Finita l'ultima stagione di "Watchmen" si rimane perplessi, questo è indubbio. Considerando tutta l'incredibile preparazione narrativa e di analisi psicologica dei personaggi che ci sono volute per arrivare al finale, si resta con un'iniziale impressione di incompiutezza o di strana, mancata messa a fuoco.
Eppure il finale di “Guarda come volano" rappresenta forse il più grande atto d'amore nei confronti della poetica di Alan Moore che qualcuno abbia mai messo in atto.
La spiegazione è relativamente semplice: dalla maxiserie a fumetti di "Watchmen" al sequel ideato dallo sceneggiatore Damon Lindelof per la HBO sono trascorsi più di trent'anni. E in questi tre decenni, Moore non solo ha continuato a scrivere – seppur con alterne fortune e tra polemiche spesso violente – per l'industria dei comics, ma ha mutato di frequente la propria visione del medium, variando di continuo i contenuti e i “messaggi" che voleva veicolare.
Ricordiamo che lo stesso Bardo di Northampton, fin dai primi anni Novanta, aveva rilevato l'influenza nefasta che il romanzo grafico da lui realizzato assieme al disegnatore Dave Gibbons e al colorista John Higgins, aveva avuto sulle tematiche supereroistiche, contribuendo a trasformare i protagonisti dei comic book in un coacervo di personaggi cupi e violenti immersi in atmosfere plumbee e decadenti.
Da qui la reazione di Moore che, dapprima con una preziosa miniserie come “1963” (Image Comics) e un’ispirata run del serial “Supreme" (Image Comics/Maximum Press), aveva cercato con successo di dimostrare come fosse possibile creare fumetti appassionanti impiegando gli stilemi della Golden e della Silver Age dei Comics, per poi portare ulteriormente avanti l'idea di un recupero postmoderno e rivitalizzato dei pattern classici attraverso i titoli inseriti in America’s Best Comics, sub-imprint della WildStorm di Jim Lee.
Ed è proprio con serie come “Tom Strong", “Top Ten", “Promethea" o “La Lega degli Straordinari Gentlemen", pubblicate a cavallo tra i due secoli, che Moore ha regolato i conti, a distanza di circa tre lustri, con la vena punk e nichilista di “Watchmen". Arrivato alla mezz'età, lo scrittore aveva infatti deciso di trasformarsi in un mago, scoprendo una nuova dimensione esistenziale in cui la speranza, l'apertura, l'ottimismo, la necessità di compensare i vuoti e le mancanze si erano incanalati in un magnifico percorso espressivo.
La ricerca di una nuova concordia, il dovere di regolare i conti col passato per costruire un nuovo futuro: sono questi i temi portanti di “Tom Strong” e “Promethea", dove, a un certo punto, i protagonisti diventano addirittura testimoni di una serena Apocalisse, durante la quale i vivi e i morti, gli amici e i nemici si riconciliano tra loro (capito adesso il motivo per cui Laurie Blake ha abbandonato il cognome della madre per assumere quello del padre Edward, il fantomatico, crudele e reazionario agente mascherato noto come Il Comico, da lei odiato in passato?). La ricerca di una nuova convivenza sociale e civile: è questo il sostrato che attraversa “Top Ten".
Nei fumetti di America's Best Comics, insomma, le istanze “negative" di “Watchmen” si erano totalmente dissolte.
E torniamo, a questo punto, a quanto dicevamo all'inizio. Con la serie TV di “Watchmen", Lindelof opera sostanzialmente una rilettura postmoderna e remixata della trama del graphic novel originale, impiantandoci con originalità la questione in precedenza inedita del razzismo: gli snodi della trama sono pressoché gli stessi, i personaggi citano in continuazione espressioni e battute presenti nelle tavole a fumetti, vengono recuperate le atmosfere dark e angosciose.
Lo sceneggiatore americano sembra procedere sulla stessa linea del trio di autori britannici senza avere alcuna intenzione di distaccarsene.
Ma è con l'episodio finale che Lindelof determina lo scarto finale, la geniale rilettura del tutto, al di là di un calo di tensione che sembrerebbe frutto di un errore di valutazione, ma che in realtà è solo apparente. Il tutto esaltando Moore e la sua evoluzione artistica.
Andiamo per ordine: il climax è pura citazione degli anni Ottanta, ovvero il decennio che il “Watchmen"- fumetto intendeva inquadrare e raccontare, analizzandone i presupposti storici. Ci troviamo quindi, da spettatori, di fronte a un finale che cita apertamente l'apertura dell'Arca dell'Alleanza de “I Predatori dell'Arca Perduta" (non è un caso che il perverso senatore Joseph Keene faccia una fine simile a quella dell'archeologo Belloq e che i seguaci del Settimo Cavalleria seguano il destino dei nazisti fulminati dalla furia divina) e la distruzione del Nakatomi Plaza di “Die Hard”.
Si tratta di un aspetto che sembra quasi dileggiare l'improbabilità del vecchio, mostruoso, artificioso piano di Ozymamdias. Di più: se nel graphic novel di “Watchmen” l'idea del “calamaro alieno extradimensionale" che a metà degli anni Ottanta rade al suolo mezza New York si rifaceva alle serie a fumetti fantascientifiche della EC Comics e a uno show televisivo come “The Outer Limits", risalenti agli anni Cinquanta, guarda caso, nell'ucronia del 2019 immaginata da Lindelof, la nuova minaccia mondiale ha aspetti e modalità risalenti, nella stessa maniera, a trent'anni prima. Ancora una volta, puro, incredibile metatesto.
Ma, oltre a questo, i personaggi di “Watchmen" sono chiamati a regolare i conti col loro passato: il Dottor Manhattan si rende conto di essere un essere imperfetto e fallace, responsabile di morte e distruzione e decide quindi di sacrificare se stesso per un bene superiore (nel fumetto, adducendo la stessa motivazione, aveva ucciso Rorschach e giustificato tacitamente Veidt), trasmettendo il suo potere ad Angela Abar, una creatura che considera più meritevole di lui; poiché “nella vita si cresce e si cambiano le idee”.
Laurie Blake decide di arrestare Adrian Veidt/Ozymandias, dopo aver taciuto per trent'anni il terribile e sanguinoso piano che aveva portato l'umanità a credere a una falsa invasione aliena. Il miliardario megalomane interpretato da Jeremy Irons viene fermato da Wade Tillman, di fatto un’ideale “reincarnazione” di Rorschach che, in questo modo, contribuisce ad assicurare alla giustizia l'uomo nel nome della cui visione era stato trucidato.
Lady Trieu, figlia non riconosciuta di Veidt, viene annientata dal suo stesso genitore, che le impedisce così di portare a termine una macchinazione simile a quella da lui ideata decenni prima; il vecchio Will Reeves/Giustizia Mascherata sconta le sue mancanze passate e si riconcilia con la sua discendenza.
Siamo perciò davanti a una conclusione “pacificatrice" e molto meditata, che tiene conto del Moore-pensiero e della Moore-sensibilità in tutte le sue sfaccettature, che non dimentica i meccanismi forse meno noti, ma altrettanto importanti e significativi delle altre opere dell'autore – tantissime – successive a “Watchmen".
Una conclusione che porta avanti un discorso positivo, di salvezza, che elimina il concerto del “tutto è già stabilito", del “burattino che vede i fili" per recuperare la possibilità di un mondo migliore, in cui ogni strada è misteriosa, affascinante, aperta e percorribile.
Anche grazie a questo finale, insomma, il “Watchmen" di Lindelof si rivela una produzione di grande intelligenza, che non tradisce le premesse e che è destinata a lavorare nello spettatore anche dopo la sua conclusione.