La musica come ultimo fine. È così che Elliot Udo, incarnato da André Holland, interpreta la sua esistenza. Ed è questo che “The Eddy” ci racconta. La ormai rinominata “serie di Damien Chazelle”, prende infatti dalla sua poetica, già esplorata con “Whiplash” e “La La Land”. Ogni protagonista di Chazelle è incompiuto, irrisolto, taciturno e difficile. L’unico modo che conoscono per esprimersi è attraverso le performance musicali.
In “The Eddy” questa tematica è ancor più centrale, in quanto conosciamo Elliot in un periodo in cui non vuole suonare ed esibirsi e quindi non vuole esprimere se stesso.
Elliot è proprietario di un bar jazz, il The Eddy, gestito insieme al suo migliore amico Farid. È anche un ex musicista famoso ormai non più in attività. Il suo ultimo progetto è una band, chiamata come il Club, nella quale ogni sera si esibisce. La sua figura nel gruppo è però più simile a quella di un “direttore artistico”, in quanto non vuole più suonare in pubblico, ma partecipa alla scrittura di pezzi e alle prove, anche in maniera arrogante e dispotica, monopolizzando tutte le scelte stilistiche ed espressive.
La scoperta di questioni tenute segrete da Farid e l’arrivo di sua figlia dagli Stati Uniti faranno partire la storia. Le trame che si intrecciano ci rappresentano una Parigi di periferia, frequentata da gruppi criminali, ma anche una Parigi dell’integrazione multietnica. Anche il jazz ascoltato (la colonna sonora è composta da Glen Ballard e Randy Kerber) si interseca con la musica più moderna, come il rap, rendendo questa serie un animale strano e multiforme.
Emblematico in questo senso è il terzo episodio, in cui ci immergiamo pienamente nella cultura islamica trapiantata a Parigi, vedendo un funerale e seguendo le peculiari usanze. Alla solennità di quel rito si contrappone poi una mistione di musica ed emozioni con cui tutti gli amici del defunto vogliono commemorarlo. Quasi un nuovo funerale all’insegna del jazz e della sua forza aggregante.
La struttura episodica affianca al protagonista, di volta in volta, un focus su un altro personaggio, rendendolo il soggetto di quel frammento, fino al gran finale in cui il protagonista è il club stesso, il quale possiede un’anima che sa di alcol, intrighi e sentimenti. Ogni personaggio ha quindi una sua dignità, un suo carattere e una sua storia, anche semplicemente abbozzata, ma capace di rendere tridimensionali e ricche le interazioni tra di loro.
Seguiamo quindi Elliot che cerca di districarsi tra le trame che si avvicendano, con l’unico scopo di far rimanere aperto il club, unica sua fonte di guadagno, messa al servizio del suo vero nuovo obbiettivo: pubblicare un disco con la sua band.
Questa esigenza di riuscire a produrre musica, di creare qualcosa di nuovo, ci viene mostrata all’inizio come superficiale, quasi come un cruccio, che poi viene approfondito e interiorizzato dal protagonista stesso.
Ritorniamo quindi a quella tematica che Chazelle, regista delle sole prime due puntate, ha impresso in tutta la serie scritta da Jack Thorne (autore lo scorso anno anche dell’adattamento di His Dark Materials).
L’assoluta voglia di produrre e riprodurre musica, di creare un’armonia, anche unica, in pieno stile di improvvisazione jazz, ma allo stesso tempo il sacrificio di tutto ciò che si ha attorno. In “Whiplash” era uno sforzo mentale che influiva sul corpo. In “La la land” era un distacco emotivo che portava alla realizzazione del sogno, in modo che quel distacco si trasformasse in note. In “The Eddy” invece l’astinenza musicale di Elliot rappresenta una sua auto-punizione, che egli può espiare solo rendendo la sua band perfetta, capace di pubblicare la migliore musica possibile.
E quindi l’anima di “The Eddy” sta nella continua lotta contro il tempo, le relazioni, la realtà e il corso degli eventi per riuscire a pubblicare un disco, seguendo il “mantra” che da più opere caratterizza Damien Chazelle: l’arte non è propositiva, ma è figlia di una negazione, di un distacco o di una perdita. L’arte è una febbre che ti senti dentro, che provoca tormenti, quasi come una fede o una droga, e solo chi è disposto a concedersi apertamente all’arte, può anche produrla.
Una visione forse estrema e stereotipata, ma indubbiamente carica di fascino.