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The Labyrinth, o come Simon Stålenhag ci ricorda l'essenza dell'umanità

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Un viaggio nelle dure pagine di The Labyrinth di Simon Stålenhag, scoprendo quanto il nuovo artbook dell'autore colpisca l'anima.

Ci sono due modi per vivere le opere di Simon Stalenhag: o le ami, o le ami. Esatto, non ci sono alternative se non apprezzarle, perché è difficile davvero poter trovare un difetto in uno degli artisti più visionari dell'epoca contemporanea. Perdonatemi l'esagerazione, sono sicuro che troverete qualche difetto da imputargli, ma non c'è altro modo per me se non parlarne in tono entusiasta, anche perché difficilmente scrivo di Stålenhag e l'ultima volta che è accaduto su Nerdcore era per la serie Amazon. Sì non è stata proprio il massimo del massimo, ma andiamo oltre.

Oggi il volume in oggetto è The Labyrinth, l'ultimo uscito dalla mente di Stålenhag e ancora inedito in Italia. The Labyrinth, in particolare, è un'opera molto significativa per l'approccio dell'autore alle pubblicazioni perché ricalca quanto fatto con The Electric State e si distacca da Loop e Things from the Flood che sono meno narrativi e più "visivi", se così vogliamo definirli. Allo stesso tempo però, The Labyrinth abbandona quasi del tutto l'aspetto urbano tipico dell'autore senza però rinunciare a quel retro sci-fi realistico a cui siamo abituati. L'assenza degli scorci urbani e delle situazioni "quotidiane" è una novità quasi assoluta se si guarda meramente alle pubblicazioni precedenti, perfino Electric State nella sua distopia era strettamente legato al ruolo estetico delle costruzioni architettoniche ed artificiali. Chi è appassionato dell'autore lo sa meglio di me: parte del suo fascino è vedere una normalità palese venire a patti con della fantascienza credibile quanto bizzarra, quella che se la vedi per strada accanto alla sede più vicina di Poste Italiane penseresti che è del tutto normale.

Dov'è dunque il cuore di The Labyrinth? Non nella Svezia, ve lo assicuro. O meglio sì, ma non quella che potreste immaginare. L'autore ha voluto portare la distopia a un livello più intenso e presente, regalandoci uno scenario dove la vita sulla Terra è stata completamente compromessa per via di una serie di sfere nere che hanno scombussolato la realtà, contaminando l'atmosfera con l'ammoniaca e tossine di diversa entità. Malattie sconosciute e rivolte comprensibili hanno devastato ciò che restava della razza umana, eccetto un eden denominato Kungshall. Dirvi di più sulla trama sarebbe stupido, parte dell'esperienza voluta dall'autore è quella di farvi scoprire esattamente quello che vuole lui e nel momento preciso in cui dovreste saperlo, mai rivelando davvero tutto e passando molte delle informazioni nell'ombra più totale. Per fortuna non esiste un articolo che si chiama "Vi spieghiamo il finale di The Labyrinth", e mai dovrà esistere (per favore).

La descrizione della trama già dovrebbe porvi delle domande ed è lo spirito giusto con cui approcciare qualsiasi opera dell'autore, ma mai più che questo. L'obiettivo è quello di sentirvi estranei, spaesati e sempre alla ricerca del costante significato dietro alle parole. Quando leggete un libro, generalmente, avete tutto nero su bianco e le vicende prendono vita grazie a descrizioni accorate, lunghi dialoghi e pagine di esposizione. In The Labyrinth, più di Electric State addirittura, i testi sono corti e al massimo occuperanno mezza pagina, sono intervallati da illustrazioni che descrivono attivamente le vicende ma non ne presentano la benché minima dinamicità. Momenti congelati nel tempo da interpretare, simbolismo, riflessione e realizzazione, il viaggio che trova Stalenhag ha tante tappe quanti significati nascosti che probabilmente riuscirete solo a intuire. Ma va bene così, anzi deve essere così in un'epoca in cui vogliamo sapere tutto, conoscere tutti i dettagli, affamarci di informazioni. Alle volte, come The Labyrinth vi farà capire, il silenzio è un dono così come può essere un'arma.

Di particolare importanza in questo breve excursus è tuttavia la gestione delle immagini nell'artbook, del loro ruolo nella narrazione e di ciò che vogliono comunicare. Rinomatamente, Stålenhag ha dalla sua due particolari tipologie di soggetti: gli ambienti aperti (urbani, quasi sempre) e le strutture chiuse di carattere domestico. In The Labyrinth, quasi fatto di proposito, non c'è nessuno dei due, o meglio: ci sono ma con connotazioni diverse. Gli ambienti aperti sono saturi, privi di colori particolari e vivono dei contrasti che si creano con le luci artificiali presenti nella tecnologia dell'ambientazione, comunque rara nelle illustrazioni al contrario di The Electric State. Non ci sono tanti edifici, non ci sono pubblicità, non ci sono momenti legati al calore della famiglia, l'unico scorcio famigliare è verso la fine del libro e, anche in quel caso, l'assenza totale di colori "chiari" mette in mostra il tono serio e disperato del volume. L'obiettivo dell'autore, in questo caso, è quello di rendere visivamente chiaro che la premessa dietro The Labyrinth è orribile, grottesca. Come se Punto di non ritorno iniziasse dal filmato disturbante, invece che dall'astronave in viaggio verso l'ignoto, per intenderci.

Il vero protagonista di The Labyrinth è l'umanità stessa, sebbene la luce con cui questo accade è ben diversa dal solito, anzi si colloca in una zona molto grigia dove non sta neanche a voi trarre delle conclusioni. Da una parte ci sono momenti molto umani, come il mangiare insieme, il cucinare e l'andare in bagno. Ci sono le emozioni, l'affetto, il cameratismo, ma c'è anche dell'altro, quella parte che vogliamo tenere nascosta dai nostri affetti. Il messaggio lanciato da Stålenhag in The Labyrinth, senza mezzi termini, deve invitarvi a riflettere su tante cose ma per ognuno di noi potrebbero essere diverse l'una dall'altra.

Per quanto possiate prendere per buona la mia esperienza, mi ha devastato in un modo subdolo, addirittura meschino se dovessi definirlo in un termine che ne colga al meglio le sfumature sul mio stato d'animo. Mi ha dilaniato tra quello che provavo e quello che eticamente o ragionevolmente arriverei a pensare, o anche a fare. Ed è quando mi sono accordo che avrei fatto determinate cose che il libro mi ha posto davanti alla plausibile conseguenza, quella che speri non possa mai arrivare e che ti convinci di pensare sia impossibile. La rifiuti, vuoi essere libero da un peso perché noi come umani aneliamo la libertà fisica e spirituale più di ogni altra cosa, ma a certe cose non ci si può sfuggire e non importa se prima o poi capiamo o meno il perché di quello che accade.

Uno dei personaggi è una scienziata, una biologa. E nel contesto della comprensione questa figura diventa centrale per convincerti che non c'è davvero appiglio logico a cui aggrapparsi, a prescindere dalle pagine in cui lei osserva la flora proveniente dalla devastazione più totale. Ma è in quel momento, nella rinascita di una vita amena dalle ceneri letterali della civiltà, che si intuisce davvero il prezzo da pagare per la superbia, l'arrogarsi un diritto cosmico per auto proclamazione. Eppure non passa il pensiero che tutto sommato lo rifarei, lo rifarei cento volte nei panni in cui ti cala il libro, nei panni di chi è costretto a subire la disperazione in maniera passiva, inerte. The Labyrinth mi ha portato a mettere in dubbio la mia stessa natura, a scegliere l'altra soluzione, a capire cosa davvero vuol dire umanità, se è la compassione a definirci o l'istinto, se una via di mezzo è possibile. Una cosa però è certa: nel labirinto non esistono scorciatoie, non esistono passaggi segreti. Ci sono solo svolte segnate da muri invalicabili, e le uniche decisioni sensate sono quelle che ci portano alla fine della trappola in cui siamo capitati nostro malgrado.

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