La sera di Natale del 1981 mio padre se ne tornò a casa con un videoregistratore. Uno dei primi modelli. Eravamo dei privilegiati. Una pesante scatola di alluminio con inserti in radica e un grosso simbolo JVC in basso a destra. La videocassetta veniva inserita attraverso una sorta di boccaporto sulla parte superiore e un meccanismo a scomparsa la ingoiava all’interno. Il telecomando consisteva in un singolo pulsante (PLAY/PAUSE) ed era collegato con il filo
Il mercato home video sarebbe esploso di li a qualche anno e, a parte rarissimi casi, non esistevano film in videocassetta, non c'erano videoteche, spesso neanche altri umani con cui scambiare le cassette e i film si registravano solo dalla TV (e quindi, quasi invariabilmente, iniziavano con Dalla che canta la sigla del “Lunedìfilm” Rai).
Come tutte le nuove tecnologie nella loro infanzia, anche questa offriva parecchie zone grigie normative. Praticamente ogni valle italiana aveva la sua piccola stazione TV più o meno fantasma che trasmetteva senza farsi troppi problemi film famosi per tutto il giorno (di notte, potete immaginare, trasmettevano ben altro). Una videodrome de noantri.
Ma se non esistevano videoteche, come facevano questi film recenti ad arrivare, tramite queste frequenze pirata, sullo schermo di casa nostra? Tre parole: telecinema amatoriali abusivi. Funzionava così: complici alcuni proiezionisti compiacenti, esistevano sale cinematografiche che, di notte, proiettavano il film davanti a videocamere oppure, in casi più rari, attraverso degli schermi più piccoli installati sopra il ccd delle telecamere.
Si ricavavano versioni di pessima qualità dei film al momento in sala. Le videocassette, poi, venivano copiate più e più volte (si diceva “doppiate”) contribuendo ad un progressivo e deciso peggioramento audio e video.
Fu in questo modo che vidi, per la prima volta, “Il Ritorno dello Jedi”. Anzi, per qualche motivo, la lente de-anamorfizzante davanti al proiettore non era neanche montata in modo corretto e quindi tutto il film era orizzontalmente schiacciato.
Ma quel Michele di 9 anni lo amò alla follia! Lo vide e rivide centinaia di volte. Nonostante tutti i terribili limiti di quella copia VHS (tra l’altro chiaramente in mono) fu per lui un’esperienza viscerale. Nella sua mente (molto più che sullo schermo) la battaglia finale davanti alla seconda Morte Nera era l’apoteosi del fantastico, del meraviglioso. Quella visione si innestò talmente in profondità nei suoi ricordi che quando, qualche anno dopo, ebbe modo di vedere la versione “corretta”, con il giusto rapporto di altezza e larghezza schermo, gli sembrò … sbagliata. Cavolo! Quei volti erano così gonfi e la luna di Endor non era più lo splendente ovale che ricordava, ma solo una banalissima sfera.
La forza del cinema sta, ancora oggi, tutta qui: nella capacità sorprendente, e a suo modo insuperata, di travalicare la tecnologia che ne permette la fruizione e arrivarti in pancia senza perdere quasi nulla.
In questi mesi molta stampa, tanti direttori di festival e alcune recenti azioni normative puntano a vincolare l’uscita del film PRIMA in sala cinematografica e POI in televisione. Eppure, per chi ha la mia età, cioè tra i quaranta e i (cristo!) cinquanta, l’amore per il cinema, per il grande cinema, è nato davanti alla televisione. Fellini, Kubrick, Lang. Ne siamo rimasti folgorati attraverso il piccolo schermo. Il volto pietoso e bellissimo di Renée Falconetti ne “La Passione di Giovanna d’Arco” ci ha trafitto il cuore, e lo ha fatto attraverso i fosfori di un vecchio Grundig coloresemprevivo. Quando Don Vito Corleone viene colpito e cade a terra a Little Italy lasciando rotolare le sue arance, lo fa per la prima volta sullo schermo di una televisione. E ciononostante li abbiamo amati. Tutti. E non abbiamo perso nulla per davvero. Dreyer e Coppola sono riusciti a gridare alla nostra pancia/cuore/testa attraversando l’emulsione fotochimica, la sua copia in positivo, il trasferimento su un supporto video di bassa qualità, la testina di un vecchio VHS fino ad arrivare sullo schermo stanco di un tv-color tedesco. Non è un miracolo?
Ma non potevamo fare altrimenti. A parte i tanti di voi che hanno avuto la fortuna di nascere in una grande città italiana, una di quelle che organizza matinée su Bergman in quel paio di sale d’essai, il resto di noi ha vissuto la propria formazione cinematografica in città di provincia in cui l’unico modo per vedere “L’angelo sterminatore” di Buñuel era farsi un’ora e mezzo di macchina per arrivare in una delle poche videoteche davvero fornite nelle vicinanze, affittare la cassetta, tornare a casa, vedersela (chiaramente “doppiarsela”) e poi rifarsi la strada al contrario per riconsegnarla, di solito pagando la multa del ritardo. Non esisteva altro modo.
Poi, arrivato ai vent’anni, ho avuto una fortuna inaspettata. Sono stato ammesso al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma e, qualche mese dopo l’inizio dei corsi, ci consegnarono una tesserino. Questa card plastificata con la nostra foto sorridente ci garantiva due incredibili poteri: 1) ti permetteva l’accesso a Cinecittà senza domande da parte di Fausto, alla guardiola, e 2) potevi chiedere all’adiacente Cineteca Nazionale di proiettarti qualsiasi film in pellicola. No aspetta, lo scrivo meglio ... QUALSIASI. FILM. IN. PELLICOLA. E io ne abusai.
Feci proiettare (alle volte solo per me) “Alien”, “Incontri Ravvicinati del Terzo Tipo”, “La battaglia di Algeri”, “Stalker” e addirittura, senza ritegno alcuno, “Ghostbusters”, “Wargames” e “Una pazza giornata di vacanza”. Potevo vedere tutto! Sul grande schermo! In pellicola!
E poi, un pomeriggio di aprile, chiesi “8 1/2”. E capiì.
Fellini girava per il grande schermo. Girava per il buio. Non era la prima volta che vedevo quel film, ma le precedenti visioni televisive, si!, mi avevano annoiato. Quando lo vidi in sala, beh … il film esplose! L’incubo di Guido, la soggettiva della sua caviglia trattenuta dalla corda, il vento finto, il suo respiro affannoso con un riverbero innaturale … tutto, nel buio di quella sala, trascese e penetrò sotto la pelle per rimanerci.
Quindi? Il cinema appartiene alla sala? I gestori fanno bene a scagliarsi contro Netflix? La proposta di legge di ieri mattina è una battaglia giusta?
La mia risposta è: con queste sale, no. L’esperienza di visione, in moltissime sale cinematografiche italiane oggi è peggiore rispetto ad una visione su uno schermo casalingo decente, seduti in silenzio sul divano di casa. Amen. Si, certo, tecnicamente la qualità dello schermo è più alta, c’è la questione luce diffusa vs. luce emessa, il contrasto è migliore, la gamma cromatica è più estesa, l’audio è più avvolgente, ma … poco di questo rimane in testa quando ripensi al film e, al contrario, il bombardamento di spot pubblicitari, l’incivile maleducazione dello spettatore al tuo fianco che si mette controllare il telefono, lo schermo un po’ fuori fuoco, i bassi che clippano appesantiscono la fruizione, innervosiscono, distraggono dal film. Questa esperienza di visione non solo non è migliore di quella casalinga, ma non è nemmeno da promuovere. “Una giornata particolare” è nella top 5 dei miei film preferiti di sempre e non l’ho mai visto al cinema. Quindi?
A che serve la sala cinematografica?
Di sicuro non a salvare il cinema. Il cinema sta benissimo di suo e sta migrando su altri lidi, come ha sempre fatto, fregandosene di questi tentativi di appiccicosa “tutela”. Pff.
In un mondo di serie televisive sempre più ricche ed emozionanti, sempre più stupendamente cinematografiche, cos'è che differenzia la visione in sala dal binge-watching sul televisore? Perché "8 1/2" funziona così tanto nel buio della proiezione?
Perché la sala cinematografica è la "non-tv".
Lo specifico di una sala non sta tanto nella qualità audio video, quanto nel fatto che non puoi scappare. La proiezione non si ferma per farti andare in bagno, non ci sono altre distrazioni, non squilla il timer del forno. Ad un regista viene offerta un'opportunità che sullo schermo casalingo non ha. La possibilità di tenere lo spettatore nelle sue mani per un paio d'ore. Specie nella nostra contemporaneità è un'opportunità incredibile quella di potersi rivolgere al pubblico in modo esclusivo. Ricevendo un'attenzione non divisa. E questa opportunità ti permette di osare! Come? Così ...
Quest'anno si è celebrato l'anniversario di "2001: Odissea nello Spazio" e, Grazie alla Warner, a Nolan e a Jan Harlan, abbiamo avuto tutti la fortuna di poterlo rivedere al cinema. Per tanti di noi fan è stata la prima volta in sala (ne ho parlato qui). Ma ricordate come comincia il film? Non con il logo MGM. No, "2001: Odissea nello Spazio" comincia con la musica! Prima del primo fotogramma del film la sala ascolta 3 minuti della suite "Atmosphéres" composta da Györgi Ligeti nel 1961. Ed è un'esperienza straniante. Assistere a 3 minuti di musica contemporanea davanti ad uno schermo nero in una sala buia è una sensazione al contempo nuova e disturbante. Kubrick, infatti, coglie quell'opportunità di cui parlavamo e osa! Si prende il suo spazio ponendo un diaframma tra il mondo e il film. Il segmento musicale è un portale, simile a quello che Bowman attraverserà alla fine del film. Un portale buio che precede un portale di luce.
A che serve la sala, quindi?
La risposta di Kubrick è chiara: serve a celebrare una liturgia. Un cinema serve ad officiare una messa. La sala deve essere un tempio. Quando i gestori torneranno ad amare il film (e a farci i soldi, certo, ma perché amano il film) allora i registi torneranno a girare pensando alla sala, come faceva Fellini. Pensate allo splendido “Roma” di Cuarón. L’avete visto? Esce tra poco, recuperatelo. Quel film è un’opera splendida pensata per lo schermo tv. Che va benissimo! La fotografia è struggente, le inquadrature sono potenti. E Cuarón, che sa fare il suo mestiere, ha girato per il piccolo schermo. Non per la sala. “I figli degli uomini” era pensato per la sala, questo no. E non è un problema. La tv è solo un mezzo, un formato. Quando sei bravo lo usi a tuo vantaggio, così come Allen sfruttò controintuitivamente il formato panoramico per un film intimo come “Manhattan” facendolo suo, spezzandolo, rielaborandolo.
Ecco perché non ha davvero senso puntare i piedi e dire “No! I film passano prima al sala!” Perché nemmeno il cinema stesso ha, oggi, tutta questa necessità di passare in sala.
Se davvero vogliamo riconsegnare rilevanza alla sala cinematografica, trasformiamola in tempio. Se le politiche culturali vogliono ripristinare il ruolo centrale dell’edificio cinematografico, allora che promuovano la garanzia di una corretta esperienza di visione. Che il film che sto pagando per vedere cominci senza pubblicità e che costi di meno che un mese intero di abbonamento a Netflix. Che la proiezione sia perfetta e perfettamente calibrata. Che si garantisca il rispetto per i vicini di posto. Che si ripropongano, al grande pubblico, film come come “8 1/2” o “La cosa”, “Die Hard”, “The Raid” o anche “Il secondo tragico Fantozzi” (che a livello fotografico è un capolavoro dimenticato). Film che vivono per la sala. E si faccia formazione! Si parli di tecnica e di artigianato del cinema. Si propongano al pubblico mainstream i cortometraggi, quelli belli, tirandoli finalmente fuori dal ghetto dei “festival” e offrendoli al gusto non autoreferenziale del pubblico pagante.
Così si fa crescere una sana cultura della cinematografia, e così la sala torna ad appropriarsi di tutto quello che casa tua non può offrire. Un luogo in cui andare a godersi uno spettacolo pensato per il tempio e non per la tv.