STAI LEGGENDO : Il femminismo usa e getta dell'ancella

Il femminismo usa e getta dell'ancella

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La serie tv tratta dal libro di Margaret Atwood offre una riflessione sul femminismo o è solo un'operazione di facciata un po' furbetta e girata in maniera ripetitiva?

Attenzione: contiene spoiler di The Handmaid's Tale.

 

Lui prende a cinghiate la moglie davanti all'amante. Ma sì, mettiamoci un bel primissimo piano pelvico sulla fibbia slacciata.  E cinque minuti di gemiti della sottomessa in sottofondo, mentre nella penombra della stanza una lampada d'epoca fa risaltare gli occhi azzurri dell'altra donna. Questa è Arte. Speculative fiction, altro che fantascienza con le astronavi (ALLARME SARCASMO).

Facciamo così: io non vi vengo a dire che pornografia vi deve titillare, ma voi vi scrivete la vostra fanfic mature non-consensual da pubblicare su AO3 senza venire a spacciarmela per importante impegno politico. Va bene?

Quello su cui vi romperò le scatole saranno le basi della narrazione visiva e del femminismo contemporaneo: ovvero ciò che manca alla seconda stagione di The Handmaid's Tale.

Per tentare di compensare queste lacune c'è solo una formula ripetuta per quattordici lunghissimi episodi:

  1. facciamo soffrire la protagonista e possibilmente qualche altra donna
  2. la protagonista spalanca gli occhioni
  3. foto di scena spacciate per inquadrature
  4. altre disgrazie
  5. un hashtag alla moda viene spacciato per messaggio
  6. in un'inquadratura tutta giocata sul contrasto rosso/bianco, la protagonista si rivela essere una badass a cui mancano giusto i poteri di Fenice degli X-Men
  7. sarà per quello che se ne sbatte allegramente se qualche altra donna soffre in conseguenza delle sue azioni?

Narrativamente, è noioso e fondamentalmente pigro. Se si considera la sofferenza degli esseri umani che ancora nel 2018 lottano per la propria dignità e, spesso, per la propria vita, tutto questo è semplicemente un insulto.

Iniziamo dalle origini: iniziamo dalla madre. Nel libro, la madre di Offred è una critica non troppo sottile delle femministe della second wave e a come le loro idee siano al fine simili a quelle dei fanatici di Gilead. (Ne vedete ancora in giro, purtroppo: sono quelle che sostengono che le donne trans non siano donne e che la procreazione assistita sia contronatura.) Nella serie, la madre di June è una Santa Immacolata del Condivisibile. Nel libro, la manifestazione a cui Offred viene trascinata invece di andare al parco giochi è un rogo di riviste porno. Nella serie, la piccola June è incantata dalla potenza delle donne che bruciano i nomi di chi le ha molestate. #MeToo. Così attuale, così sovversivo.

 

Il femminismo della seconda stagione di The Handmaid's Tale è un hashtag ripetuto a pappagallo. È un femminismo senza complessità, senza contraddizioni, senza la difficoltà che viene dal confronto con la varietà del mondo. È quello che le attiviste americane chiamano white feminism: un femminismo per signore borghesi che non prende in considerazione come le donne che appartengono anche a una minoranza oppressa debbano fare i conti con altre forme di discriminazione. È un femminismo che ignora come i regimi totalitari abbiano quasi sempre una deriva verso pratiche di supremazia razziale (nel libro un inciso raggelante implicava che i neri fossero stati chiusi nei lager e gli ebrei fossero stati sterminati, ma nessuno se ne fosse preoccupato perché troppo preso dai propri problemi). È un femminismo in cui gli unici due personaggi neri sono relativamente e poco realisticamente al salvo in Canada e decisamente esclusi dal centro della narrazione: il marito di June non è nemmeno più un fattore nel triangolo sentimental-sessuale di sua moglie, il dramma di Moira è poco più di un'appendice in cui, a voler essere perfidi, sembra che l'utero in affitto porti un po' sfiga.

È un “femminismo” quasi sempre antipolitico e senza rischi, in cui il Cuore di Mamma è più importante della lotta per i diritti di tutte. In questo Serena Joy si dimostra più rivoluzionaria della nostra protagonista: mentre June declama il suo dolore per la separazione dalla figlia e se ne frega altamente delle Marta che hanno rischiato la vita per organizzare la sua fuga, l'artefice di Gilead coinvolge le altre Mogli in un'azione collettiva. E, paradossalmente, forse l'unico punto politico e realistico della stagione è la conversione quasi miracolosa di Serena Joy a opera di Eden: la “teologia femminista” è una corrente di pensiero riconosciuta, ci sono associazioni di rabbine che celebrano Bat Mitzvah clandestini al Muro Occidentale di Gerusalemme e ordini di suore attiviste per i diritti gay; e al centro di tutte queste ribellioni si può trovare una donna che legge un Libro sacro.

Ma, al dunque, c'è pochissima ribellione nel femminismo di The Handmaid's Tale: è un femminismo essenzialmente perbenista e conservatore. La lesbica arrabbiata Emily dovrebbe imparare qualcosa dalla dolce Jeanine, smetterla di odiare tutti, e aspettare con fede. Poco importa che la pura di cuore abbia scoperto l'amore di Dio dopo essere stata plagiata sotto tortura nella prima stagione: il suo calore riesce anche a resuscitare il bambino malato davanti a cui la scienza si era arresa. Zia Lydia in fondo si prende cura degli innocenti, a Serena Joy tutto è perdonato; e anche Nick può portare avanti qualunque violenza emotiva verso sua moglie ma alla fine gli dispiace tanto, poverino. Gilead non è così male: ora tutte le Ancelle si chiamano per nome in mezzo al supermercato e quei vestiti sono davvero eleganti; la Offred del libro rubava il burro in mancanza di una crema per le sue mani secche, la June televisiva è slanciata persino in abito prémaman. Intanto in Canada i rifugiati dalla teocrazia cantano America The Beautiful, con quel ritornello che dichiara “God shed his Grace on Thee”: la scena della fucilazione in Alba Rossa diventa un editoriale del New Yorker.

 

A questo punto ci si potrebbe perdere in un dibattito sull'importanza del messaggio in un'opera, soprattutto in un'opera il cui selling point è così legato alla politica. Peccato che la seconda stagione di The Handmaid's Tale sia un disastro pretenzioso anche dal punto di vista formale.

La regia è basata sulla ricerca di "immagini perfette", visivamente gratificanti, tutte giocate sul contrasto di luce/ombra e che nel dubbio coprono le imperfezioni con un velatino anni '30. Ma l'accumulo di bei tableaux vivant rende impossibile un campo-controcampo coerente: un dialogo tra due personaggi viene inquadrato dall'alto, poi dal basso in Dutch angle (ci sono più riprese oblique che in piano, qualcuno deve aver letto che creano tensione); poi a livello degli occhi, poi di nuovo dal basso ma da un angolo completamente diverso... È una checklist di potenziali screenshot.

Anche le scene d'azione sono soffocate dal manierismo. Ci sono due modalità: urla e lacrime isteriche sui toni pallidi del grigio, oppure un grande sfoggio pirotecnico in cui cool handmaiden don't look at explosions ma vanno verso la riscossa nel loro mantello rosso da supereroina, pronte a lottare sole contro il mondo.

A proposito di scene isteriche: The Handmaid's Tale è un saggio su come prendere splendide attrici (e attori: Max Minghella su tutti) e distruggerli nella ricerca spasmodica del secondo Emmy. Il caso più immediato è Elizabeth Moss, i cui “intensi” primi piani sembrano essere parte del suo contratto, ma anche Yvonne Strahovski viene ridotta a grande prova d'attrice che fa la cattiva. Alexis Bleidel è perennemente impegnata a far dimenticare Una mamma per amica, mentre Ann Dowd ricopre il ruolo della vecchia gloria. Quanto a Madeline Brewer, una parte da disabile è sempre un classico dell'impegno sociale e del ricatto morale.

Anche l'unico aspetto coerente della trama il ricorso costante a due dei più triti trucchi del mestiere: il torture porn e il Triangolo. Non basta il PTSD a giustificare gli sbalzi non solo d'umore ma anche della psicologia di Serena Joy. L'episodio dedicato a lei nella prima stagione era una straziante e inesorabile discesa all'inferno; nella seconda stagione, l'episodio “canadese” è un'accozzaglia a un passo da Bond, James Bond.

Sempre in quell'episodio il suo dramma doveva essere sottolineato con un'altra scena di stupro: è stata cancellata, ma è un cambiamento omeopatico nella lista della spesa di mutilazioni, torture, scenate gratuite, impiccagioni.

Quanto al Triangolo, non è più una scelta estetica: è un kink sessuale, e nemmeno originale. Anche lasciando il marito di June in Canada, abbiamo:  Nick/June/Fred, Nick/Eden/Isaac e June/Fred/Serena; a quest'ultimo ormai non manca qualche vibra lesbica tra padrona di casa e Ancella, tanto per completare il quadretto.

Anche le potenzialità del personaggio di Eden vengono quasi totalmente sprecate in una storia di corna coniugali e in un elaborato martirio: restano un elegante salto in piscina al ralenti, una citazione paolina non esattamente originale (la cosa migliore della scena), un MacGuffin, e la speranza di rivedere quell'attrice in una produzione migliore. Alla fine, il diluvio continuo di disgrazie e l'ossessione per la threesome sono così abusati che persino la reazione alla scena dello stupro di coppia diventa un sonnacchioso “ah, certo, ci mancava questa combo.”

Qui forse dovrei parlare del lupo. Ma vi prego, non fatemi parlare del lupo. Sto cercando di dimenticarlo, quel lupo. Certe allegorie riescono solo a Sorrentino, e anche lui a volte manca la mira.

Giro su Netflix. In The Expanse c'è Naomi Nagata (Dominique Tipper) che incarna tutta la  potenza, la necessità e le contraddizioni di Black Lives Matter in un'attrice nera di East London; c'è Chrisjen Avasarala (Shohoreh Aghdashloo) che è un saggio sul Lean In in sari da capogiro e turpiloquio da scaricatore di porto; c'è Julie Mao (Florence Faivre) che ti fa sentire il costo immenso dell'impegno politico portato fino in fondo; c'è Bobbie Draper (Frankie Adams) orgogliosa della sua cultura che “trasformerà il deserto in un giardino” (dove l'ho sentita?) e pronta ad affrontarne i lati oscuri con la potenza di una ragazza Māori in tuta potenziata da Marine Marziana.

Certo, in The Expanse ci sono le astronavi e le battaglie nello spazio; c'è addirittura qualche momento di commedia. In The Handmaid's Tale ci sono gli abiti rossi sulla neve bianca, guarda che immagine iconica; ci gli occhi sgranati e una scena isterica, guarda che recitazione sofferta; ci sono gli slogan come su Twitter, guarda come siamo di attualità.

Ma non riesco a credere che questa pretenziosità sia il prezzo per essere prese sul serio. Io non ho paura delle astronavi: se ci saranno a bordo le donne giuste lotteremo insieme e, forse, avremo una galassia migliore per tutti.

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