League of Legends compie 10 anni, ma c'è poco da festeggiare
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League of LegendsLa storia del perché League of Legends è stato uno dei giochi più amari degli ultimi anni, e di come si faccia fatica ad ammetterlo.
League of Legends compie ben 10 anni, ed è un’eternità per chi in questi 10 anni è passato dall’adolescenza al terribile mondo degli adulti. Come molti a questo mondo, specialmente intorno ai 6-5 anni fa, ho vissuto il fenomeno League of Legends con un’intensità pazzesca, al pari dei tanti ragazzi che questi giorni se la spassano con Fortnite e con i suoi buchi neri.
Parlare di LoL oggi è molto diverso rispetto a tempo fa, portandomi quindi a un’inevitabile fuoriuscita di ricordi, relazioni ed emozioni che nel bene e nel male hanno accompagnato un lunghissimo periodo di attaccamento al gioco di Riot Games. Non che sia l’unico gioco ad avermi catturato per anni, tornando più addietro potrei citare Ragnarok Online o World of Warcraft, ma tra tutti League of Legends è quello che mi ha lasciato più cicatrici che altro, insieme a tanti rimorsi ed errori che mi hanno portato a stare a molta distanza dal gioco e da qualsiasi cosa gli graviti intorno.
Ed è già strano per me fermarmi a riflettere in questo modo su quanto un singolo MOBA abbia causato così tanto casino nella mia vita durante il suo periodo di massima esposizione, inquietandomi, perfino, quando ripenso alla spirale da “dipendenza” in cui mi aveva fatto finire senza troppi problemi, così come lo ha fatto e lo fa ancora ora con molti giocatori intrappolati in un loop psicologico senza apparente fine. Ma prima di saltare a conclusioni così drastiche, partiamo per gradi.
La mia storia con League of Legends inizia nella sua beta, dove il chiacchiericcio dietro questo nuovo gioco era minimo e derivante dal fatto che fosse un progetto nato da una mod di Warcraft III, la famosa DoTa che divenne poi il gioco di STEAM (DOTA 2) e lo standard per il genere d'appartenenza(e con il nome originale mantenuto), nonostante le origini dei MOBA risalgano a StarCraft II e alla mappa Aeon of Strife, creata nel 1998 da Aeon64. Siamo quindi intorno al 2008 e venivo fuori da una passione viscerale per il titolo di Blizzard come tanti altri, perciò diedi un’opportunità al progetto senza appassionarmici troppo. Interessante, certo, ma terribilmente grezzo e ancora vicinissimo all’essere quasi solo una variante di un gioco già esistente. Non a caso, League of Legends rimase sempre in una nicchia ben precisa fino all’esplosione partita intorno al 2012-2013, anni dove stava pian piano diventando un fenomeno di massa.
Da liceale nel pieno della fine della maturità non c’era davvero niente di meglio del procrastinare compiti e studio per dedicarsi anima e corpo a un videogioco online. Per quanto conoscessi il titolo già da anni, il fattore scatenante per farmici entrare davvero fu il fatto che nella mia classe la proposta venne da gente con cui, abitualmente, non giocavo online o giocavo poco. All’inizio il fatto mi suonò abbastanza sorprendente da convincermi a dare un altro sguardo a quel gioco avevo già scartato e di cui solo recentemente avevo sentito nuovamente parlare, soprattutto in relazione a un impressionante numero crescente di giocatori registrati.
È bastato qualche match per rendermi conto che League of Legends era cambiato profondamente, aggiornando la sua struttura in una forma più precisa, stimolante e ricca dell’identità di cui mancava all’inizio. Certo, campioni come Malphite e Urgot mi ricordavano vividamente il passato del gioco grazie ai loro modelli eccessivamente vecchi se accostati a quelli nuovi di campioni come Viktor o Varus, tuttavia questo contrasto mi rendeva altresì evidente il grande lavoro dell’allora sconosciuto Riot Games.
Era davvero difficile, da ragazzo, convincere i miei amici a dedicarsi a giochi online che avessero un divertimento che richiedesse una dedizione costante
In questa fase League of Legends per me era un ottimo gioco, su cui sembrava costruirsi giorno dopo giorno un regno infinito di novità strutturali o narrative. Si partiva con i primi esperimenti di lore e di backstory; l’introduzione di Varus ne è un esempio lampante così come lo furono anche altri campioni incentrati moltissimo sulle loro terre e sui conflitti di Runeterra. Essendo poi un titolo gratuito, ai tempi meravigliava ancora di più la possibilità di vedere una dedizione del genere, soprattutto se come me si veniva fuori da una vita passata a zompare tra i server privati di MMORPG a pagamento.
Era davvero difficile, da ragazzo, convincere i miei amici a dedicarsi a giochi online che avessero un divertimento che richiedesse una dedizione costante (Grind, programmi da scaricare e inglese da sapere, pagamenti eventuali, etc.), ma con LoL il processo era tremendamente facile: fai un account, scarichi il gioco e inizi a giocare. Non serviva chissà quale computer performante, non si richiedeva una connessione da fibra ottica e nessuna conoscenza pregressa di alcun tipo di genere videoludico. Insomma, il gioco perfetto per aggregarsi con i propri amici online e passare anche solo una mezzora di divertimento al giorno senza impegni o pressioni di qualsiasi genere.
In questa fase League of Legends per me era un ottimo gioco, su cui sembrava costruirsi giorno dopo giorno un regno infinito di novità strutturali o narrative.
Ma era ancora il 2013 e sebbene fossimo scampati alla fine del mondo, restava comunque la maturità da fare e a un certo punto decisi che forse era anche l’ora di dedicarmi alla mia tesi su Neon Genesis Evangelion, oltre che al programma del triennio. LoL rimase una presenza costante fino ad intensificarsi notevolmente negli ultimi mesi di quell’anno, alle porte del mio primo incontro con l’università e all’inizio della scalata al successo di League of Legends.
Verso la conclusione del 2013 conobbi un gruppo di amici esterni al mio ex-liceo proprio grazie al titolo di Riot Games, il quale ormai era un fenomeno più che affermato. Allo stesso tempo conobbi anche la mia attuale ragazza e iniziai la mia vita universitaria come qualunque studente modello farebbe: saltando gli esami e facendosi venire la nostalgia delle interrogazioni nel pieno del panico. Al di là del frangente accademico, il fatto di aver conosciuto un folto gruppo di persone con cui sentirmi in qualsiasi momento con TeamSpeak creò in League of Legends l’equivalente digitale della piazza sotto casa, ovvero un luogo in cui andare e incontrarsi con gli amici.
Come accennato prima, la sua totale diffusione e accessibilità facevano sì che non solo potevo ritrovare queste nuove conoscenze a ogni ora del giorno, ma che potessero accostarsi senza problemi anche ai miei amici del liceo già giocanti, permettendomi quindi di “vedere” tutti in un colpo solo e comodamente seduto a casa. Non che non uscissimo mai insieme, anzi, ma la distanza di ognuno di noi e gli impegni personali ci davano difficilmente il tempo di incontrarci fuori dai fine settimana, mentre nel magico mondo di Runeterra bastava una mezzora libera e un paio di cuffie con microfono per poter sentire altre sei persone e magari divertirsi insieme.
Fino a questo punto, i vantaggi di League of Legends erano papabili e tutto sommato posso senza dubbio constatare quanto i suoi primi anni abbiano contribuito a tenere ben stretta una rete di amicizie che altrimenti sarebbe stata impossibile, sia geograficamente che socialmente. Ed è quello che nel bene o nel male hanno vissuto un po’ tutti come lato positivo del gioco, ovvero l’aggregazione e il gioco di squadra al suo meglio, senza troppo impegno e giusto per avere uno spazio in cui svagarsi dal logorio della vita moderna. Uscendo dal liceo e iniziando la gavetta universitaria, avere un posto in cui non sentirmi un estraneo era una panacea a cui a fatica riuscivo a rinunciare, proprio perché da matricola spesso ci si sente spaesati e privi di obiettivi precisi, specialmente se come me si era inseriti in un corso di laurea dove non c’erano canali o classi obbligatorie. Non ero, e non sono, un esponente della socializzazione e perciò la maggior parte del tempo lo passavo quasi da solo, complici il fatto che molti gruppi si erano già misteriosamente formati e una certa puzza sotto al naso di chi frequentava la facoltà. Ma me ne fregava poco: avevo amicizie fuori dalle aule e con esse passavo la maggior parte del tempo online e offline.
Da come ne ho scritto fin ora si potrebbe concludere che League of Legends sia stato un elemento positivo per la mia adolescenza e in un certo senso non posso neanche negarlo. Se dovessi guardare fino al 2014 circa direi che il tempo speso su LoL sia stato ben contraccambiato da conoscenze significative, alcune delle quali mantengo ancora oggi. In questo apparente vantaggio innocente, come in tutte le cose, arriva un momento in cui i fattori esterni e la natura umana ce la mettono tutta per creare una scintilla in grado di incrinare qualsiasi cosa di bello ci sia. E su League of Legends questo iniziò che l’arrivo delle Partite Classificate e delle Leghe.
Avere un posto in cui non sentirmi un estraneo era una panacea
Mentre la modalità classificata era disponibile fin dalla pubblicazione del gioco, è solamente nel 2013 che vennero inserite le Leghe che tutt’oggi conosciamo grazie agli infiniti meme e sfottò legati al Bronzo. L’inizio del mio percorso nel competitivo, e di quello del gruppo di amici inteso nel più largo dei sensi, è avvenuto proprio nella Stagione 3, facendoci muovere i primi passi nelle Partite Classificate per mera curiosità. L’introduzione dei Tier per i giocatori fu un qualcosa di enorme che da un lato accrebbe la popolarità di LoL proprio perché creava un sistema dove, presumibilmente, potevi raggiungere i gradi più elevati semplicemente giocando e impegnandoti, specie se avevi un gruppo di amici con cui farlo. Io stesso avevo comprato una serie di skin tutte di fuoco per tirare su un improbabile team di campioni ardenti, pronti a fallire nel tentativo di sfondare. Dall’altro lato però iniziò quel percorso che fece passare League of Legends da semplice passatempo ad attività esportiva competitiva, con tanto di ingenti somme di denaro, campionati mondiali e stadi pieni di gente, portandolo poi eventualmente a essere non solo il gioco più visto della storia dello streaming, ma anche quello in cui era maggiormente possibile poter arrivare a essere professionisti semplicemente scaricando il client di gioco.
League of Legends era l’equivalente digitale della piazza sotto casa, un luogo virtuale in cui bastavano un paio di cuffie e una connessione per incontrarsi con gli amici.
La partenza del mio – e nostro – approccio a questo fenomeno fu tiepido, consci del fatto che come gruppo di giocatori casual non potevamo raggiungere chissà quale risultato. Poi però arrivò la consapevolezza di essere gente che tutto sommato giocava praticamente ogni giorno, che si coordinava in team e che ormai era da parecchio tempo che conosceva il gioco e otteneva risultati soddisfacenti. Vincendo poi in Classificata, poche partite intendiamoci, il sapore del successo aveva tutto un gusto diverso, proprio perché sembrava di star competendo chissà a quale livello diverso dalla Partita Rapida. Ed è in questa chimica di sentimenti e aspettative che si fondò il vero fenomeno di Riot Games, lo stesso che gli permise di avere un padiglione tutto suo al Lucca Comics and Games e che portò l’invasione dei cosplay dei suoi campioni in qualsiasi fiera esistente. La scalata parallela di Twitch, inoltre, contribuì alla diffusione mediatica del gioco e delle gesta mirabolanti dei professionisti, tutti sotto lo slogan del “Ehy, se ti impegni puoi farlo anche tu”, che perfino adesso risuona dai nomi più famosi della community. Anche i grandi sono partiti dal basso, pure Faker o xPeke, perché non ci può riuscire uno qualunque? Guadagnare vincendo a League of Legends? Troppo bello! Dove si firma?
Per come la vedo io ci si può effettivamente riuscire con impegno, costanza e volontà, ma allo stesso tempo bisogna essere disposti a sacrificare pezzi di sé e della propria vita, pezzi che potrebbero non tornare e su cui si cibano rimpianti e rimorsi. Può sembrarvi assurdo che un MOBA gratuito possa generare sensi di colpa del genere, ed era un concetto che anche io faticavo a credere fino a quando non l’ho vissuto in prima persona. Partendo dal 2013 e della stagione 3 menzionata, c’era già fervore nel gruppo riguardo le proprie posizioni nella classificazione del gioco ma, tutto sommato, sembrava ancora una cosa opzionale e totalmente slegata dal vero scopo che vedevamo in League of Legends. Si cercava di essere giocatori migliori ma senza chissà quale mira particolare, il divertimento rimaneva al centro di tutto. Nel 2014 però, con l’aumento del fenomeno e della massa giocante, sentivamo il bisogno di volere di più, di mirare a quei preziosi premi di fine stagione e di avere quantomeno la decenza di essere nella Lega Oro.
Con la diffusione a macchia d’olio del gioco e della sua filosofia ultra-competitiva, la percezione che avevamo era che il proprio grado nelle Classificate rappresentasse uno status sociale, quasi come se fosse un titolo di studio o un lavoro prestigioso da mettere sul curriculum. Se qualcuno ti chiedeva “Giochi a LoL?” subito dopo la domanda seguente era “Figo! Di che grado sei?” e se la risposta era Argento o inferiore eri solamente uno dei tanti, mentre se appartenevi all’Oro o superiore avanzavi di livello e diventavi il figo di turno. Chi frequentava Facebook o anche solo internet aveva un’idea di questo sentimento grazie ai miliardi di meme sui bronzini e sulla loro incapacità, accoppiati agli altrettanti screenshot di vittoria che i più egocentrici pubblicavano quando raggiungevano l’oro, sommersi di like e “ti prego insegnami!”.
La percezione che avevamo era che il proprio grado nelle Classificate rappresentasse uno status sociale
Riot Games dal canto suo sguazzava in queste dinamiche senza alcuna vergogna, aumentando la divisione tra i giocatori rilasciando statistiche che dicevano “Solo il 10% dei giocatori arriva a Grado X e se sei in esso sei fortissimo, mentre il resto della massa è solamente un ostacolo”, dando a chi arrivava ad Oro o superiore una serie di ricompense che gli permettevano di sbattere in faccia a tutti gli altri il fatto di essere migliori di loro. Una competizione a chi ce l’aveva più lungo tra milioni di iscritti, lontani dai professionisti che difficilmente avevano qualcosa in comune con il giocatore tipo.
E così, di mese in mese, la dinamica delle leghe non divenne solo una divisione di mere abilità, trasformandosi in barriere di separazione tra il prossimo e gli stessi amici che già si frequentavano. Si partiva deridendo i membri più casual del gruppo, quelli che vivevano il gioco come passatempo e giocavano alla bene e meglio, magari anche in Classificata. Questo era considerato l’affronto finale, perché in Classificata “ti devi impegnare, cazzo, altrimenti te ne rimani in Rapida e ti fai gli affari tuoi. Non ti è permesso divertirti in Classificata”. Giustamente i suddetti giocatori casual si incazzavano o offendevano e gli passava la voglia perfino di giocare, data l’aggressività. Tanto meglio, no? Rimanevano solamente quelli interessati a vivere il vero League of Legends.
Altri mesi passarono e piano piano le differenze di abilità distanziavano quelli bravi da quelli meno bravi. Quest’ultimi, per evitare di vedersi tirati fuori come i casual, iniziavano ad accaparrare più scuse possibili per non dare la colpa alle proprie abilità: “questo campione è rotto”, “che palle questo lag”, “il jungler non ganka”, “mid sta feedando”, “non sono capace di giocare support” e via dicendo fino a quando arrabbiarsi e fare i capricci non divenne la norma per tutti i giocatori di League of Legends, facendolo diventare uno dei giochi più tossici di sempre.
Per non parlare poi della gente che viveva per far alterare il prossimo, rendendo impossibile la vittoria a tutta la squadra perché per vincere serve cooperare, un concetto ancora non afferrato dall’80% dei giocatori del titolo. Che vi piaccia o meno sentirvelo dire, la community di LoL di quegli anni (e ancora oggi, non negatelo) era piena zeppa di gente pronta ad inveire contro il prossimo pur di non ammettere di aver sbagliato personalmente, basta guardare tutto il macello che montò con Tyler1.
Le partite si iniziano cercando subito i difetti nei propri compagni di squadra, incazzandosi palesemente per distogliere lo sguardo di tutti dal proprio operato e dai propri errori. Del resto, la stessa struttura di gioco non permette di farlo perché, altrimenti, si rischia di ammettere che il proprio livello sia al di sotto dei ranghi più apprezzati. Non sia mai che si pensi che siamo noi stessi il motivo per cui siamo bloccati in Argento, è sempre colpa degli altri incapaci che non permettono alle nostre capacità di uscire fuori.
Le partite si iniziano cercando subito i difetti nei propri compagni di squadra
Questo è un ragionamento che descrivo con veemenza perché l’ho visto attuare da me stesso, dal mio ex-gruppo di amici e da chi mi stava intorno. Lo stesso atteggiamento che mi portò a essere sempre infastidito e infuriato, anche quando il computer era spento ed affrontavo la vita reale. Lo stesso atteggiamento che portava me, ed altri, a cercare ogni volta pretesti per dimostrarmi migliore di chi mi stava intorno e a sostituire l’amicizia con dinamiche che si basavano esclusivamente su ciò che avveniva nelle partite di gioco.
Un fenomeno che mi portò a incentrarmi così tanto sul gioco da ignorare perfino l’università a favore di continue sessioni di partite Classificate per non sentirmi tagliato fuori o inferiore a chi conoscevo. Un’ossessione senza mezzi termini, la quale ha generato un’aura di aggressività, insoddisfazione e antagonismo talmente forte da far spezzare le amicizie una volta che alcuni di noi decisero di lasciar perdere LoL. E ancora oggi sento e vedo che tale influenza ingabbiante permane nelle vite di molti, nonostante l’avvento di Overwatch sia riuscito, miracolosamente, a spezzare il legame con il titolo di Riot Games.
In questo miasma tossico ci passai anni, dai sentori del 2013 fino alla fine del 2016 circa. E se da un lato ci sono stati avvenimenti molto positivi di cui sono estremamente grato, dall’altro rimpiango di essere caduto in quell’atteggiamento distruttivo, di non aver fatto nulla per evitare che inondasse il resto delle mie conoscenze e di aver permesso che generasse divisioni che ancora oggi riverberano con violenza. 10 anni di League of Legends, per me, significa riflettere su questo importante frangente della mia vita, segnato indelebilmente come una macchia impossibile da togliere, marchiata a fuoco sulla pelle proprio come il logo della compagnia.
E mi meraviglio, senza alcun intento malvagio, vedendo come il gioco continui ad avere un successo coì strabordante, chiedendomi se ancora oggi esso derivi sempre dalla disuguaglianza tra i giocatori e la costante tensione esistenziale sul voler essere il meglio del meglio. Una caratteristica che, indubbiamente, ha attirato persone insoddisfatte dalla propria vita e alla ricerca di un qualcosa in cui potersi sentire realizzati e talentuosi. Persone come indubbiamente mi sentivo di essere all’epoca in cui mi approcciai al competitivo di League of Legends, tanto da farmelo rendere la mia unica ragione di orgoglio e da averci speso somme di denaro considerevoli.
Ogni tanto, a ragione del mio investimento di soldi e tempo impossibile da rimborsare, torno a scaricare il client di gioco e a usare il mio personaggio preferito – Ezreal – per vedere se qualcosa è effettivamente cambiato. Non nella mappa di gioco, non nei campioni o nell’interfaccia del client. È nei giocatori che misuro quanto League of Legends abbia fatto passi avanti dal mio abbandono. Fino a oggi però, non ho mai trovato una singola partita dove non ci fosse qualcuno che al primo errore (mio o altrui) accorresse alla tastiera per far sapere alla chat di entrambi i team che “Omg, what a noob. Please report this idiot, I’ll go afk” e perfino su Reddit ci si chiede se un giorno LoL diventerà un gioco migliore dal punto di vista umano.
Un brindisi a questi 10 anni di immobilismo. Cin cin, feed mid.