Potrei aprire questo articolo con una frase a effetto del tipo: “mi sono innamorato della fantascienza il giorno in cui, alzando gli occhi al cielo, ho immaginato l’umanità proiettata fra le stelle”. Ragione per molti, ma non per il sottoscritto.
Prima di procedere, trovo giusto, o meglio dire, trovo indispensabile precisarvi che nella definizione stessa di fantascienza, lo spazio, questo inteso come connubio di luogo e tempo, non è assolutamente portatore unico del verbo della sua narrazione, bensì ne definisce una generalità, questa indubbiamente preponderante, ma non per questo totalitaria. Detto ciò, facendo ricorso a della sana memoria, traccerei l’origine di questo mio amore in un periodo compreso fra il 1999 e il 2007, anni in cui un me non ancora del tutto adolescente osservava con curiosità qualsiasi cosa potesse destargli il minimo interesse; fra questi, ci furono almeno “quattro elementi” che, con il senno di poi, definirei come l’anticamera di quella che oggi è forse la mia passione più grande.
Essendo cresciuto con un fratello molto più grande, uno di quelli cresciuti nell’intrattenimento degli anni ’80, fui abituato sin da subito a cimentarmi in hack and slash a scorrimento e stage di svariati picchiaduro, tuttavia fu un titolo radicalmente diverso, che entrò nella mia cameretta a fine anni ’90, a battezzarmi nelle limpide (ma anche torbide) acque della fantascienza: Resident Evil. Più precisamente Resident Evil 3, gioco che a essere onesti guardai giocare, non sia mai che mio fratello mi concedesse l’onore del pad. Ciononostante mi andava bene così, d’altronde ero un bambino di appena sette anni e guardare giocare il mio “fratellone” non mi dispiaceva affatto. Prima di gridare allo scandalo e prima ancora di boicottarmi da Nerdcore, sappiate che nel considerare Resident Evil fantascienza non ho commesso alcun atto di blasfemia, l’ho semplicemente definito per quello che è: un horror fantascientifico in piena regola. Voi come definireste un setting e un concept analogo? Come definireste un’opera in cui un virus creato dall’uomo in laboratorio, risulti capace di trasformare gli esseri viventi in amenità del genere? Non stiamo parlando di un qualche sottoprodotto dark fantasy in cui una primordiale e impronunciabile magia causa il risveglio dei morti. L’apocalisse, questa intesa nella sua accezione distopica, altro non è che un’espressione della fantascienza; e fu proprio questo preludio a galvanizzarmi, a subissarmi in questo mondo ove una scienza estrema, ingenua ed egoista generava una forma di orrore tanto pericolosa quanto aberrante. Fra le altre cose fu proprio in quel periodo che mi innamorai perdutamente del franchise Capcom, ma questa è un’altra storia.
Dalla mia nuova passione per i zombie, ulteriormente implementata da una fantasia inarrestabile – vi concedo l’onore di prendermi per il culo, visto che alle medie, durante le ore buche, mi dilettavo nello scrivere storie inerenti a civiltà cadute sotto i passi di orde di morti viventi – passai a un’altra forma di devastazione: quella per le invasioni aliene. A questo punto subentra il secondo elemento, la cui genesi risiede banalmente in un trailer, era il 2006 e il filmato mostrava praticamente questo:
Mad World di Gary Jules (riproducetela, ora) introduceva il riflesso di un soldato in tripla taglia xl mentre teneva fra le mani una testa, oramai divelta, di una statua; improvvisamente questo cominciava a correre fra i ruderi di quella che un tempo era una fiorente città, poi un’improvvisa capriola dentro le spoglie di un vecchio e buio edificio, questo improvvisamente illuminato da centinaia di piccole luci gialle; ad un tratto, plasmato direttamente dal più orribile degli incubi, la sagoma di un gigantesco essere ragniforme emerge dinanzi all’uomo, fattosi improvvisamente piccolo. In un disperato ma impassibile gesto, il soldato innalza il suo bizzarro fucile e fa fuoco, inutilmente. Il successivo attacco della creatura restituisce nuovamente il buio ai meandri della struttura, lasciando dietro di sé unicamente un teschio avvolto da un ingranaggio e un nome: Gears of War.
Quel trailer, che vidi per la prima volta durante l’ora di informatica su una primitiva forma di You Tube, mi scosse talmente nel profondo, che nei giorni a seguire accaddero le seguenti cose: Mad World era diventata l’unica canzone non dei Rammstein a trovare posto sul mio mp3, assillai mio padre (ahimè da sempre riluttante al concetto stesso di videogioco) affinché mi comprasse una Xbox 360 - arrivando a compromettermi con promesse oscene - e ultimo, ma non per importanza, mi ribalenò in mente, come se questo fosse rimasto celato per anni, un insieme di immagini che mostravano dei soldati opposti a insetti giganti. Sfruttando la microscopia finestra di connessione di cui disponevo ai tempi, setacciai in lungo e in largo l’internet, che alla fine mi premiò con un nome: Starship Troopers, il terzo elemento.
Questo ero sicuro di averlo già visto, tuttavia non doveva avermi colpito particolarmente, d’altronde fra i pochi frame che ricordavo, c’era un insetto che tagliava in due un uomo. Sfruttando l’immancabile parente munito di connessione dignitosa, riuscì a ottenere in maniera naturalmente illecita il film, questo nell’immancabile formato DivX. Il film di Paul Verhoeven datato 1997 mi piacque non poco, a tal punto che cominciai a fare fan fiction persino sul tema, finché, nell’estate che seguì l’esame di terza media, scoprì la reale paternità di Starship Troopers, che di fatto rappresentò il mio primo e vero romanzo di fantascienza, nonché lo scritto che mi consacrò al genere.
L’impatto che il romanzo del ’59 di Robert A. Heinlein ebbe sul sottoscritto non è realmente quantificabile: amo la cifra stilistica del suo autore, amo il suo potere immaginifico, la sua capacità di poter descrivere una civiltà contrapposta a un’altra radicalmente diversa, e non per i soliti usi e costumi. Tutto ciò che conoscevo e avevo imparato a conoscere riguardo ipotetici conflitti alieni andarono letteralmente a puttane. Non esagero dicendovi che Starship Troopers mi ha cambiato la vita, oggigiorno ancora il mio personalissimo standard di qualità. Ciò che però ha reso quel romanzo realmente inestimabile per il sottoscritto, risiede nel merito di avermi accompagnato alla stregua di Beatrice con Dante, per tutto il mio percorso di crescita culturale e iconografica: devo a lui l’incontro con Asimov (altro grande creativo simbolo della mia adolescenza), Baxter, Simmons, Dick, Gibson, Sterling, Farmer e molti, molti altri.
La narrativa fantascientifica, in tutte le sue forme e in tutta la sua sostanza, prende forma nella mia mente proprio in quell’aula informatica dove un piccolo Stefano guardava per la prima volta il trailer del celebre titolo firmato Epic Games. Il tema di questa core story mi ha portato inevitabilmente a riflettere su un particolare che non avevo mai preso in considerazione: se non avessi mai visto Marcus Fenix in quel trailer, sarei mai entrato in contatto con Heinlein? E senza il suo retaggio culturale, che rapporto avrei oggi con la fantascienza? Avrei un rapporto con la fantascienza? Grazie di tutto Cliff. Ti voglio bene, sinceramente (quasi quasi rimetterei Mad World in sottofondo).
Manca il quarto elemento, volutamente conservato per l’atto finale. Per quanto lo Starship Troopers di Verhoeven sia confinato nella mia personalissima sfera di cult, il vero catalizzatore è stato il romanzo omonimo di Heinlein; tuttavia c’è un film che tirando le somme ha avuto la stessa risonanza del romanzo di cui sopra, quale film direte voi? Quale se non Aliens. Anche in questo caso calcolare la risonanza iconografica e nostalgica che il capolavoro indiscusso di James Cameron ha avuto su di me è praticamente impossibile: un film carico di una potentissima estetica sci-fi, capace di coniugare allo stato dell’arte stilemi e forme. Una pellicola che sdogana il gentil sesso consegnando ai posteri l’icona femminile più pervadente della storia del cinema, Sigourney Weaver nei panni di Ellen Ripley (che fra le altre cose espone un outfit profondamente figlio degli anni ’80). Nulla è fuori posto, tutti gli elementi sono ordinati seguendo una geometria senza eguali. Non occorre dire che mi fissai immediatamente con il corporal Dwayne Hicks, interpretato alla grande da Michael Biehn: risolutivo e dinamico come pochi e capace di elargire perle di dialogo senza eguali “Io dico che decolliamo…e nuclearizziamo. Questa è la sola sicurezza”. Muscolarismo ne abbiamo?
Aliens - ma in fin dei conti tutti i prodotti legati al franchise - ha segnato alla stregua di Starship Troopers la direttrice ascendete del mio amore per la fantascienza. Videogiochi, film e libri che sono parte fondante della mia persona, capaci di sostenermi e rassicurarmi quando la vita vera, quella di tutti i giorni, tenta di farti perdere il senno. Oggi più che mai l’umanità ha bisogno della fantascienza, perché dopotutto è vero, fra catastrofi ambientali e futili nazionalismi, alzare gli occhi al cielo e immaginare la proiezione dell’umanità fra le stelle fa bene non solo al corpo, ma anche e soprattutto allo spirito.