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Non solo sparatorie: come alcuni shooter hanno tradotto la fantapolitica

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Analizzando alcuni celebri shooter, vediamo in che modo giochi come Call of Duty o Battlefield hanno tradotto la fantapolitica letteraria

È possibile tradurre un concetto o un insieme di essi attraverso un medium? Spesso nei miei articoli faccio riferimento al verbo “tradurre” per evidenziare lo stato di interpretazione di un concetto; ossia quell’insieme di informazioni e stilemi che l’autore decide di sfruttare per idealizzare un suo progetto.

Sul piano letterario, cinematografico e fumettistico, le traduzioni concettuali avvengono con estrema organicità, sottolineando come questa sia una metodica non semplicemente condivisa, ma incorporata. Ma nel videogioco? Può questo medium attuare lo stesso procedimento?

Fra la moltitudine di esempi che avrei potuto scegliere, ne ho selezionato uno che potrei definire “desueto”, insolito, più semplicemente “poco ortodosso”: lo shooter.

Il genere sparatutto gode e godrà di un pubblico profondamente disomogeneo; forse la più alta varietà della platea videoludica. I termini per cui il genere sparatutto risulta così appetibile è dato indubbiamente dalla sua alta rigiocabilità, in particolare quando questa sfocia in contesti competitivi. Tuttavia non sono le componenti multigiocatore a definire l’argomento di questo articolo, bensì la storia che il gioco si prefissa di raccontare. Questo è l’argomento relativo alla core story di questo mese, ossia capire quali elementi concettuali hanno portato alla scrittura di alcuni dei più celebri franchise degli ultimi due decenni.

Troppo frequentemente si tende a sottostimare la caratura narrativa dietro un videogioco sparatutto, e le ragioni sono spesso celate dietro l’alto volume dinamico dell’azione, la scarsa interazione con l’ambiente e l’organico che questo offre, eppure negli ultimi vent’anni abbiamo assistito a qualcosa di veramente interessante, un qualcosa che mi ha portato, nel tempo, a tentare di voler decostruire proprio alcuni di quei sparatutto.

Su queste pagine ho più volte citato in causa il thriller tecnologico (o Techno Thriller per gli esterofili), il più delle volte per esemplificare alcune scelte stilistiche interne ad alcune opere. Vi dico già da ora che anche questa non sarà un’eccezione.

Nel corso degli ultimi quarant’anni, molte penne da sempre affrancate al genere, hanno cominciato a virare con frequenze sempre maggiori, verso lidi più cinetici, in cui gli argomenti da sempre impiegati nel sopracitato techno thriller, venivano “tradotti” in contesti più action. Non c’è nulla di male ovviamente, ma non possiamo non notare come questa commistione abbia generato dei fenomeni editoriali tutt’altro che banali. Tom Clancy in primis.

il bel faccione di Tom Clancy

Per molti il nome di Tom Clancy è riconducibile prevalentemente al prefisso di alcuni iconici brand Ubisoft: Ghost Recon, Splinter Cell, The Divison o Rainbow Six. Permane però un dettaglio fondamentale: per quale ragione la figura di Tom Clancy è affiancata proprio a quei videogiochi?

Prendendo in esame Rainbow Six, è possibile notare come l’immaginario plasmato da Clancy nel suo omonimo romanzo, abbia direttamente influenzato la costruzione e la formazione di quel franchise, ove il processo di traduzione ha coinvolto un’ampia parte di quei concetti contundenti propri del romanzo di Clancy. Deduciamo quindi che il medium del videogioco si è avvalso della proprietà intellettuale dello scrittore per poter definire non uno, ma una lunga serie di videogiochi i cui contenuti non si riducono alla semplice sparatoria.

Rainbow Six (Ubisoft 1998)

Al di là dei brand sopracitati, esistono a mio avviso degli esempi ben più complessi, nonché casi in cui quelle componenti, soprattutto di linguaggio, contribuiscono a definire una narrazione ben più verticale di quanto effettivamente appaia.

Call of Duty e Battlefield rappresentano l’equivalente videoludico di due squadre di calcio della stessa città; due titoli differenti nel contenuto, ma simili sul piano ludico.

Nei due franchise la traduzione più rilevante è da osservare nella costruzione delle dinamiche circostanziali. Definiremo “elemento d’innesco” quelle funzioni narratologiche che svolgono il compito di introduzione degli eventi. in entrambi i casi l’elemento d’innesco è riconducibile ha delle escalation geopolitiche, in cui dei fattori esterni hanno innescato l’elemento di crisi sufficiente per poter introdurre l’azione dei personaggi.

In Call of Duty 4: Modern Warfare (Activision 2007), ci viene mostrato uno scenario figlio della migliore fantapolitica: dapprima una guerra civile in Russia in cui alle forze governative si oppongono falangi nazionaliste - o più generalmente di differente credo sociopolitico - (dettagli la cui ispirazione storica andrebbe osservata nel Putsch di agosto o nella Crisi Costituzionale del 1993), per poi mostrare l’intervento di truppe di terra statunitensi in una non meglio località mediorientale, il cui scopo è deporre un generale golpista accusato di aver condotto il colpo di stato che ha portato al rapimento e all’esecuzione sommaria del presidente legittimo (numerosi sono i riferimenti agli impieghi delle forze armate americane post 11 settembre, da Enduring Freedom a Iraqi Freedom).

La vicenda si concluderà con l’esplosione di un ordigno nucleare con la conseguente morte di tutte le forze della coalizione ONU a guida americana sul campo. Nel mentre avremo l’occasione di vestire i panni di un operatore dello Special Air Service (S.A.S) britannico, che fungerà da collante per l’intero intreccio della narrazione.

Questi dettagli non solo definiscono la dovizia del team creativo, ma rappresentano quegli elementi adeguatamente “tradotti” dal retaggio storico contemporaneo e dalla creatività di autori come Tom Clancy, ma anche Andy McNab, Mark Owen o il grande Robert Ludlum.

Nei due sequel, Modern Warfare 2 (2009) e Modern Warfare 3 (2011), assistiamo all’evoluzione iperbolica dello scenario, in cui ai precedenti elementi d’innesco se ne aggiungono di nuovi, come nel caso di No Russian. Questo specifico capitolo di Modern Warfare 2 indica, attraverso l’estrema rappresentazione di un attentato, la fenomenologia del False Flag, nonché quella manovra clandestina atta a depistare l’opinione universale di una singola istituzione o di un popolo.

Il False Flag è stato ripetutamente utilizzato nel corso della moderna storia militare, soprattutto in seno a contesti in cui era necessario incolpare qualcuno o alcuni, affinché questi potessero rappresentare il precedente necessario per l’avallo di un intervento. Incolpare qualcuno per innescare qualcosa di drastico, come la guerra. Questa forma di strategia della tensione è senza alcun dubbio il più potente elemento (in questo caso di fantapolitica) presente in Modern Warfare 2, dove una strage all’aeroporto di Mosca, spingerà la nazione alla guerra. Questo particolare fenomeno è presente nel romanzo di Clancy The Sum of All Fears (Paura senza limite), a riprova del fatto che l’eredità creativa dell’autore permei questo genere di produzioni videoludiche.

Prima di concludere con Call of Duty, vorrei analizzare una piccola serie di componenti presenti in particolar modo nel reboot Call of Duty: Modern Warfare (Activision 2019). Come molti avranno notato, in questo capitolo sono presenti delle manovre d’irruzione in assetti abitativi, in cui è possibile notare dei dettagli di un certo peso. Le irruzioni sono parte del franchise da tempo immemore, tuttavia il margine che incorre fra le precedenti rappresentazioni e quelle viste nel reboot, sono colossali.

Al di là del fotorealismo visivo, qui le irruzioni presenti vengono considerate delle vere e proprie missioni, e non semplici intermezzi come nei precedenti capitoli. Inoltre la riproduzione dell’intera manovra sfiora il realismo: dall’adozione dei fondamenti del Close Quarter Combat (CQB), alla sequenzialità delle procedure di room clearing, fino al movimento dinamico, come l’attuamento di tattiche per la sovrapposizione dei punti di fuoco. Inoltre i sistemi d’arma coinvolti (con le relative configurazioni), aumentano sensibilmente l’immersione e l’accurata riproduzione di questi interventi; senza alcun dubbio fra i momenti migliori dell’esperienza di gioco.

In Modern Warfare è mimetizzato, nel bel mezzo della struttura narrativa, un fatto storico dal forte impatto iconografico, e mi riferisco alla sequenza in cui viene mostrata la Highway of Death (l’Autostrada della Morte), tratto stradale in cui sono ben visibili i resti di un bombardamento ai danni di coloro che la percorrevano. Nel contesto ludico, l’autostrada venne bombardata dai russi durante l’invasione del fittizio stato in cui è ambientata l’opera.

L’accaduto è stato trasposto da un fatto verificatosi nel 1991 nella porzione dell’Autostrada 80 che collega Kuwait City a Bassora, in Iraq. Durante le fasi calanti del conflitto, le truppe irachene in ritarata sulla strada, furono soggette a un pesante fuoco di saturazione da parte della coalizione a guida americana, che colpì e distrusse la quasi totalità dei veicoli in transito. Ancora oggi non è correttamente stimabile il numero effettivo delle vittime.

In molti hanno pesantemente criticato la scelta di inserire questo elemento di riferimento nel gioco, tuttavia, al di là del valore etico che si vuol dare a tale scelta, bisogna anche in questo caso riconoscere la validità non solo del medium, ma anche del genere, nel essere riuscito a contestualizzare correttamente (seppur con il falso storico attribuito ai russi) l’elemento nel gioco.

Se Call of Duty (di cui si potrebbe parlare ancora molto) mostra aspetti verosimili di una narrativa fantapolitica, Battlefield non è certamente da meno.

Battlefield 3 (EA 2011) lo ritengo il miglior capitolo della serie, non troppo per dinamiche ludiche, quanto per scrittura. In una cornice geopoliticamente fittizia, si concretizza il sogno bagnato americano di invadere la Repubblica Islamica dell’Iran. Dal 29 gennaio 2002, giorno in cui l’ex presidente George W. Bush definì le linee del suddetto Axis of Evil (l’Asse del Male), gli Stati Uniti (con unanimità bipartisan) hanno nuovamente idealizzato l’Iran come uno stato canaglia sostenitore del terrorismo.

Un rapporto contorto e complesso quello fra Washington e Teheran, che si dipana nella storia dai tempi della Rivoluzione Islamica e dello scandalo Irangate. Tuttavia dopo l’11 settembre, quella ferita mai saturata è tornata a sanguinare… copiosamente. Non pochi sono stati i tentativi del Pentagono di rovesciare la teocrazia iraniana, e proprio recentemente, prima che la pandemia rubasse la scena, i venti di guerra sembravano aver ricominciato a soffiare. Nella fiction militare, i due paesi si sono scontrati più volte, giocando in alcuni casi una partita a tre, come in Sword Point (Inferno sul Golfo) di Harold Coyle, dove l’Iran funge da palcoscenico per uno scontro convenzionale fra Stati Uniti e Unione Sovietica.

In Battlefield 3, proprio quella premessa contenuta nello storico discorso di Bush (ossia che gli Iraniani sostenevano il terrorismo), funge da apripista per la storia mostrata nel titolo Electronic Arts. La cura nella costruzione della diegesi del gioco è notevole, mostrando una logica d’intervento puramente da romanzo di fantapolitica. Raid dal mare mediante missili cruise, seguiti dall’intervento dell’aviazione di marina, e infine l’invasione terrestre, con tanto di carri Abrams in giro per le vie della capitale (ho motivo di credere che le linee guida siano una commistione fra gli operati americani durante la prima e seconda Guerra del Golfo). Ovviamente questa parte trasuda di eccezionalismo americano, se non fosse che la storia vira bruscamente verso zone decisamente più occulte e intrigate, portando a galla un contesto degno di Jack Ryan.

Possiamo a questo punto dire che, fra un fiume di proiettili e un mare di missili (pessima, ma concedetemela), è nuovamente presente quell’impronta che ha reso celebri alcuni autori da dieci milioni di copie. Un connubio di fantapolitica, geopolitica, e storia militare – e anche sociale – contemporanea.

Ometto Battlefield 4 non per mancata corrispondenza con i topoi dell’articolo, ma perché vorrei dedicare quest’ultima parte a un titolo decisamente meno conosciuto, ma di gran lunga più pregiato: Spec Ops: The Line (2K Games – 2012).

Questa perla di gioco differisce radicalmente dai titoli trattati finora. In questo contesto non ci sono guerre mondiali o terroristi di sorta, bensì un battaglione di disertori piuttosto diffidenti verso il loro vecchio datore di lavoro. Semplice? No. Partiamo definendo il particolare estetico che risalta subito agli occhi: il setting. Ben oltre dall’essere definito “poco ortodosso”, datosi che ci ritroveremo in una Dubai proto-distopica in cui catastrofiche tempeste di sabbia hanno restituito la metropoli al deserto.

Qui dovremo infiltrarci nella suggestività di una città desertificata, in cui i lasciti dello sfarzo e del capitalismo oligarchico, lasciano spazio alla desolazione e alla puerilità del vecchio retaggio. Nell’osservare quel mondo un tempo patinato e ora ridotto a miliardi di granelli di roccia sedimentaria, non si può non provare gaudio, ed è forse una delle ragioni per cui ho amato questo videogioco.

Premessa a parte, la struttura narrativa orbita su un’unità scelta il cui compito è indagare e individuare il battaglione e il suo comandante (con echi di Cuore di Tenebra); dettaglio non da poco considerato che definisce la parentela stilistica con gli argomenti trattati fino a questo punto. Partendo dai più basici aspetti militari che permeano l’esperienza di gioco (fra cui armi con siglature ufficiali), passando per contesti e circostanze all’limite dell’interiorizzazione, in cui viene messa a nudo la vita del soldato costantemente infestata da scelte etiche borderline. Tutto ruota attorno a quella linea da non oltrepassare.

In conclusione, abbiamo quindi analizzato i concetti che lo shooter ha tradotto dalla letteratura di genere e dalla storiografia moderna, evidenziando come – al netto di un gameplay il più delle volte semplice – la storia che il gioco si prefigge di mostrare, di semplice, a volte, non ha proprio nulla.

P.S: Ho volontariamente omesso quella lunga lista di shooter inseriti in un contesto storico non fittizio – i vari Medal of Honor o alcuni Call of Duty – in quanto necessitano di analisi diametralmente opposte a quelle fatte in questo articolo. (arriverà anche quello)

 

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