comprensione più profonda, e s'accrescevano l'unisono e l'armonia. E accadde che Ilùvatar convocò tutti gli Ainur ed espose loro un possente tema, svelando cose più grandi e più magnifiche di quante ne avesse fino a quel momento rivelate; e la gloria dell'inizio e lo splendore della conclusione lasciarono stupiti gli Ainur, sì che si inchinarono davanti a Ilùvatar e stettero in silenzio.»

[ Nel 2015 Il Cerchio Editore ha dato vita a un progetto estremamente interessante il libro-DVD Ainundale. La Musica degli Ainur. Un tentativo (ambizioso) di dare concretezza alla musica del Silmarillion, le tracce dei musicisti Nicolò Facciotto, Federico Mecozzi e Ivan Tiraferri cercano di evocare un mondo che non c'è, eppure così reale. La voce narrante di Angelo Branduardi ci teletrasporta nella Terra di Mezzo e come un Gandalf moderno ci mostra la via per godere di questo paesaggio di armonie e creazioni musicali]

Il canto degli Ainur, che è il canto di Tolkien, oltre ad avere potenza creatrice è un canto contro il nostro mondo contemporaneo. Una denuncia anche al nostro linguaggio attuale, che si è spezzato e frammentato rispetto a quello originario. Perché più si va avanti, inseguendo un pallido mito del progresso più si perde e si uccide il linguaggio creatore. Si frammenta il vocabolario si frammentano le percezioni, e si auto-perpetua un processo di oblio mnemonico. Per questo LOTR , come il Silmarillion, non è un semplice romanzo o racconto mitopoietico ma è un saggio, un atto d'amore verso l'estetica della linguistica. La musica del mito che viaggia insieme alle parole è la musica del racconto. Anche Lewis nelle Cronache di Narnia sottende

«Nel buio stava accadendo qualcosa. Qualcuno aveva cominciato a cantare».

Ed è proprio il canto di un'entità sovrana, il Valar Aule a dare vita al popolo di cui intendo parlare nel dettaglio, i Nani.
Questo popolo inizialmente viene concepito come alleato del Male, sono fedeli a Melkor e la loro bellicosità viene messa al servizio degli eserciti oscuri. Successivamente dopo Lo Hobbit divennero esseri in bilico tra il Bene e il Male, Thorin Scudo di Quercia è un personaggio positivo corrotto dall'avidità; e per la centralità che pian piano assunsero nei racconti, Tolkien sentì la necessità di creare una lingua specifica per i Nani.

Nel 1964 durante un'intervista alla BBC Tolkien ammise di essersi ispirato alla lingua ebraica per strutturare quella nanica; secondo l'autore di LOTR la caratteristica del khuzdul è quella di essere completamente agli antipodi delle lingue elfiche. I Nani sono bellicosi, operosi, dediti al lavoro, duri come la roccia, ricoperti dalla barba e cullati dall'abbraccio delle miniere e delle montagne; così il khuzdul è una lingua poco sinuosa, gutturale, dura e scontrosa. L'ebraico fa parte delle lingue semitiche, della macro-famiglia di quelle afro-asiatiche (Kloczo 2002) in cui rientrano: l'egiziano, l'arabo, l'aramaico e l'akkadico. Sappiamo tuttavia che Tolkien non fu un dilettante o neofita dell'ebraico, infatti collaborò alla traduzione della Jerusalem Bible (1966).

Le similitudini con il popolo eletto continuano pensando che il nucleo originario dei Nani era composto da sette tribù. Inoltre la loro vicinanza al mondo della roccia ci rimanda a un tema classico della mistica ebraica, ovvero il “golem”. La parola golem deriva dell'ebraico gelem che significa “materia grezza”o “embrione” per indicare l'essere privo di vita, in stato vegetativo, la creatura inanimata. Così Aule, il Valar creatore dei Nani, per volere di Illuvitar dovrà far addormentare i suoi figli, “congelarli” finché gli Elfi non compariranno sulla Terra di Mezzo. Golem e Nani condividono la stessa natura embrionale, e la medesima affinità con la materia grezza, rocciosa. Inoltre il Golem è un'entità creata attraverso la Qabbalah, formata con l'alfabeto ebraico e le sefirot.
Il khuzdul è una lingua di origine divina, viene venerata e custodita gelosamente dal popolo nanico come una delle loro gemme preziose (Arkengemma). La lingua nanica, e i suoi segreti, fu tenuta nascosta per non farla conoscere ai loro “rivali” elfici; i quali esibirono spesso un atteggiamento xenofobo verso di loro, definendo il loro aspetto e la loro cultura rozza e sgradevole.
Probabilmente questa segretezza serviva a preservare i segreti della metallurgia, arte in cui erano maestri, infatti il mithril è il metallo più prezioso e resistente della Terra di Mezzo. Ma sono i “veri nomi” il segreto che il popolo dei fabbri nascondono agli stranieri. Anche Ursula K. Le Guin nella saga di TerraMare esprime un concetto simile:

«Quando scoprì che, chiamandoli con il loro vero nome, i falchi selvatici scendevano in picchiata nel vento per andare a posarsi sul suo polso in un turbinio d'ali, il ragazzino divenne avido di conoscere altri nomi, e tornò dalla zia pregandola di insegnargli il nome dello sparviere, del gheppio e dell'aquila.
Per guadagnarsi le parole del potere, Duny fece ciò che la strega gli ordinava e gli insegnava, anche se non tutto era piacevole da eseguire o conoscere.»

Il Linguaggio, la conoscenza dei veri nomi (cfr. Il Nome del Vento) significa avere il potere sulle cose, come nel caso della lingua adamatica. L'uomo come i Nani riceve dei “poteri magici” dalle sacre scritture ( nel caso dei nani dalle loro stesse scritture ispirate ovviamente da Aule) come nel caso dei geroglifici. Come dice Alessandro Bausani, la parola che ha origine divina è il simbolo del verbo eterno. Nell'Islam ogni nuovo profeta, come Adamo, è portatore di una nuova lingua che Dio gli conferisce. Sempre citando Bausani, il poligrafo ortodosso As-Suyuti dice che la lingua è prodotta per insegnamento sovrannaturale (tawqif) e ispirazione/rivelazione (wahy); e come il nanico di Tokien l'arabo del Corano è una lingua inventata da Dio e insegnati da questi al profeta ( nel caso dei nani da Aule ai Sette padri delle Sette tribù) che crea (con la lingua) un nuovo mondo (allo stesso modo una volta appresa la lingua i nani iniziano a vivere una vera vita perché il linguaggio è il pneuma che infonde la vita).

L'arabo con la prosa ritmica e rimata del Corano è tanto musicale quanto il canto creatore degli Ainur (Mion 2017). Quel che voglio intendere, da queste istanze è che la perfezione tolkieniana non si limita nel racconto fantastico ma che ha combattuto la distopia linguistica con l'esegesi del cuore profondo del Verbo; e lo ha fatto attingendo dall'intero corpus di lingue/religioni "perfette", intese come le più specializzate nell'indagine linguistica.

Il khuzdul ha evidenti richiami semitici con il suo gruppo di consonanti bilittere (Z-N) e radici trilittere a tre consonanti (B-N-D) Inoltre secondo Edouard Kloczko sono del tipo c+fricativa+c come KH-Z-D oppure c+c+fricativa. Le radici sono classificabili come: radici forti, e radici deboli. Le deboli implicano delle semi-consonanti (y o w) che si mutano in vocali durante il processo di formazione (i e u ). Il linguaggio nanico non presenta la nasalizzazione delle radici.
Togli aspetti meramente teorici è evidente che gli studi di Tolkien vertano totalmente sulla linguistica, perché laddove il linguaggio è manifesto il mondo creato da esso è funzionale e libero da qualsivoglia tirannia.

Soltanto la regione di Mordor ha un sovrano che controlla ogni cosa, sancendo de facto Sauron come Grande Fratello Orwelliano che tutto vede e sottolinea l'evidente sfumatura distopica del tutto. Sottolineo "sfumatura".

Il linguaggio di Mordor non è soltanto brutto e cacofonico è quasi impossibile da pronunciare e le sue strutture linguistiche sono più difficili da codificare e conoscere, e forse una vera grammatica del Linguaggio nero è del tutto assente; perché Tolkien lo sapeva bene, non poteva dotare il Male di un vero linguaggio altrimenti l'avrebbe elevato al pari dei paladini del bene. La narrativa fantastica perciò continua tutt'oggi a guardare il mondo con i dovuti strumenti che non la tramutano in mera narrativa di intrattenimento (non che sia sbagliata anche così) ma in atipica lente di ingrandimento per analizzare il sistema uomo-mondo.
Distopia e Utopia sono parole estremamente pericolose, e soltanto il linguaggio potrà permetterci di essere nel mezzo e nel controllare la loro potenza. Altrimenti finiremo come i Cavalli di Gulliver o l'oscuro signore di Mordor.

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