“Il primo atto del fare architettura è mettere pietra sul suolo. Quindi non di mettere pietra su pietra, ma mettere pietra sul suolo. Vuol dire trasformare una condizione di natura, in una condizione di cultura. E, quindi, già di per sé, se è così, porta lo spirito dell’uomo. Porta i valori di questa trasformazione che è il segno di un bisogno dell’uomo di aver un habitat, di avere dei collegamenti con altri uomini, porta il segno di civiltà.”
Così parla l’architetto Mario Botta, esprimendo quella che, probabilmente, è una delle più antiche necessità umane: la comunicazione, intesa come creazione di un legame tra più individui, una condivisione di intenti che porta le persone a unirsi per cercare una condizione di vita migliore, per tutti.
Un assunto simile costituisce l’incipit della trama di Death Stranding, nuova opera di Hideo Kojima disponibile da pochi giorni su Playstation 4. In questo gioco, si è chiamati a ricreare una connessione tra frammenti di umanità dispersi su tutto il territorio statunitense dopo l’avvento di una catastrofe che ha quasi segnato la caduta definitiva della civiltà per come la conosciamo. Fin dai primi passi in questo mondo post apocalittico appare chiara la sconfitta dell’uomo per mano di qualcosa che lo trascende, troppo grande rispetto a lui, con la Natura che ha ripreso evidentemente possesso dell’ambiente urbano.
Come nell’Apocalisse di Giovanni, il “nuovo cielo” e la “nuova terra” contemplano montagne, fiumi e valli a perdita d’occhio, con ogni metro di terra, pietra o acqua dotato di un peso specifico peculiare sotto gli scarponi di Sam Porter Bridges, il protagonista della storia, il cui nomen omen esprime la necessità di fare da filo conduttore per trasmettere strumenti e informazioni volte a ricreare una comunità di esseri umani.
E proprio come un nuovo pontifex, Sam crea ponti (fisici e ideali), ambienti culturali in quella sterminata distesa naturale, offrendo all’uomo una seconda possibilità di plasmare il territorio a immagine e somiglianza dei suoi bisogni. Guidato dal giocatore, egli deve riconnettere un’enorme costellazione di città che ricorda in forma inversa la progettazione urbana del Barocco romano, dove il posizionamento degli obelischi nelle piazze creava dei punti fermi all’interno di una rete urbana già intricata dopo secoli di storia. Ragionando in modo opposto, nel contesto di Death Stranding il giocatore parte da una tabula rasa in cui i vari landmark non sono obelischi, ma città e avamposti di varie forme e proporzioni, da riconnettere con nuove infrastrutture.
Come spesso accade, la progettazione urbana intesa come ridisegno di uno spazio più o meno rurale verso un contesto urbanizzato è un’opera condivisa. Se nel mondo reale ci sono diversi attori da far sedere attorno a un tavolo per applicare delle trasformazioni su vasta scala, in Death Stranding avviene tutto in modo più spontaneo, perché non ci sono comitati, non c’è budget, non ci sono altri interessi. Ogni giocatore ha la stessa missione e lo stesso sandbox con cui interagire, creando una condizione di tacito silenzio/assenzo che permette di intervenire sul medesimo luogo per raggiungere un fine comune.
Quindi, se per andare da “A” a “B” la via più breve comporta il valico di una montagna, vorrà dire che un giocatore fornirà una scala, un altro una corda con il rampino e un terzo un avamposto postale per immagazzinare provvisoriamente i colli in eccesso. Oppure, se sarà necessario guadare un fiume piuttosto impegnativo, qualcuno getterà le fondamenta di un ponte, mentre altri provvederanno a inserire i giusti materiali per portare a compimento la costruzione.
Attenzione, però: non stiamo parlando di opere destinate a durare per sempre. Il gioco richiede continuamente questo sforzo progettuale e attuativo da parte dei giocatori, perché le nuove strutture hanno una sorta di obsolescenza programmata, grazie a un espediente narrativo che rende particolarmente effimera la loro presenza nel mondo. Se da un lato i tecnofossili relativi alla vecchia vita sulla terra sono ovunque incastonati come reperti archeologici nella memoria sotto poche dita di terra, le nuove architetture sono quanto di più provvisorio si possa immaginare.
Quindi, in un mondo in cui è fondamentale lasciare un segno del proprio passaggio anche solo per dare un segno di speranza agli altri messaggeri, l’unica eredità che il giocatore lascia ai suoi colleghi consiste in una sorta di solco sulla sabbia, un elemento che presto verrà spazzato via dal mare. Tale ideale va ancora una volta nella direzione della lotta disperata ed estenuante condotta da un mondo che si sforza per tornare a esse unito, nonostante sia pesantemente schiacciato da qualcosa di inconoscibile che potrebbe infliggere il colpo di grazia in ogni momento.
Com’è possibile, però, plasmare una nuova realtà senza mai incontrarsi e dialogare davvero? La solitudine è un aspetto fondamentale di Death Stranding, che porta i giocatori a collaborare senza mai interagire, ricorrendo a segnali, come fossero delle nuove pitture rupestri. L’unico link tra una partita e l’altra sta nella presenza di questi feedback condivisi a doppia mandata, che portano il singolo personaggio a “salire di livello”, diventando sempre più performante nel proprio lavoro. Non c’è alcuna compravendita di oggetti tra giocatori ma, al contrario, è possibile condividere ciò che si ha: un’attrezzatura, dei materiali da costruzione e perfino delle spedizioni che non si riesce a portare a termine. In termini di progettazione spaziale, questa condivisione fondata sul donare piuttosto che sull’arricchirsi esprime ancora una volta un nobile ideale di fondo, che ha come obiettivo l’ aiutarsi a vicenda come unica strada per sopravvivere in un mondo pesantemente ostile.
In questa immensa solitudine, però, il giocatore non è realmente solo, perché si interfaccia con diverse tipologie di IA e di mondo ricostruito. La civiltà non è svanita: ci sono delle vere e proprie città, molto simili a degli “abissi d’acciaio” di asimoviana memoria; degli avamposti personali e/o di natura utilitaristica; e, infine, ci sono i classici accampamenti di predoni, che dai tempi delle carovane attive su grandi distanze minano l’espansione della civiltà.
In tal senso, il design firmato da Kojima presenta diverse forme di architettura, che si differenziano per funzione e ideale su cui vengono fondate. Dopo un primo impatto di gioco con una grotta che ricorda l'archetipo dell’uomo delle caverne in cerca di riparo dai predatori, le nuove città si presentano al giocatore come delle opere imponenti, degli avamposti militarizzati irti di sorveglianza, che devono garantire la sopravvivenza delle persone. Sembrano esprimere da ogni metro quadro di cemento l’idea che la sicurezza e l’efficienza siano i due fattori fondamentali, quindi viene limitata al minimo la presenza umana in ambiente ostile, ricreando il tutto (o quasi) sotto terra.
Probabilmente ispirati visivamente all’architettura di strutture come il Svalbard Global Seed Vault, gli avamposti sono letteralmente dei periscopi architettonici atti a una singola funzione: mettere in comunicazione l’interno con l’esterno, esponendo la minore metratura possibile al pericolo. Anche le aree produttive non fanno eccezione a quest’idea, quindi non c’è da stupirsi se (per esempio) anche una nuova centrale eolica presenta delle caratteristiche che aumentano al massimo l’efficienza coprendo il minimo spazio possibile: non ci sono più delle enormi pale a raccogliere il vento, ma delle strutture fortemente verticali ed elicoidali, come giganteschi aghi piantati nel terreno. Efficienza, massimo risultato, minimo rischio di esposizione al mondo esterno.
Sotto il profilo sociologico dello sfruttamento di ambiente e strumenti, lo iato che si crea tra due generazioni molto diverse di tecnologia propone l’idea che, in questo nuovo mondo, l’uomo sembra aver appreso una lezione molto importante dalla catastrofe che lo ha colpito. L’iperconnessione presente nello status quo primigenio aveva “viziato” le persone, portando a uno sfruttamento dissennato dell’ambiente e a un malcontento legato a determinate condizioni di vita e lavoro. Ora, il gioco di Kojima sembra esprimere una razionalizzazione estrema degli elementi a disposizione, una sorta di nuovo equilibrio tra uomo e natura. Senza fare alcuno spoiler sulla trama, si può affermare che ci siano anche delle sequenze dialogiche che testimoniano quanto il gioco sia decisamente figlio della quotidianità reale, con alcune affermazioni che sono particolarmente impietose sulla sconfitta dell’umanità in favore della tecnologia e molto critiche nei confronti del lavoro nel mondo reale.
Infine, esiste un ultimo aspetto cardine in Death Stranding che delinea il modo in cui viene plasmato lo spazio: <strong>l’astrazione fisica del territorio</strong>. Stando alle parole dei personaggi non giocanti, lo spazio che Sam dovrebbe provare a connettere è immenso. Però, appare chiaro fin dai primi passi nel mondo esterno che si tratta di un’allegoria: quando ogni forma di comunicazione viene tranciata e ogni infrastruttura di scambio viene distrutta, risulta difficile anche instaurare un rapporto con il proprio vicino di casa, a prescindere dalla distanza reale.
Quindi, va da sé che lo spazio di un’intera nazione possa essere riprodotto in una scala che abbandona la verosimiglianza in favore dell'impatto positivo sulla narrazione. Le città diventano grandi come dei quartieri, gli avamposti diventano stanze e i predoni nomadi riescono a sopravvivere solo grazie a piccolissimi accampamenti dispersi sul territorio. In un contesto ludico in cui altri open world hanno abituato i giocatori a delle passeggiate nel nulla forse un po’ troppo dispersive, un gioco che fa del percorso da “A” a “B” (e viceversa) il suo cardine riesce a dosare alla perfezione la dimensione degli spazi, evocando solo mentalmente dei percorsi più sconfinati grazie alla fatica individuale e al deterioramento degli oggetti e delle opere create dall’uomo. Tutto viene ristretto, il tempo a disposizione è poco, calibrato in modo tale che si ha sempre la sensazione di essere sul filo del rasoio.
Tra le mille stratificazioni filosofiche e narrative di Death Stranding, l’interazione tra uomo e spazio è sicuramente quella fondamentale su cui si basa l’intero sistema di gioco e fruizione del prodotto. In una realtà in cui si perdono di vista le esternalità della iperconnessione, avere nuovamente la percezione del peso di ogni singolo pacchetto (sia esso di dati o di beni) riporta con i piedi per terra, immersi nel fango, proprio come Sam.