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Night in the woods, la vita, l'universo e tutto quanto.

“Night in the woods” di Alec Holowka, Scott Benson e Bethany Hockenberry è un titolo indie che ha fatto molto parlare di sé. Uscito nel 2017 da Infinite Falls e pubblicato da Finji, ho avuto modo di giocarlo solo di recente, approfittando di un’offerta su Epic Games su consiglio del buon Fantoni. E l’ho trovato davvero molto interessante: al punto di aver deciso di scrivere, sebbene i videogames siano al di fuori della mia “zona di comfort” sotto il profilo della scrittura.

Chiariamo subito: con “Night in the woods” ci troviamo nell’ambito di un adventure fortemente story-driven, che per i giocatori più hardcore potrebbe essere quasi al limite del videogame. In effetti, le scelte di gioco condizionano in modo solo parziale l’avanzamento della storia, limitandosi a fornire alcuni dettagli in più del quadro generale. Il punto è che questa trama è davvero interessante e stratificata, si sposa perfettamente con gli altri elementi del gioco, e tocca con rara grazia tematiche complesse: la vita, l'universo e tutto quanto, appunto, per citare l'immortale Douglas Adams.

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La protagonista, Mae Borowski, è una gatta ventenne in un mondo di animali antropomorfi, che torna a casa dopo aver abbandonato l’università. Qui deve tessere di nuovo i rapporti sociali con la famiglia, coi vecchi amici, in interazioni piuttosto lente che però permettono di approfondire notevolmente le relazioni e la psicologia dei personaggi, anche grazie a una scrittura particolarmente efficace e brillante dei dialoghi. Intrecciato con questi aspetti della vita ordinaria (che sono in verità il focus principale del gioco) c’è anche una intrigante trama esoterica che porta Mae e i suoi amici a investigare sui misteriosi culti dal sapore lovecraftiano che si celano sotto la patina di apparente normalità.

Il disegno cartoonesco di “Night in the woods”  ha una notevole efficacia nel far risaltare, per contrasto, questa trama piuttosto matura nelle varie tematiche affrontate. Viene da pensare a un cartoon come Bojack Horseman, dove i disegni di Lisa Hanawalt creano un perfetto contrasto con i temi adulti e angoscianti della storia (rimando a un mio pezzo sul mio blog dove accennavo di tali questioni). Il riferimento, per entrambe le opere, è a mio avviso una decostruzione del segno di Richard Scarry, che ha una particolare valenza essendo, per molti della mia generazione – ma anche di quelle successive, spesso per tradizione famigliare – uno dei primi rimandi all’infanzia. Un gioco simile a quello sviluppato da molti, nel fumetto, su altri segni cartoonistici: cruciale la lezione di Maus di Spiegelman, che riparte dal segno di Krazy Kat di Harriman; e ancor prima, negli anni ‘50 al cartoon di Animal Farm, che riparte dal segno Disney. E molto “fumettistico” è anche il modo per la rappresentazione dei dialoghi, con i classici balloon di testo (anche se bianchi su fondo nero).

In modo simile, sotto il profilo videoludico – in forma più semplice per quanto riguarda il gameplay – viene in mente al giocatore meno specialistico soprattutto l’immaginario della LucasFilm degli anni ’80-’90, similmente basata su scambi di dialoghi ironici e brillanti. L’altro elemento videoludico, a parte alcuni minigames che pagano tributo a Guitar Hero (semplificato) e ai giochi a 8 bit, è il rimando al classico platform: a parte le sequenze di dialogo, l’unica altra interazione consistente è saltare in giro per i vari ambienti bidimensionali, in un sistema di gioco comunque più semplice dei grandi classici del genere.

Un cumulativo effetto nostalgia, dunque, che se da un lato è anche un’astuzia per suscitare nel giocatore una mozione degli affetti, è un’astuzia pienamente legittima: tutta l’opera è infatti giocata sul fil rouge della nostalgia di Mae che torna a casa e trova una realtà, dopo pochi anni, ormai mutata, con il mondo della sua adolescenza che va svanendo.

Il tema della nostalgia ricorre anche a un secondo livello più profondo, quello che potremmo definire politico: ovvero la narrazione del declino di tutta una realtà di piccole cittadine operose della Rusty Belt, condannate ad una melanconica crisi irreversibile. Ma, sotto questo tema della nostalgia, che ritengo presente, c’è un’analisi molto più attenta sia delle dinamiche psicologiche che di quelle sociali, in entrambi i casi sviluppati tramite la metafora della “buca” (“the hole”), del “vuoto al centro” che sta condannando sia la protagonista, sia la città di Possum Spring.

Per quanto riguarda lo sviluppo psicologico della protagonista Mae, i suoi problemi adolescenziali e attuali sono legati alla percezione del non-senso (del resto simboleggiata anche dalla maglietta con uno zero spaccato, il simbolo del nichilismo), per cui tende a vedere, a tratti, la realtà come un puro insieme di forme prive di senso. Una percezione che confina da un lato con reali sindromi dissociative, in una scrittura del disagio psicologico ritenuta da molti attenta e rispettosa; ma dall’altro anche una riflessione filosofica raffinata sul senso della realtà.

Con, ovviamente, un interessante piano metanarrativo: nel caso della protagonista, questa percezione è reale, poiché è la protagonista di un videogame (e la cosa è intenzionale: nel proseguire della trama, si scopre la prima crisi di realtà le viene quando, da ragazzina, si era appassionata a un videogame come se i personaggi fossero reali, per rendersi poi conto che erano solo ammassi di pixel...). Una scelta che può ricordare in parte quella di Undertale, costantemente giocato su questa metanarrazione, ma che qui resta più sullo sfondo.

Per quanto riguarda l’analisi del declino della cittadina di Possum Spring, l’analisi politica è impeccabile. Anche qui il problema è “il vuoto al centro”, “the hole”: sia nel senso materiale (le buche prodotte dall’assenza di fondi per la manutenzione cittadina), sia lo svuotarsi del centro con la costante chiusura di negozi, mentre anche il Mall di Fort Lucenne è a sua volta in crisi per il trionfo assoluto dell’impersonale e-commerce. E, ovviamente, un gigantesco “buco”, simbolico e letterale, sono le attività minerarie, ormai abbandonate (e che si vorrebbero recuperare in una velleitaria chiave turistica). Il tutto, va detto, condotto non in modo pedante, ma lasciato trapelare in modo abbastanza spontaneo nei dialoghi dei personaggi, particolarmente affilati in un raffinato umorismo agrodolce.

“Night in the woods” è, in questo, quasi un anti-Stars’ Hollow, per certi versi.

L’eccellente scrittura di Amy Sherman-Palladino in "Gilmore Girls", probabilmente tra le migliori serie tv in assoluto, sotto questo profilo, ci presentava una idealizzazione della piccola città – consapevole, ma comunque irrealistica. Qui una realtà simile viene rappresentata con un caso medio molto più credibile e significativo dei reali conflitti sociali in corso, a cui si collega anche la trama sovrannaturale, sotto un profilo metaforico al limite fin troppo scoperto. Forse c'è proprio una citazione intenzionale: Possum Spring è in Deep Hollow County. Ma si tratta di nomi comuni in USA.

A questi due piani si collegano ancora, almeno, il piano puramente filosofico, dove l’opera conduce un interessante ragionamento ateistico, condotto in modo sottile e convincente (la pastore K, ad esempio, è una figura positiva per il suo impegno sociale, ma alla fine deve confessare la sua impotenza davanti al non-senso, se non in una mozione irrazionalistica): gli dei qui esistono, ma sono solo entità oltre la nostra comprensione, indifferenti a noi o ostili come potrebbe esserlo una forza naturale di scala cosmica, ovvero non per una malvagità proiezione dell’umano.

Divinità lovecraftiane, certo, ma sviluppate secondo un filone che può rimandare agli dei indifferenti negli intermundia di Lucrezio o alla natura dell’Islandese di Leopardi, più che alla declinazione puramente orrorifica che spesso si è data del maestro di Providence. Anche qui, al centro di tutto vi è un “grande vuoto”. Singolarmente, è “leopardiana” anche la pur flebile “pars costruens” (Mae sopravvive, ma non “vince” contro le forze oscure, che rimangono presenti): la cosa positiva dell’umano è la sua capacità di stabilire relazioni e di creare pattern di senso (come nell’identificazione delle costellazioni, che hanno un ruolo importante nella trama, e si ricollegano a diversi mini-game presenti). La "social catena" della Ginestra, in pratica.

Certamente, la volontà di Mae di resistere nonostante tutto passa anche per il pur flebile aspetto videoludico: la sua capacità – del resto, è un gatto... – di saltare le permette di opporsi all’abisso che la vuole trascinare giù in più di una sequenza, in senso letterale e simbolico.

Come detto, l’aspetto rilevante di “Night in the woods” è sia la capacità di far passare questi concetti in modo sfumato e non didascalico (e con una gradualità: più si esplora a fondo il gioco, più emergono), sia la capacità di creare sottili risonanze tra ogni parte del gioco (ad esempio, i problemi psicologici di Mae si collegano anche ai tagli ai servizi di assistenza sociale). Anche il commento sonoro ci è sembrato molto accurato, così come la fluidità del gioco (salvo appunto la modesta parte ludica in senso stretto).

Molti hanno evidenziato, in altre recensioni, una certa lentezza che può scoraggiare chi cerchi un gioco adrenalinico: ma, più che un difetto, mi pare funzionale alla lenta immersione nella storia, anche nella noia che contraddistingue le giornate di Mae, finché la situazione non precipita. Consiglio di leggere questo bel pezzo di Alessandro Palladino, dove "Night in the woods" è inserito - a margine - in una più ampia riflessione sul "nuovo videogame indie" degli ultimi anni.

Concludo con una nota personale, che condiziona sicuramente il mio parere decisamente positivo sul gioco. "Night in the woods" ci parla della crisi di una piccola città, del senso di impotenza di chi ci torna dopo essere stato via per un periodo più o meno lungo, e tutto ciò colpisce molto chi ci si può ritrovare da vicino, come il sottoscritto. Chi ha una piccola Recanati, una piccola Providence, un dolce Mondovì ridente cui è legato in un rapporto complesso, si troverà particolarmente affratellato a Mae e ai suoi comprimari. Ma i temi universali ben sviluppati sono tali da poter parlare a tutti, e per una stagione vi consigliamo davvero di condividere il lento autunno di Possum Spring.

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