Prima di parlare di Psycho, una breve introduzione sul progetto "Osare l'inosabile".
È il 12 ottobre 1985. Rorschach annota nel suo diario sapide impressioni sulla morte del Comico e sul degrado a cui il mondo è condannato.
Inizia il lungo e imprevedibile viaggio dello Watchmen fumettistico by “l’autore originale” (uno degli appellativi riservati ad Alan Moore, laddove il Mago non permette che il suo nome sia evocato) e il “co-creator” Dave Gibbons. Un’opera che, influenzando e “toccando” ogni ambito del comicdom supereroistico e non solo, nei decenni successivi si sarebbe trasformata in un monumento inaccostabile. Anzi, INTOCCABILE.
È il 20 ottobre 2019. HBO trasmette il primo episodio della serie tv Watchmen di Damon Lindelof. A dispetto dello scetticismo e delle aspettative livorose (e anche delle possibili maledizioni del co-creator rimasto senza nome), l’opera intoccabile ha ufficialmente un seguito.
Non pavido, non timido e, men che meno, religiosamente genuflesso.
Remake, sequel, reboot e sample sembrano essere i vettori stilistici di un secolo iniziato in retroguardia, con la celebrazione del (paradossale) centenario del Futurismo. Qualcosa a cui Marinetti e sodali avrebbero risposto con “lo schiaffo e il pugno”, altro che festeggiare.
Non pare esistere un limite (etico?) allo sfruttamento del passato. Nè d’altro canto il passato sembra destinato a uscire dalle nostre vite. Nelle quali, è un esempio fra i tanti, strimpellano ancora tutti insieme i musicisti degli ultimi sei decenni: Paul McCartney e Ringo Starr, Bob Dylan, Rolling Stones, Deep Purple, Page & Plant, Duran Duran, Spandau Ballet, Pearl Jam ecc..
Costringendoci (felici?) a galleggiare in un eterno presente senza approdo.
Eppure...
Eppure nella storia delle arti non sono mancati slanci irragionevoli in cui la rilettura di un’opera “intoccabile” ha saputo affrancarsi dalla prevedibilità e dalla reverenza per mezzo della sfacciataggine, l’arroganza, spesso la sconsideratezza. Superando l'azzardo. Rasentando la follia. Lambendo o abbracciando la blasfemia.
Occasioni in cui un autore - esattamente come Lindelof, ultimo fra tanti - ha puntato il proprio nome e la propria faccia su una scommessa apparentemente impossibile da vincere.
Non parliamo di riletture moderne di temi e opere classiche, perché l’anacronismo sfrontato fa parte del gioco delle arti almeno dai tempi di Caravaggio.
E nemmeno di sfida alle regole di un genere, come fa Cervantes nel Don Chisciotte della Mancia. O alla propria stessa committenza, una pratica ricorrente nel lavoro degli artisti più grandi dal Rinascimento in avanti. Non parliamo di derivazioni da capolavori immortali, come le installazioni pittoriche di Peter Greenaway. Né degli shock dell'arte contemporanea, che in molti casi proprio su di essi fonda la propria identità. Né, infine, del portare a termine opere irrimediabilmente incomplete e altrimenti impossibili da fruire, come hanno rischiato di essere l’A.I. di Stanley Kubrick/Steven Spielberg o il Don Chisciotte di Orson Welles/James Franco.
No. Qui racconteremo di ingiurie creative. Di vere violazioni di templi della cultura accademica e pop. Edifici sacri nei quali si dovrebbe entrare in silenzio e con il capo chino. E dove invece, fra la folla di fedeli inginocchiati, irrompe un pazzo nudo, sporco e urlante impudicizie. Suscitando le ire dei “fedeli” (cioè i fan dell’opera originale) pronti a giustiziarlo (digitalmente?).
Insomma parliamo di cose che non si dovevano fare.
Eppure qualcuno le ha fatte.
E, in qualche caso, gli è anche andata alla grande.
Cominciamo, in ordine cronologico sparso. Perché, come sappiamo bene, nell’universo del Dottor Manhattan ogni frammento del tempo è simultaneo a ogni altro.
IL REMAKE DI PSYCHO
Tagliare e fare a pezzi. Con la macchina da presa.
È il 4 dicembre 1998. Nei cinema statunitensi esce Psycho. Esattamente come l’aveva pensato il suo autore: Alfred Hitchcock.
E fu un flop colossale.
Psycho è forse il primo film, fra quelli cui era impensabile avvicinarsi, ad aver subito il sacrilegio. Poi sarebbe toccato ad altri e in modi diversi. Titoli come 8 1/2 , Blade Runner o Star Wars.
Gus Van Sant non è uno sprovveduto. Nel 1998 è un regista che ha già fatto cose rilevanti e molte ne farà in futuro. Ha firmato film notevoli, ha diretto attori importanti e altri, River Phoenix e Keanu Rives, ha contribuito a lanciarne. Si muove benissimo nel guado che separa le dinamiche del cinema industriale e il gusto indie. Tanto da arrivare alla candidatura all’Oscar per Will Hunting – Genio Ribelle, che di statuette se ne porta a casa comunque un paio (quella per la Migliore Sceneggiatura Originale finisce nell mani di due con la faccia di Matt Damon e Ben Affleck. No, non è una gag di Kevin Smith).
La credibilità guadagnata gli permette di imbarcarsi in quella che passerà più per un’operazione pop che cinematografica: il remake shot for shot (taglio per taglio, in tutti i sensi) del capolavoro hitchcockiano.
Un’iniziativa del genere è una rarità di solito giustificata da ragioni commerciali (Funny Games 2008 di Michael Haneke, rifacimento in lingua inglese del suo omonimo film tedesco del 1997) o dall’uso di una tecnica cinematografica nuova (Il Re Leone del 2019, con il finto live action computerizzato al posto dell’animazione tradizionale del ‘94).
Più hitchcockiano di un Brian De Palma posseduto da Dario Argento, Gus ripercorre quasi pedissequamente il film del 1960. Uniche differenze sono gli attori, il colore, qualche oggetto di scena e alcuni fotogrammi subliminali “d’autore” inseriti negli omicidi (la sequenza della doccia passa da 47 a 52 tagli di montaggio).
Le musiche-remake di Danny Elfman, che aveva già riscritto soundtrack altrui nel Mission Impossible di De Palma (toh, rieccolo!), sostituiscono con discrezione la partitura capolavoro di Bernard Herrmann.
L’esito di questo sforzo, oltre alla debacle commerciale, è un bel Razzie Award a Van Sant come peggior regista dell’anno. E poco altro. Attualmente nessuno parla più dello Psycho di fine millennio. Se si eccettua l’iniziativa di fusione alchemica dei due film da parte di Steven Soderbergh in Psychos, un ulteriore mostro metacinematografico non privo di fascino.
Va detto che in seguito Gus si rifarà con nuove candidature agli Oscar e diverse Palme D’Oro al Festival di Cannes. Ma pensare di rifare Psycho è stato sicuramente un’empietà.
Tuttavia, in fondo, va bene così. Perché anche Psycho è la storia di un “remake”: un figlio che si traveste da madre e ne rimette in scena, come un regista, le ossessioni. E una storia di tagli che finisce molto male per il suo protagonista.
Ma finire male non vuol dire non poter sperare in un riscatto. Questo vale per Gus Van Sant. Vale per Norman Bates, che con la faccia di Anthony Perkins era già tornato in ben tre sequel (trisacrilegio!). Vale per molti protagonisti del continuum narrativo per cui il domani, molte volte, è soltanto “un altro giorno”.