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Perché Westworld è una serie sui videogiochi e sul futuro dell’intrattenimento

Ieri sera ho finalmente messo gli occhi sulla puntata pilota di Westworld, nuova serie HBO ispirata a un classico della fantascienza (di cui ricordo solo Yul Brynner con la faccia mezza robotica) a sua volta basato su un libro di Crichton (a dire il vero il libro arriva solo dopo lo script), ovvero una certezza quando c’è da mettere in scena parchi di divertimento dove qualcosa va storto.

La storia racconta infatti di un’attrazione interamente basata sul vecchio West, con tanto di fuorilegge, sceriffi, prostitute e saloon, in cui i figuranti sono sofisticatissimi robot che interagiscono con gli umani in maniera quasi del tutto realistica. I visitatori possono fare quello che vogliono con i robot, i quali sono programmati per rispondere con emozioni convincenti ad ogni tipo di situazione. Sesso, violenza indiscriminata, avventure preconfezionate, stragi, torture, non importa quanto possa essere basso il fondo toccato dai “nuovi arrivati”, a fine giornata tutti gli automi vengono resettati e il mattino dopo si riparte da capo, con le stesse azioni, le stesse storie, in attesa che un riccone annoiato ne devi il percorso.

Westworld è il passo successivo a Matrix, quello in cui ad accorgersi di vivere una vita artificiale non sono gli uomini, ma le macchine.

Sono stato, e a volte lo sono ancora, un avido giocatore di World of Warcraft. Non ero uno di quelli disposti a passare le nottate ripetendo mille volte lo stesso dungeon per ottenere l’oggetto dei desideri, mi interessava di più il lato esplorativo e narrativo dell’universo Blizzard, anche se questo non mi ha impedito di sacrificare qualche sessione d’esami.

Vedendo però gli amici che ogni sera puntualmente uccidevano il megamostro di turno, e come loro milioni di persone in tutto il mondo, un giorno mi sono chiesto “chissà come sarebbe noioso vivere nei panni di un personaggio non giocante”. Perché alla fine i giochi di ruolo online, Grand Theft Auto (anzi, Red Dead Redemption), The Witcher III, Fable e ogni altro titolo in cui viene data al giocatore libertà totale o quasi non sono altro che i progenitori di Westworld.

In molti casi sono videogiochi che ci permettono di fare scelte morali e, guarda caso, imbocchiamo sempre il cammino percorso da Ed Harris (perfetto nel suo ruolo), ovvero caos, dolore, morte, amoralità e sollazzo personale.

Quante volte abbiamo visto qualcuno andare con una prostituta in GTA per poi passarle sopra con la macchina? Quante volte abbiamo visto un personaggio ripetere per centinaia di volte al giorno la stessa frase a tutti i giocatori che gli chiedevano la quest successiva?

Potrà sembrarvi una serie TV fantascientifica che si mescola con le tematiche care ai western, e in parte lo è, ma Westworld è di fatto una serie TV che parla di videogiochi, di futuro e di come arriverà un punto in cui dovremo porci la domanda “Se non è in alcun modo distinguibile dal reale, dove sta la differenza?”.

Perché alla fine Anthony Hopkins e tutto lo staff di Westworld fanno esattamente ciò che oggi avviene negli studi di sviluppo dei principali videogiochi. Creano personaggi, inventano storie, dialoghi, copioni, algoritmi di comportamento e cercano di coinvolgere il giocatore all’interno di avventure che sono definite a tavolino, ma che devono sembrare casuali, prevedendo tutte le eventuali deviazioni dal copione.

Quindi sappiate che se l’idea vi è piaciuta, ma non avete mai preso in mano un pad in vita vostra, forse apprezzereste i videogiochi più di quanto pensate.

Normalmente quando qualcuno tenta l’ennesima crociata contro i videogiochi violenti siamo prontissimi a reagire con articoli, opinioni e ricerche scientifiche che dimostrano come la violenza simulata non sia in alcun modo riconducibile alla violenza reale, che se sparo in testa a qualcuno in Vice City non voglio automaticamente farlo sul serio, è solo divertimento, valvola di sfogo per l’aggressività, tutto a posto, circolare, non c’è niente da vedere.

A conti fatti nella maggior parte dei casi è proprio così e mi batterò sempre perché i videogiochi siano visti per ciò che sono, non come gli ennesimi corruttori della morale.

Ma una volta che avremo superato le costrizioni di uno schermo, una volta andati oltre la realtà virtuale, quando in un parco giochi non mi troverò di fronte a robot che si muovono a scatti e che non posso toccare, quando insomma avremo fatto l’ultimo grande balzo oltre l’Uncanny Valley e qualcuno avrà ancora voglia di torturare un ostaggio che verrà resettato il giorno dopo, come ci comporteremo?

Ecco perché potrei amare Westworld, non solo perché è scritto bene e recitato meglio, ma perché si fa specchio di un interessante dibattito sull’intelligenza artificiale, sul futuro dell’intrattenimento e su cosa diventiamo quando non ci sono in ballo conseguenze personali.

Poi chissà, magari era solo un bell’episodio pilota.

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