La mia estate all'Ikkoku-kan
Un racconto di come Maison Ikkoku di Rumiko Takahashi abbia incantato un giovane adulto, a cavallo di un cambiamento generazionale.
Tutti ci ricordiamo la nostra prima cotta “speciale”, la ragazzina con gli occhiali e le trecce che nessuno guardava ma che per te era bellissima. Tutti ci ricordiamo anche le nostre prime cotte in ambito nerd: Margot (Fujiko) nella mitica seconda stagione di Lupin III, accompagnata da quella spuria ma bellissima ballata in fisarmonica. Lamù, con i suoi dentini da vampiro e il bikini tigrato. Sabrina/Madoka, Nadia e potrei continuare. Ma poi accade anche qualcos’altro.
La perdita dell’innocenza, la scoperta che le favole non esistono. Peter Parker non riesce a salvare Gwen Stacy. Cloud assiste impotente alla morte di Aerith e nel frattempo nella tua vita arrivano i primi lutti familiari e sei abbastanza grande per capirlo. I tuoi nonni, se sei abbastanza fortunato.
La gente intorno a te comincia a guardarti in modo diverso: non sei più il bel bambino a cui tirare le guance, sei un adolescente che smette di abbracciare la mamma. E poi arriva la maturità, quella scolastica, il diploma, che coincide con la maturità della vita.
Ed è lì che mi trovai io, in quella estate successiva al mio diploma. Ero diventato grande, che me ne rendessi conto o meno. Certo, avevo compiuto 18 anni l’anno precedente, l’ultimo anno ci andavo autonomamente in auto. Ma ero ancora uno studente. Adesso non più. E per autoconvincermene, mi cercai un lavoretto estivo prima di decidere se lavorare o continuare a studiare all’università.
Solo che ero e sono un maledetto nerd, quindi trovai lavoro in una fumetteria di amici che in estate montavano banchetti per vendere alle varie fiere estive. E in una di queste, complici i pomeriggi estivi con poca gente (manco fosse Summer on a solitary beach di Battiato), mi intrattenevo leggendo ciò che vendevo, l’errore più clamoroso che ogni spacciatore non dovrebbe mai fare.
L’Italia in quel periodo stava attraversando la seconda febbre gialla. No, nessun virus asiatico come oggi. Semplicemente, complice il successo su Italia 1 di Dragon Ball Z (all’epoca trasmesso in prima visione), i manga erano tornati di moda. Star Comics e Panini pubblicavano l’impossibile a ritmi serrati, e la gente comprava.
Ed è lì che lessi per la prima volta, a 19 anni, Maison Ikkoku o Cara Dolce Kyoko per come la conoscono alcuni di voi. Rumiko Takahashi la conoscevo. Lamù è patrimonio dell’umanità. Ranma ½ spopolava nelle reti private nonostante il MOIGE dicesse che faceva diventare sessualmente ambigui.
Ma Maison Ikkoku era diverso, non solo perché i protagonisti non erano più adolescenti ma adulti in carne e ossa, incastrati in una delicatissima e bellissima storia d’amore per gente “grande” senza nessun pretesto fantasy/paranormale. Un ragazzo, Godai, che si innamora della sua amministratrice di condominio, Kyoko, una giovane e bellissima vedova.
Non mi innamorai di Kyoko, mi innamorai dell’idea dell’amore.
Nessun villain. Il suo rivale in amore, il ricchissimo e bellissimo Mitaka, non fa mai niente di eccessivamente scorretto ed i suoi sentimenti per Kyoko sono sinceri e puri quanto quelli di Godai. I veri cattivi sono due: la morte, che ha colto il marito di Kyoko, Soichiro, trasformandolo in un ricordo “invincibile”, e la società, che ti vuole membro produttivo e non perdona i tuoi fallimenti. E Godai, dal semplice innamorarsi di Kyoko, capisce che si sta innamorando dell’idea di passare il resto della sua vita con lei.
Non vuole baciarla o portarsela a letto. Vuole sposarla. E la loro storia d’amore non avrà il compimento quando avranno fatto chiarezza nei loro sentimenti (pur essendo parte integrante della storia), ma quando Godai avrà trovato un lavoro stabile, non un deus ex machina che lo renda ricco, ma un modesto impiego per poter vivere.
Semplice, puro, geniale. Come tutti i capolavori.
E del fatto che per trovare la persona giusta prima di tutto devi essere TU la persona giusta per qualcun altro. Crescere, trovare un lavoro stabile. Essere autosufficienti in modo tale da essere in grado di prendersi cura di qualcun altro. Maison Ikkoku dovrebbe diventare una lettura fondamentale, come lo fu per tanti anni “Il Giovane Holden”, per capire che ad un certo punto si cresce.
Ma adesso arriviamo al triste, Shymalayano plot twist. Perché io sono classe ’81, e quell’estate magica di passaggio all’età adulta era anche l’estate del 2001. Il prologo di ciò che ci aspettava arrivò a Genova, con le manganellate, gli spari gli adulti che ci parlavano di uno che se l'era cercata e l'invito non troppo velato a tenere la testa bassa e lasciare che "i grandi" continuassero a lavorare. Poi arrivò il settembre da ricordare, quasi fosse una macabra parodia della canzone degli Earth, Wind and Fire, era quello delle World Trade Center. E senza nemmeno cominciare, l’età adulta mia e della mia generazione smise di esistere.
Diventammo la generazione perduta, la prima dal dopoguerra la cui vita sociale sarebbe stata peggiore di quella precedente. Precariato, paura ed infine, come quasi uno sberleffo finale, i sempre eterni insulti di quelli prima di noi sul nostro essere asociali, fannulloni, choosy. Ma da qualche parte, in una timeline alternativa, quel futuro esiste ancora. So che è così.