25 anni di Jurassic Park, alle origini della dinomania
Tre punti di vista ricchi di dietro le quinte, analisi, nostalgia e ricordi del film che ci ha messo per la prima volta di fronte ai dinosauri e che ancora oggi è bellissimo da vedere
Per celebrare degnamente Jurassic Park troverete tre differenti pareri di lunghezze differenti e dato che anche i dinosauri hanno molte taglie ecco a voi un piccolo tour nel nostro parco personale. Nella prima gabbia trovate il Brachiosauro di Lorenzo, il tour prosegueo col Raptor di Gabriel e infine ecco il Compsognato di Felice.
Quell’imprecisato giorno di settembre (perché all’epoca col cavolo che c’erano i lanci mondiali per evitare la pirateria, i film te li beccavi mesi dopo) in cui entrai al cinema per vedere per la prima volta Jurassic Park fu una delle tappe più importanti di un cammino ben preciso che dentro di me non ho mai smesso di percorrere.
Ogni madre ha storie imbarazzanti sui propri figli che vengono tramandate con orgoglio, nella mia si narra che alle elementari le maestre erano perplesse dal mio comportamento. Durante il classico esercizio in cui devi dire le parole che iniziano con una determinata lettera, se mi chiedevano la P io rispondevo Pachycephalosaurus, se mi chiedevano la C Compsognatus e per la T ovviamente Tyrannosaurus Rex.
Un anno a Carnevale obbligai i miei genitori, fieri sostenitori dei costumi autarchici fatti in casa, a elaborare un travestimento da dinosauro in gommapiuma che in confronto i costumisti di Game of Thrones sembrano delle sartine.
Quando mi chiedevano cosa volessi fare da grande non rispondevo l’astronauta o il calciatore, ma il paleontologo, per me erano esseri semidivini che avevano il privilegio e l’onore di spazzolare tutto il giorno ossa di dinosauro nel bel mezzo degli Stati Uniti, non esisteva niente di meglio nella vita. Poi ho messo la testa a posto e ho scelto professioni più solide e remunerate, come il giornalismo.
Con questi pregressi entrai al cinema quel giorno di settembre.
È difficile ricordare le cose che fai a 12 anni, eppure ho l'immagine di un atrio bianco, io seduto a metà della sala, i sedili di velluto rosso. Più di tutto ho stampata nel cervello una sensazione di completezza e di felicità unica, quella che provi quando qualcuno sembra attingere dentro di te per mettere sullo schermo ciò che vuoi vedere e che senti tuo. Ricordo persino di aver alzato le braccia al cielo urlando “Questo sì che è un dinosauro!” nel momento in cui il Tirannosauro ruggisce per la prima volta nella scena sotto la pioggia.
Jurassic Park era un successo annunciato per vari motivi: innanzitutto perché il progetto era in mano a Spielberg, uno che sapeva perfettamente sia come gestire la tensione di un mostro gigante sia le dinamiche di un blockbuster, uno che non si sarebbe mai accontentato e che avrebbe cercato di ottenere il massimo dagli effetti speciali, senza dimenticarsi di girare qualcosa che fosse artisticamente sopra alla media delle altre megaproduzioni. Una pellicola che riesce a mutare forma, rimbalzando tra toni epici, action e thriller, senza dimenticarsi di puntare verso l'horror in quella favolosa scena della cucina, ricca di trovate geniali che ancora oggi vengono scopiazzate: dalla bambina che trema come il budino all'ombra del dinosauro, passando per il dettaglio degli artigli.
Ma lo fu soprattutto perché Spielberg aveva intuito che il libro sarebbe arrivato a esplicitare un interesse sempre maggiore che covava in maniera occulta ormai da anni nei confronti dei dinosauri. Per questo appena seppe della gestazione di Jurassic Park da Crichton mentre stavano scrivendo ER fece subito acquistare i diritti alla Universal, quando ancora non era neppure stato dato alle stampe.
Negli anni precedenti un sacco di scoperte avevano ampliato le nostre conoscenze su queste creature, alimentando il fascino già non da poco di una lucertola alta quattro piani. Perché ciò che sta alla base dell'amore per i dinosauri è la capacità di lasciare un’impronta a cavallo di due mondi: il reale e il fantastico. I dinosauri attingono dalle leggende dei draghi e le rendono vere, possibili, reali. Sono il legame più forte e tangibile con un mondo che possiamo solo immaginare, è come trovare le prove dell’esistenza di orchi, fate e riti magici.
Sono “Lucertole terribili” che camminavano sulla Terra prima di noi e ci fanno sentire più piccoli, ma anche abitanti di un mondo di cui oggi viviamo solo i resti. L’amore per i dinosauri è forse la forma massima di saudade, nell’accezione di nostalgia per qualcosa che non si è mai vissuto, ma che rimpiangiamo comunque.
Su questo sentimento Spielberg montò una infrastruttura che fosse scientificamente sensata senza rinunciare alla spettacolarità. Questo trasformò il film in una sorta di documentario sui generis, un imparare divertendosi, un oggetto di divulgazione scientifica di massa basato sulle più recenti teorie comportamentali di Jack Horner, leggenda della paleontologia mondiale che fu anche consulente del film. Il personaggio Alan Grant è quasi interamente scritto sulla sua figura, sia per quanto riguarda l’iconografia a metà tra Piero Angela e Indiana Jones, sia per quanto concerne alcuni concetti, come il legame con gli uccelli e il comportamento sociale. Fino a quel momento nessuno aveva pensato di associare un velociraptor a un pollo.
Horner e il suo collega Robert Bakker si scontravano quotidianamente con Spielberg per cercare di ottenere un risultato che fosse il più rigoroso possibile, ma il regista insisteva (e otteneva) canini più lunghi per il Tirannosauro e raptor più grandi.
Per quanto riguarda questi ultimi la loro correttezza scientifica arrivò al fotofinish. Spielberg voleva che i raptor fossero mostri temibili, erano i protagonisti di alcune delle scene più importanti e non potevano essere dei polletti spennacchiati, per questo impose una visione artistica più grande e aggressiva. Il team creativo era estremamente critico all’idea di inserire un dinosauro che non era supportato neppure da uno scheletro, ma ci poteva fare poco. Per fortuna nel 1992 fu scoperto l’UtahRaptor, che come dimensioni era compatibile con quello del film e rese il tutto più sensato.
Questo approccio andò a sovrapporsi con lo stato dell’arte degli effetti speciali curati da Stan Winston in un mescolarsi di effetti pratici, animatroni, tute e computer grafica. Jurassic Park arrivò in un momento particolare: fu uno degli ultimi progetti a sfruttare questo approccio ibrido prima che i computer prendessero definitivamente il sopravvento per molti anni, almeno finché non ci siamo resi conto che fare tutto in CGI fa invecchiare i film dopo pochissimo tempo. Lo spartiacque avvenne proprio nelle fasi di pre produzione, quando Phil Tippet, vero e proprio guru della Go-Motion, la tecnica con cui si muovono gli AT-AT di Star Wars, non riuscì a realizzare dei Gallimimus che corressero in maniera convincente, cosa che portò Spielberg a orientarsi verso il digitale.
La battuta di Malcom “Non è meglio dire ‘estinti’?” Rivolta a Grant nasce proprio da ciò che Tippet disse vedendo ciò che si poteva fare in CGI.
Grazie a questo mix di novità digitali, vecchie maestranze (parliamo di gente in grado di ricostruire un tirannosauro a grandezza naturale in argilla e una tuta in grado di simulare il velociraptor), e la capacità di Spielberg di mostrare senza svelare (i dinosauri in totale si vedono per 16 dei 127 minuti del film, eppure sembrano onnipresenti) Jurassic Park regge ancora alla grande in ogni suo aspetto.
Una fascinazione a cui inevitabilmente contribuisce il tema musicale di John Williams, forse uno dei più belli, riconoscibili e importanti insieme a quello di Star Wars, de Lo Squalo e le musiche di Morricone. Ascoltarlo ancora oggi fa venire i brividi.
Rigore quasi scientifico, dinosauri bellissimi e ben lontani dalle tute in gomma di Godzilla o dalle lucertole ingrandite di Harryhausen, regia sapiente, tempismo perfetto e milioni di ragazzi pronti a impazzire furono gli elementi che permisero a Jurassic Park di scatenare un'onda d'urto che vibra ancora oggi. Se Toronto dal 1995 ha una squadra di basket chiamata Raptors un motivo ci sarà. La verità è che non avevamo speranza contro la dinomania.
Non solo il film è stato citato, ricitato, parodiato (Vi ricordate Chicken Park?) e imitato in ogni sua forma, ma ha contribuito in maniera fondamentale alla creazione di una iconografia che resiste quasi del tutto immutata da 25 anni, nonostante le piume, che non furono inserite perché molto difficili da realizzare, e nonostante col tempo il rigore scientifico sia diventato simile a quello storico de Il Gladiatore.
Voglio chiudere con un momento, che non è quello che mi ha fatto alzare le mani, ma la scena in cui per la prima volta in cui Grant e la Sattler vedono un dinosauro.
Sembra assurdo tirare in mezzo Walter Benjamin quando si parla di Jurassic Park, eppure l’ho appena fatto. La riproducibilità tecnica di un’opera d’arte è una tesi che (semplificando) ci pone di fronte al dubbio: cosa resta di un quadro se posso stamparlo e appenderlo in camera? Forse solo l’aura dell’opera originale. Ma che aura può avere una foto o un film, visto che nascono per essere prodotti in più copie?
Quell’aura è forse racchiusa in quella sequenza unica e irripetibile in cui gli attori, il regista e lo spettatore parlano lo stesso linguaggio. Un momento unico, perfetto, che puoi rivivere ma che la prima volta è intenso in maniera quasi dolorosa.
La jeep si ferma, Grant si toglie velocemente gli occhiali, la telecamera stringe sul suo volto mentre la musica accenna un tono drammatico. Ellie Sattler parla, lui le fa girare la testa e la interrompe. Laura Dern mette in mostra tutte le sue doti di attrice comunicandoci vero stupore per ciò che sta vedendo, poi senza preavviso lo stacco di porta verso una carrellata sul brachiosauro, la musica sale vi volume, Grant lo indica.
“È un dinosauro”
Ed era vero.
Di Lorenzo Fantoni
"La storia della vita è un racconto di decimazioni e di posteriori stabilizzazioni di poche anatomie superstiti, non una storia di costante espansione e progresso."
Stephen Jay Gould
Anche io ero uno di quei bambini che collezionava i fascicoli con lo scheletro di T-Rex componibile ed aspirava a fare il paleontologo. Questo diffuso appeal dei mostruosi abitanti del Giurassico (più che altro del Cretaceo in realtà, suvvia, non dimentichiamo le basi!) ha sinergizzato con il reparto VFX, una meraviglia doppia: intanto, quella di vedere questi benedetti dinosauri su schermo; e poi, quella di assistere ad un esaltante momento del progresso tecnologico nel cinema. Spielberg ha plasmato un film perfetto, c'erano davvero troppi elementi per cui Jurassic Park non poteva che essere un capolavoro, equilibratissimo tra l'adorazione non solo estetica per le lucertole ed il terrore che suscitano; tutta la vicenda si svolge nei margini del messaggio ammonitore contro la scienza svincolata dall'etica. Dicevamo: per l'epoca, perfetto così.
È in questo ambito di equilibrio che credo risieda parte del successo (quinto miglior incasso della storia del cinema!) di Jurassic World, tre anni fa. Nel senso che questo quarto film della saga, al contrario di Jurassic Park, in un certo senso si squilibra scegliendo un coraggioso criterio: al culmine di uno svolgimento di trama piuttosto classico e prevedibile (d'altronde è anche un'adattamento per le nuove generazioni) arriva l'incredibile sequenza della rissa finale. Questo team-up tra il T-rex ed il Velociraptor, i due protagonisti del roster originale, uno grosso e demolitore, l'altro rapido e subdolo (bilanciati e iconici come B.Spencer e T. Hill) performano contro l'Indominus Rex una zuffa che mi rifiuto di leggere come una metafora dell'ossequio nei confronti del film originale e di Spielberg (anche se il film è intriso di metatesti), e preferisco considerare come un regolamento di gerarchie nel mito (ma la sostanza non cambia).
Seriamente: questo folle momento di cinema ha sgretolato le mie resistenze emotive, mi ha distratto da tutte le (numerose) riserve e costretto a dare un cinque alto a quel sacciente mocciosetto che ero.
Penso che molti spettatori abbiano sperimentato questo effetto, presumibilmente studiato e reso possibile dal ricordo della DinoMania che 25 anni fa JP scatenò. Più sopra, ho scritto di una adorazione non soltanto estetica per i dinosauri; mi sembra che Jurassic Park abbia suggellato questo mito delle lucertole terribili. Non sono più un paleo-appassionato, ma azzardo: se i fossili fossero stati rinvenuti in età antica, è lecito supporre che sarebbero nati dei culti, ed infatti esistono delle teorie del genere, più o meno incredibili. I progenitori mostri, che camminarono la nostra stessa terra e subirono l'apocalisse, suscitano ancora una certa reverenza, non più divina ma che si trasla sul discorso della manipolazione genetica che ispira l'idea originale e un po' tutta la saga. Che condiviate o meno questa visione naturista (io non molto), bisogna ammettere che ha un fascino mistico.
La Natura agisce (nella finzione) come un Dio vendicatore; la clausola scientifica è nello spiegone di Ian Malcolm: sono gli esseri umani che si stanno ammazzando da soli. D'altronde, se invece dei dinosauri avessimo clonato i dodo, come si sarebbe svolta la vendetta divina?
Non ho ancora visto JW Il Mondo Distrutto, ma proprio ora mentre scrivo la mia filter bubble lo sta massacrando. Pare però che ci sia questo cambio di genere in corsa, con un ulteriore cambio che si prospetta per l'eventuale seguito (Dinoguerre post-atomiche?). L'idea non ci dispiace: le saghe vanno stravolte, e gli idoli uccisi.
Di Gabriel
Ricordo ancora con precisione la sera in cui sono andato a vedere Jurassic Park al cinema con la mia famiglia, in un bel multisala con gli schermi grandi e la proiezione allo stato dell’arte.
Ricordo due sensazioni molto precise: l’esaltazione del me poco più che undicenne e il terrore di mio fratello, che ai tempi aveva sei anni scarsi.
Il preadolescente che era in me quella sera rimase incantato dagli effetti speciali, la cgi regge il confronto anche con quella odierna, quindi immaginate ai tempi quanto fosse avanti, affascinato dall’idea della clonazione (ho accarezzato l’idea di diventare uno scienziato solo per raggiungere quel particolare obiettivo, lo confesso) e l’immedesimazione nei due piccoli protagonisti, terrorizzandosi insieme a loro nel momento in cui il velociraptor apriva la porta della cucina.
Mio fratello, invece, si spaventò al punto tale da dover uscire dalla sala in almeno in un paio d’occasioni. Fu il riflesso della sua paura a farmi avvertire lo stesso brivido che provo ancora oggi quando immagino la morte di Dennis Nedry.
Anni dopo, approfondendo il tema del film, scovai un’intervista a Spielberg in cui il regista dichiarava che con Jurassic Park si era dato l’obiettivo di intrattenere gli spettatori più piccoli, terrorizzandoli allo stesso tempo.
Quel piccolo momento di comprensione personale, l’esser riuscito a interpretare il volere del regista – attraverso l’esperienza combinata mia e di mio fratello – fu probabilmente una delle molle che mi ha spinto, nel corso del tempo, ad approfondire le tematiche delle cose che mi appassionavano. E quindi studiare i registi e i loro film, scovare il senso di un’inquadratura di un fumetto o indagare i meccanismi dietro la narrazione seriale. Se oggi sono un nerd appassionato e curioso, mi sa che lo devo anche a quel film.
E a mio fratello che è uscito dalla sala.
Di Felice Garofalo